Gli stati di vita del cristiano |
Se lo stato di vita cristiano è uno stato di comunione, questo è perché Cristo è per eccellenza colui che si è donato alla Chiesa e attraverso essa al mondo.
In un tale rapporto alla Chiesa, sua fidanzata e sposa, egli non è però senza relazione all'originario mistero della creazione di uomo e donna.
« Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una sola carne. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa » ( Ef 5,31-32 ).
E poiché Cristo non è venuto a dissolvere nessuna delle opere del Padre, ma a dare a tutte compimento, innalzandole, così egli prese questa non semplicemente a modello per la sua umana relazione d'amore alla Chiesa, ma ricompensò per così dire il modello offertogli, conferendo ad esso l'espressa consacrazione sacramentale del Nuovo Testamento.
Lasciando però entrare il suo amore incarnato non nella forma matrimoniale, ma dandogli piuttosto la forma verginale, egli mostra chiaramente che l'elemento formale della relazione fra uomo e donna dello stato originario sta nella dedizione primariamente spirituale, e la Chiesa stessa vigila sull'ordine degli stati così fondato: « si quis dixerit, statum coniugalem anteponendum esse statui virginitatis vel coelibatus, et non esse melius ac beatius manere in virginitate aut coelibatu quam iungi matrimonio, anathema sit » ( Trid. sess. 24, can. 10 ).
Poiché però Cristo non solo non condanna il matrimonio, ma approva la relazione tra uomo e donna dello stato originario e la conferma come proveniente da Dio ( Mt 19,6 ) e dalla croca la santifica redimendola ( « Gratiam vero, quae [ … ] coniuges [ … ] sanctificaret, ipse Christus, venerabilium sacramentorum institutor atque perfector, sua nobis passione promeruit », Trid. sess. 24 ), egli mostra che la forma del suo amore non sta di fronte al mistero dello stato originario in maniera estranea, ma può invece innalzarlo a vero contenitore ed espressione di questo amore.
Così le relazioni tra uomo e donna nel matrimonio da una parte, Cristo e la Chiesa nella Redenzione dall'altra, divengono così strette che si possono oramai comprendere questi due misteri soltanto l'uno attraverso l'altro.
Il mistero della creazione originaria rimane il « primo »: « Non lo spirituale viene per primo, ma prima ciò che è terreno, e solo dopo ciò che è spirituale » ( 1 Cor 15,46 ); il mistero della redenzione troverà dunque la sua forma nell'adeguamento ( omoìoma, Fil 2,7 ) a ciò che sta prima.
Ma questo adeguamento è talmente un atto della più sovrabbondante obbedienza, che colui che lo compie diventa per ciò stesso assoluto schema e modello ( Vorbild ), anzi archetipo ( Urbild ) di tutte le realtà creaturali, le quali devono incondizionatamente adeguarsi a lui per ottenere la loro verità ultima.
Questo trasformante adeguamento a Cristo viene non solo esigito, ma allo stesso tempo anche donato: con la grazia sacramentale, che fa della comunione creaturale del matrimonio una comunione cristiana.
Come attraverso incarnazione, croce e redenzione, Cristo diventa significato assoluto della creazione, e al di fuori del suo sole c'è soltanto la tenebra della maledizione, così nel matrimonio cristiano c'è solo l'aut-aut tra una vita secondo il senso soprannaturale e la legge della grazia sacramentale oppure un perdere il vero senso del matrimonio in generale.
L'unione carnale di uomo e donna non è niente di accidentale per la persona umana; essa è così essenziale e centrale che quasi tutta la narrazione circa l'uomo ideale, quale Dio lo fece nell'Eden, sta sotto il segno della distinzione di uomo e donna.
E sebbene l'uomo abbia la differenza sessuale in comune con gli animali, non si dovrebbe tuttavia dubitare del fatto che la divisione primaria di uomo e donna, fondata insieme al suo essere natura spirituale che domina sull'intera creazione, fa parte della « somiglianza di Dio » che a lui solo fra tutte le creature fu donata, non meno che il suo dominare sulla creazione.
« Allora Dio disse: Facciamo l'uomo a nostra immagine, simile a noi!
Egli dominerà sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche del campo e su ogni essere che striscia sul terreno.
Così Dio creò l'uomo a sua immagine. A immagine di Dio lo creò: maschio e femmina egli li creò.
E Dio li benedisse e ordinò loro: Siate fecondi e moltiplicatevi! Riempite la terra e soggiogatela!
Dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che si muova sulla faccia della terra! » ( Gen 1,26-28 ).
Proprio anche la fecondità del moltiplicarsi, che ha origine dall'unione di uomo e donna, è immagine di quella misteriosa essenza di Dio che qui dice a se stesso in un imperscrutabile plurale: « Facciamo! »
L'essenza di Dio è infinita fecondità nella Trinità, che si manifesta verso l'esterno nella creazione, e ogni cosa che è fatta secondo la sua immagine deve essenzialmente partecipare a questa fecondità.
Così gli uomini vengono creati e posti direttamente nella fecondità, poiché essi vengono formati come uomo e donna, e la prima parola che Dio dice ad essi è questa: « Siate fecondi e moltiplicatevi ».
Questo essere immagine è allo stesso tempo naturale e per grazia, come infatti creaturalità ed elevazione alla grazia nello stato originario non sono affatto da separare.
La sessualità naturale è donata all'uomo completamente a favore della sua fecondità, che è unitariamente naturale e soprannaturale.
E non è affatto vero che la dimensione sessuale regni solo nella sua sfera materiale, mentre quella dello spirito, presumibilmente la sede della vera e propria « immagine di Dio », rimarrebbe non toccata da essa.
Infatti la distinzione sessuale regna attraverso tutto lo spirito dell'uomo, fino alle radici più profonde e alle cime più alte, al punto che la differenza corporale appare, accanto a questa differenza che concerne l'intera persona, come un semplice momento parziale.
Il mistero della fecondità, per la quale Dio ha fatto l'uomo e attraverso la quale egli è un'immagine della Trinità eternamente feconda, è però connesso con l'essenza di Dio ancora più strettamente di quanto il primo racconto della creazione lascerebbe supporre.
Dio creò l'uomo non solo maschio e femmina così come aveva creato sessualmente distinti gli animali.
Egli li creò non solo per giungere all'unità a partire dalla dualità dei sessi, ma creo espressamente la loro dualità a partire dalla loro propria unità.
Egli fa provenire Eva dal fianco di Adamo, non in una generazione naturale, ma in una maniera preternaturale, in cui egli si serve della strumentalità di Adamo che dorme, ma per il resto esegue l'opera senza di lui e lo pone poi davanti al risultato compiuto: « Dio plasmò la costola che aveva tolto ad Adamo facendola diventare una donna, e la condusse ad Adamo » ( Gen 2,22 ).
L'unità da cui scaturisce la comunità di Adamo ed Eva è così l'unità della carne di Adamo, che per grazia diviene origine della dualità di uomo e donna.
Adamo riconosce subito in questo dono condottogli da Dio se stesso, la sua propria carne.
« Adamo esclamò: Questa è finalmente ossa delle mie ossa e carne della mia carne! Essa si chiamerà donna, perché è stata tolta dall'uomo! » ( Gen 2,23 ).
Il comando della fecondità che Dio impartisce ad Adamo ed Eva è perciò un comando non solo morale, lasciato alla loro libertà, con l'adempimento del quale essi rispecchiano qualcosa dell'archetipo secondo il quale essi sono stati creati: la fecondità della Trinità.
Esso proviene di volta in volta già da una fecondità fisica di Adamo, che Dio ha operato durante il suo sonno e che con lo scaturire di Eva dall'unico, vivente corpo di Adamo, è divenuta un'immediata immagine fisica del sorgere dell'eterno consustanziale Figlio dalla sostanza del Padre.
In nessun modo Adamo ed Eva sono una sola cosa soltanto in una astratta « natura umana », per divenire poi attraverso la loro unione sessuale un'unità concreta e con ciò anche feconda, bensì l'origine della loro astratta unità come uomini è essa stessa già concreta unità e fecondità, per grazia, e così è immagine della divina, concreta unità d'essenza con la sua fecondità trinitaria.
Certo uomo e donna rimangono solo immagine, è la loro unità è un'unità in divenire, in movimento, da realizzare in una sempre nuova attualizzazione, così come poi anche il frutto della loro unione rimane sottratto al loro potere e viene donato loro da Dio.
Per questo Eva, dopo che ha partorito il suo primo figlio, dice: « Ho ottenuto un rampollo con l'aiuto del Signore » ( Gen 4,1 ).
La fecondità della loro comunione è certo una fecondità naturale, poiché Dio in verità aveva pronunciato anche sugli animali la benedizione della fecondità ( Gen 1,22 ) e questa benedizione non verrà ritirata dopo il peccato.
E tuttavia nel caso dell'uomo la fecondità naturale è come inalveata nella sua soprannaturale origine e nel suo fine soprannaturale, ai quali tutta la sua natura doveva servire e ancor sempre deve servire.
Poiché Adamo riconosce in Eva colei che per grazia « è ossa delle mie ossa e carne della mia carne », « per questo l'uomo lascia suo padre e sua madre e si unisce alla sua donna, ed essi diventano un unico corpo » ( Gen 2,24 ).
La sua fede, che lo chiama fuori da ogni rifugio in se stesso, nel suo ambiente, nella sua patria, per trovare quel completamento di cui egli ha bisogno al fine di ritrovare tutta la sua carne e ossa, non è una fede puramente naturale, ma una fede di più profonda provenienza e perciò anche di mete più lontane.
E tutto ciò all'interno dell'innocenza del paradiso terrestre.
Il prelevamento della costola e la separazione di uomo e donna non è per niente identica ad un peccato originale o anche soltanto ad un suo gradino previo.
Anche il « lasciare padre e madre », per unirsi alla moglie, sta ancora interamente all'interno della regola dello stato originario.
Il prelevamento della costola è per Adamo una grazia che lo eleva infinitamente: la grazia di poter partecipare al mistero dell'autodedizione del Padre al Figlio, che per così dire si priva della sua propria divinità per donarla al suo eternamente consustanziale Figlio.
È la ferita dell'amore che Dio imprime in lui per introdurlo nel mistero dell'amore divino, che consiste in pura autodonazione senza limite ( Selbstverschwendung ).
Diventa così comprensibile che dopo il peccato non solo continua ad esserci una certa fecondità naturale del matrimonio, bensì anche ora il matrimonio nella sua interezza proviene da più lontano e mira più lontano che una semplice comunione naturale.
Il naturale conserva una provenienza soprannaturale e perciò anche una finalità soprannaturale.
E nell'Antico Testamento, nel quale il matrimonio era l'unico stato normativo dell'uomo, poiché la verginità dell'Eden non c'era più e la verginità della croce non ancora,1 lo stato matrimoniale era collocato come un tutto fra la provenienza edenica, che rimane conscia - « Non avete letto che il Creatore all'inizio li creò maschio e femmina e disse: Perciò l'uomo lascerà padre e madre ( … )? » ( Mt 19,4-5 ) - e il futuro messianico, al quale ogni matrimonio è orientato e per il quale ogni infecondità appare come una vergogna e una punizione di Dio.
Un celibato praticato coscientemente sarebbe nell'Antico Testamento privo di ogni senso, anzi potrebbe venir considerato solo come disobbedienza nei confronti dell'originario comandamento natural-soprannaturale di moltiplicarsi e come mancanza di fede nei confronti della promessa fatta ad Abramo.
Così l'angelo Raffaele dice a Tobia: « Prendi con te la vergine nel timore del Signore, spinto più dal desiderio di aver dei figli che dalla concupiscenza, affinché tra la discendenza di Abramo tu ottenga ricca benedizione di figli » ( Tb 6,18 ); e Tobia stesso prega tre notti prima di unirsi a Sarà: « Signore, Dio dei nostri padri, ti lodino il cielo e la terra, il mare, le sorgenti e i fiumi e tutto ciò che tu hai creato.
Tu hai formato Adamo dal fango della terra e gli hai dato Eva come compagna.
Tu sai, o Signore, che io prendo in sposa questa mia sorella non per voluttà, ma per amore della discendenza, attraverso la quale il tuo nome sarà lodato in eterno » ( Tb 8,5-9 ).
L'unione sessuale è nell'Antico Testamento unione nella promessa e perciò nella fede: « Noi infatti siamo figli dei santi, e non possiamo unirci come i pagani che non conoscono Dio » ( Tb 8,5 ).
Ma tutto questo si compie al di fuori dell'unità paradisiaca di fecondità e verginità.
L'unità degli stati è irrecuperabile, e l'essenziale completamento del matrimonio, la verginità e la sua fecondità speciale spirituale e soprannaturale sono ancora vive soltanto come lontano ricordo e come futuro irrappresentabile.
Che « la vergine concepirà e partorirà un figlio » ( Is 7,14 LXX ): interpretare ciò rimane riservato al tempo dell'adempimento.
Che in generale la verginità possa avere un senso in Dio e una fecondità, non era possibile nel tempo delle prefigurazioni secondo la carne intravvederlo.
Che « al primo Adamo, che era un essere di natura sensibile » potesse subentrare un « secondo Adamo, che è spirito che vivifica » ( 1 Cor 15,45 ), che la frase del Siracide: « Al di sopra di tutti quelli che hanno vissuto nel mondo sta Adamo » ( Sir 49,16 ) potesse venire un giorno superata dalla frase di Paolo: « Nel nome di Gesù si devono piegare tutte le ginocchia, nei cieli, sulla terra e sottoterra » ( Fil 2,10 ): questo non era possibile prevederlo.
Così nel Vecchio Testamento la fecondità rimane di fatto una fecondità limitata.
Il flusso illimitato della fecondità cattolica è solo accennato da lontano nella delimitata fecondità del matrimonio veterotestamentario: « Bevi acqua dalla tua fontana e flutti scorrenti dalla tua sorgente. Fluirà la tua fonte al di fuori, riversandosi sulle strade, con mille rigagnoli?
No, essa deve appartenere a te solo, e accanto a te nessun altro.
La tua fonte sia benedetta. Gioisci della donna della tua giovinezza, ( … ) l'amore per lei possa sempre allietarti! » ( Pr 5,15-18 ).
Il matrimonio è comunione di vita come protezione dalla minaccia della solitudine non gradita all'uomo.
« Due sono meglio che uno solo ( … ) Se si dorme in due c'è più calore. Come può uno riscaldarsi da solo? » ( Qo 4,9-11 ).
« Chi acquista una donna, guadagna la proprietà migliore: una compagna che gli si confà, e una colonna a cui appoggiarsi.
Dove non c'è alcuno steccato, il terreno verrà saccheggiato.
Dove non c'è alcuna donna, là c'è lamento e smarrimento.
Chi si fida di un predone, che tutto armato imperversa di città in città?
Così accade all'uomo che non ha casa e fa sosta là dove arriva alla sera » ( Sir 36,24-27 ).
E tuttavia questa assicurazione dell'esistenza attraverso il matrimonio non è intesa egoisticamente, ma come l'ovvia grazia che il Creatore concede all'uomo che si sottomette al suo insegnamento.
Questa grazia è una grazia di legame e dunque di fedeltà, una fedeltà che non può venir separata dalla fedeltà del credente nei confronti di Dio.
In Dio viene stretto il vincolo matrimoniale; Egli lega in unità e contemporaneamente dona la fecondità.
Indivisibili sono nell'Antico Testamento fedeltà matrimoniale e fedeltà al patto divino.
Sempre nuovamente la fedeltà al patto viene descritta nell'immagine della fedeltà matrimoniale ( Os 2,21ss; Ger 2,2; Ez 16 ), ma anche la fedeltà matrimoniale viene posta sotto la protezione della fedeltà al patto con Dio.
Perché Dio non guarda più con favore ai sacrifici del popolo?
« Solo per questo, perché il Signore è stato testimone fra te e la donna della tua gioventù, la fedeltà alla quale tu ora hai infranto, sebbene essa fosse la tua consorte, la donna a te affidata.
Non ha Egli creato un essere unico, che ha carne e respiro vitale?
E cosa cerca questo essere unico? La discendenza di Dio! Proteggi dunque il respiro di Dio, e non essere infedele alla donna della tua giovinezza! » ( Ml 2,14-15 ).
Nessun matrimonio viene contratto altrove che in Dio, dal quale ha origine l'unità di uomo e donna, e il quale esige come pure dona la fecondità di questa unità.
La fedeltà è una caratteristica indivisibile: non si può mantenerla nei confronti di Dio e infrangerla nei confronti della moglie, ma nemmeno si può conservarla per la moglie senza mantenerla nei confronti di Dio.
Dove non c'è fedeltà verso Dio, là c'è già adulterio, e ogni fedeltà, ogni fiducia, ogni sincerità è svanita.
« Infatti essi sono tutti quanti adulteri, una banda di imbroglioni; con la menzogna, e non con la verità essi si sono impadroniti della nazione.
Si guardi ognuno dal suo amico! Nessuno si fidi del suo fratello!
Poiché ogni fratello è un impostore. Ogni amico cerca di calunniare.
Ognuno inganna l'altro, e nessuno dice la verità » ( Ger 9,1-4 ).
Nel popolo di Dio la verità è indivisibile: essa è la verità di Dio oppure è menzogna.
Un matrimonio deve perciò essere contratto in Dio; deve avere Dio per testimone, per stare all'interno del patto della promessa di Dio.
Questo vale anche durante il tempo in cui l'adempimento del matrimonio previsto in principio è divenuto impossibile a causa del peccato.
Vale anche laddove Dio, poiché l'adempimento di Cristo è ancora lontano, lascia infiltrarsi nell'unità frantumata ancora ulteriori fratture; « A causa della vostra durezza di cuore Mosé vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli! In principio non era così » ( Mt 19,8 ).
« Infatti io detesto il ripudio, dice il Signore, il Dio d'Israele » ( Ml 2,16 ).
Tutto quello che presso Giudei e pagani si allontana dall'unità originaria quale Dio la ha elargita come unica e vera forma della fecondità a immagine di Dio tra uomo e donna, deve esser considerato come una concessione della generosità di Dio determinata dal peccato, come qualcosa di provvisorio in attesa dell'adempimento in Cristo.
Dio fa questa concessione per gettare un ponte sul periodo di tempo che sta fra l'Eden e la Riconciliazione, e in esso far continuare a sussistere in mezzo agli uomini almeno un'ombra di ciò che in principio era stato pensato come matrimonio.
Anche il matrimonio giudaico non poteva essere di più di un'ombra, poiché l'immagine originaria non poteva più brillare prima che « la vergine concepisse e partorisse un figlio ».
Per questo Cristo non poteva provenire da un'unione di uomo e donna così com'essa è praticata dopo la caduta.
Ciò che è essenzialmente connesso con la sàrx, con la natura decaduta, vale a dire l'atto che distrugge l'essere verginale dei coniugi, non può essere origine di Colui che è venuto a infrangere il potere del peccato.
Ma il ripristino dello stato originario non poteva nemmeno essere qualcosa di meccanico; si trattava pure, in effetti, di un superamento della colpa.
Così il nuovo Adamo portò quaggiù il compimento da molto più in alto che da dove il primo Adamo lo aveva ottenuto: non soltanto egli inviò grazia sulla terra, ma venne egli stesso come la grazia di Dio fattosi uomo, come cielo fattosi terra.
Non solo si adeguò all'immagine originaria del matrimonio, ma diventò egli stesso immagine originaria di esso.
Fece questo senza distruggere l'antico ordine della creazione.
Mentre egli « adempiva ogni cosa » ( Ef 4,10 ), adempì anche il matrimonio; ma lo adempì riempiendolo di un contenuto di grazia che traeva la sua origine dal mistero di Dio ancor più profondamente di quanto aveva fatto il matrimonio dell'Eden.
Per questo il matrimonio come sacramento cristiano vive d'ora innanzi di questa grazia più elevata.
In essa ha la sua immagine e il suo parametro, e deve orientarsi secondo il suo spirito e la sua concezione per essere matrimonio cristiano.
« Come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così lo siano in tutto anche le mogli nei confronti dei loro mariti.
Voi, uomini, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per santificarla ».
L'unità di misura dell'amore matrimoniale diventa l'amore fra Cristo e la sua Chiesa.
Anche qui sussiste un'originaria unità per grazia di ciò che è maschile e ciò che è femminile; ma l'uomo è adesso quel nuovo Adamo che è Dio egli stesso e che per sposa ha l'intero popolo di Dio, l'intera Chiesa da redimere.
La piccola, limitata fecondità del primitivo matrimonio vede i suoi confini abbattuti e si vede aprire alla cattolica, eucaristica fecondità del liberante amore del Verbo incarnato e del liberato amore della sua sposa e consorte, la Chiesa, che è allo stesso tempo suo corpo.
L'unità originaria consiste in questo, che la Chiesa nasce da Cristo come Eva da Adamo: scaturita dal fianco squarciato del Signore dormiente in croce all'ombra della morte e degli inferi.
Per questo essa è suo corpo, come Eva era carne della carne di Adamo.
In questo sonno mortale della Passione egli « ha formato per sé la Chiesa, come sposa meravigliosa senza ruga e senza macchia » ( Ef 5,24-27 ).
Egli stesso si lascia come uomo cadere nel sonno della morte, in modo da potere, come Dio, prelevare misteriosamente dal morto quella fecondità dalla quale egli si creerà la sua sposa, la Chiesa.
Così essa è lui stesso, e tuttavia non è lui stesso: è suo corpo e sua sposa.
« Chi ama sua moglie, ama se stesso. Nessuno ha mai odiato la sua propria carne; la si protegge e la si cura.
Così fa anche Cristo con la sua Chiesa, poiché noi siamo membra del suo corpo » ( Ef 5,28-30 ).
Solo che adesso non si riversa alcun singolo seme carnale in un singolo grembo carnale, bensì tutta la fecondità del « seme divino » ( 1 Gv 3,9 ) viene nell'estasi di passione della morte in croce « inseminata » ( Gc 1,21 ) nel grembo spiritual-carnale della Chiesa e, in essa, di ognuno che è pronto a riceverlo.
Ciò non è più, come nel caso di Adamo, una benedizione che dalla misteriosa fecondità della Trinità irraggia sull'immagine creaturale; è la diretta effusione della stessa fecondità intradivina attraverso lo « strumento congiunto » dell'umanità di Cristo.
E questa fecondità è oramai una fecondità perfettamente verginale: in primo luogo perché essa è ripristino della verginità di Adamo, ma oltre a ciò perché essa deve essere espiazione per la perdita della verginità dello stato paradisiaco a causa del peccato, e da ultimo ( e più importante ) perché essa, come fecondità direttamente divina, non può essere legata da un particolare grembo femminile, ma può avere per grembo solo la cattolicità della Chiesa di tutti i redenti.
Solo adesso diventa chiaro quanto la nuova verginità della Croce sia un superamento tanto del carattere di comunionalità quanto della fecondità del matrimonio originario.
Se essa non lo fosse, non potrebbe con la propria nuova energia adempiere anche tutte le perfezioni del matrimonio creaturale, e far sgorgare dalla grazia della Croce anche il sacramento del matrimonio.
Se la Croce stesse in una contrapposizione alla comunione e alla fecondità dell'uomo così come Dio lo ha creato, essa non realizzerebbe il compimento della creazione del Padre.
Da ciò segue però immediatamente che il cristiano che al di là della forma di vita del matrimonio viene chiamato dal Signore ad una partecipazione diretta alla forma di vita verginale della sua Croce è parimenti chiamato, con ciò, a partecipare ad una ( superiore al matrimonio ) dedizione alla comunità e alla fecondità per la comunità.
La verginità, che prima di Cristo non poteva avere nessun significato positivo ( all'infuori di quello di un segno di promessa ), può dunque avere dopo Cristo solo un significato: quello di essere fecondità per la Chiesa, fecondità che scaturisce da una dedizione più grande di quella che può attuare l'uomo che vive nello stato matrimoniale.
Non c'è nessuna verginità che sia feconda e piena di significato in sé ( essa lo è altrettanto poco, quanto poco ha un qualche senso e una fecondità il non mangiare di un digiunatore per l'ecologia ); essa acquista il suo senso e la sua fecondità unicamente dalla totale dedizione nella Chiesa, una dedizione che nel senso della Croce deve essere ancora più radicale della dedizione e donazione di sé dei coniugi cristiani.
La verginità della Croce esclude che uno si scelga il celibato come stato ecclesiale per amore di incarichi mondani più importanti ( non parliamo poi di chi lo sceglie per condurre una vita piacevole per se stesso, programmata secondo i suoi piani ).
Questi piani possono essere eticamente e religiosamente ineccepibili, possono essere piani di utile lavoro caritativo e sociale.
Se essi sono solo una forma di vita scelta da lui stesso, e la funzione della propria scelta e del proprio capriccio rimane e può venir mutata ad ogni momento, allora colui che ha scelto una simile vita si è, come cristiano, ingannato: egli non ha nemmeno raggiunto il grado di dedizione che esige il matrimonio col suo indissolubile « sì », egli non ha offerto la sua anima a Dio e al prossimo al punto tale da non poter più riprenderla indietro, ed è ancora ben più lontano dall'averla offerta come il Figlio in croce, che si è definitivamente incatenato e ha riversato se stesso, corpo e anima, su tutti.
Il chicco di grano non è caduto in terra e morto; la sua verginità rimane così da sola e non porta alcun frutto.
La verginità cristiana sta o cade col mistero della Croce, con l'apertura della ferita sul fianco e la nascita della Chiesa da essa come « corpo e sposa di Cristo ».
Essa sta o cade col completo spargersi fuori di sé della potenza spirituale, e questo non si verifica altrimenti, come dimostra il Signore sulla croce, che nella completa obbedienza.
L'obbedienza è la povertà dello spirito per amore, e la verginità, che è una povertà del corpo per amore, diventa feconda solo laddove ha per presupposto il sacrificio spirituale.
Questo la Chiesa lo ha capito sempre meglio nel corso dei secoli.
Mentre all'inizio essa, come abbagliata dalla bellezza della nuova verginità, vedeva questa quasi come sufficiente per la fondazione di un proprio stato di vita, comprese però presto che la castità fisica possiede un senso e una fecondità per la Chiesa solo se unita con una reale dedizione dello spirito: cioè con una forma di vita che in una qualche maniera richiede una vera obbedienza, e precisamente un'obbedienza che - attraverso l'azione o la contemplazione - dona i suoi frutti alla Chiesa cattolica ed è così un'obbedienza nella comunità.
La verginità nella Chiesa non può mai essere nient'altro che un aspetto parziale di quell'unico stato che sta di fronte al matrimonio, quello stato che nell'unità di povertà, verginità e obbedienza Cristo sulla croce ha portato nel mondo come la nuova forma della fecondità divina.
Solo questo stato può allo stesso tempo superare e riempire dall'alto con nuovo spirito ogni perfezione del matrimonio natural-soprannaturale.
Questo dovrebbe essere evidente senza difficoltà nel caso del sesso maschile.
A nessuno verrà in mente di porre accanto agli uomini sposati e a quelli che appartengono allo stato d'elezione un terzo stato proprio di coloro che nel mondo sono rimasti celibi.
Nella molteplicità dei destini umani, tanto più dopo il peccato originale e le sue conseguenze, ci saranno certo sempre destini che non sono classificabili nella forma generale abituale: uomini che a motivo di una qualche malattia dello spirito o del corpo non sono idonei al matrimonio ( ma nemmeno all'elezione ) e si vedono perciò costretti a vivere nel mondo non sposati.
Forse anche uomini che non vogliono restare fedeli ad un amore per una persona che sulla terra non è possibile realizzare, uomini che di per sé appartengono allo stato matrimoniale ma che per motivi esterni sono stati impediti alla sua realizzazione, uomini che di per sé appartengono allo stato dei consigli ma per motivi esterni - ad esempio la cura dei parenti - non sono potuti entrarvi.
Una dottrina dello stato di vita non può regolarsi in base a queste eccezioni, che sorgono necessariamente nella sterminata varietà e contingenza dei destini.
Anche questi uomini stanno all'interno dell'universale status cristiano della Redenzione e hanno parte alla grazia dello stato della Croce.
Anche nell'Antico Testamento c'erano stati simili uomini, e anche là la loro esistenza non esigeva un tale riguardo da dover progettare per essi una propria forma di vita, un proprio stato particolare.
Quello che vale in modo ovvio per gli uomini vale però nondimeno anche per le donne, sebbene per motivi naturali le donne non sposate siano più numerose che gli uomini celibi.
L'uomo infatti sceglie la sua moglie, la donna invece viene scelta per il matrimonio.
A parecchie donne, che volentieri si sarebbero sposate, è mancata l'occasione per farlo.
Ma di nuovo la dipendenza da questi casi non può costituire alcun motivo per prevedere uno stato proprio per donne che sono rimaste non sposate.
Esse appartengono piuttosto, se erano intimamente decise per il matrimonio, potenzialmente allo stato matrimoniale, e Dio metterà loro in conto la loro prontezza alla dedizione come se fosse dedizione effettuata.
Egli terrà conto anche del peso della loro rinuncia e farà diventar fruttuoso a suo modo il loro sacrificio, se sostenuto interiormente nello spirito di Cristo.
Ma essere rimasta per un qualche motivo non sposata non significa ancora vivere nello stato della verginità.
A meno che a questa verginità corporale non corrisponda ciò che fa diventare la verginità una cristiana verginità della Croce: la volontaria e incondizionata rinuncia alla fecondità corporale per amore della più grande fecondità della grazia, la quale si esprime come legame dello spirito nell'obbedienza in una qualche comunità.
Di nuovo possono esserci qui eccezioni, casi marginali per così dire, che non possono essere visti come la regola: casi nei quali l'entrata in una comunità era per motivi seri impossibile e alla donna in questione fu data facoltà sotto conduzione ecclesiale di pronunciare un voto di verginità all'interno della sua vita in mezzo al mondo, eventualmente collegato con un voto di obbedienza e di povertà oppure no.
Una tale donna apparterrà potenzialmente allo stato dei consigli, altrettanto come quella per cause accidentali non sposata appartiene potenzialmente allo stato matrimoniale.
Ma si dovrà provvedere a che queste forme di vita marginali, che possono essere giustificate nel caso singolo, anzi in esso sono le uniche possibili, non portino a far apparire una specie di « terzo stato » fra lo stato del matrimonio e quello dei consigli come qualcosa di normale o addirittura di auspicabile.
Un tale « terzo stato », se venisse realmente riconosciuto come stato, potrebbe solo condurre a minacciare gravemente il radicalismo cristiano tanto del matrimonio cristiano quanto della vita cristiana secondo i consigli.
Non si vedrebbe più cosa significhi nella Chiesa offrire la propria anima per Dio e i fratelli in maniera così definitiva e irrevocabile che non la si può più riprendere indietro.
Il sì della promessa matrimoniale e il sì del voto religioso corrispondono a quello che Dio si aspetta dall'uomo: la consegna di sé senza condizioni, così come il Signore sulla croce offrì tutto, anima e corpo, per il Padre e per il mondo.
Nello stato d'elezione il cristiano da a Dio la sua anima e il suo corpo, e Dio distribuisce il frutto del sacrificio ai suoi fratelli e dona a colui che si è offerto una missione all'interno della Chiesa.
Nello stato matrimoniale il cristiano dona col « sì » sacramentale il suo corpo e la sua anima al coniuge, ma in Dio, per la fede in Dio e nella speranza nell'appagante fedeltà di Dio, la quale non priverà la sua offerta dei frutti promessi, materiali o spirituali.
Nessun « tertium quid » è pensabile come forma di vita fondante uno stato, accanto a queste due forme di vera dedizione, nessun « tertium quid » è previsto anche nella Rivelazione.
Ancora una volta viene così allora giustificato, con l'esempio della verginità, il concetto teologico di stato di vita.
« Stato » è all'interno della Chiesa una determinata forma di vita, che attraverso un legame cristianamente rilevante ( e non semplicemente civile o professionale ) come differentìa specifica determina lo stato cristiano universale generico.
Questa forma di vita come tale lega il cristiano nel suo essere più intimo in maniera irrevocabile ( cum immobilitate, sine facultate resiliendi ).
Attraverso questo legame che è alla base dello stato, gli viene data la possibilità di partecipare in fecondità soprannaturale al mistero del « perdere la propria anima » e con dò al mistero di croce e redenzione.
Ora è certamente vero che già il generico stato cristiano procura una forma di vita, un legame che, paragonato con l'esistenza al di fuori della Chiesa, è molto serio e radicale.
Ma paragonato con lo stato matrimoniale e quello dei consigli ( o per il prete con lo stato d'elezione in generale ) questo stato cristiano comune non significa ancora nessun legame ultimamente concreto che tenda il suo spirito e il suo corpo in una soprannaturale attitudine a servire.
Di simili forme di vita ce ne sono secondo la tradizione comune solo due.
« Eadem veritas sumitur ex antiquis Patribus, qui communiter docent Christianorum vitam et statum in duos ordines Christum distribuisse: unum profìtentium communem vitam mandatorum, ut sunt coniugati, alium qui profitentur altiorem et angelicam vitam, i.e. religiosam » ( Suarez. De rei., lib 3 c2 n4 ).
« In Ecclesia Dei duo modi vivendi instituti sunt » ( Eusebio, Demonstr. 1, e 8 )
E poiché non tutti possono percorrere la difficile via della sequela diretta nei consigli, per questo, dice Basilio, « benevolo verso gli uomini Dio ha provveduto alla nostra salvezza dividendo il cammino degli uomini in due vie, cioè il matrimonio e la verginità, affinché chi non era in grado di affrontare la battaglia della verginità vivesse insieme con una donna, in modo però che egli sapesse che dovrà render conto della continenza e della santità, alla maniera di vivere di quei santi che, come Abramo, vissero nel matrimonio e nell'educazione dei figli ( … )
Questi infatti non aveva ancora udito la parola: Vendi ciò che hai e dallo ai poveri! » ( Sermo de renuntiatione saeculi, PG 31,628 ).2
Alcuni testi patristici pongono i due stati l'uno di fronte all'altro solo nel senso di genere e specie, come comune stato cristiano ( senza menzionare espressamente il matrimonio ) e stato della perfezione o dei consigli, che si rapporta all'altro « tam quam perfectio ad perfectibile vel tamquam determinatio ad determinabile » ( Suarez, loc. cit., lib 1 e 2 n 9 ).
Tommaso non conosce in generale alcuna ripartizione degli stati nel senso sopra descritto.3
Suarez, camminando sulle piste tracciate prima dalla Scolastica, non vede quanto il sacramento del matrimonio fondi non solo uno status civile, ma uno status cristiano, « quia simpliciter loquendo in ordine ad vitam aeternam ( matrimonium ) non excedit communem statum vitae christianae » ( ibid., libl,c2n2 ).
Tuttavia tanto dall'Antico quanto dal Nuovo Testamento risulta chiaramente che l'uomo non sposato ma non altrimenti legato non è previsto come regola, bensì solo come eccezione.
Il matrimonio è talmente fondato nella creazione originaria, talmente appartenente all'uomo come « immagine e somiglianza », garantendo all'uomo tutti i mezzi naturali del vero dispiegamento di sé nel Tu e in Dio, è talmente l'adeguato avviamento al puro amore e all'altruismo, che al di là di questo stato, che è fondato dalla natura e consacrato ed elevato dal sacramento, può esserci solo una possibilità di stato di vita del tutto soprannaturale, che supera tanto il legame definitivo quanto la fecondità del matrimonio.
Questo stato si fonda direttamente « in matrimonium Christi cum Ecclesia ».
Un terzo stato non c'è, tanto che Suarez pone inflessibilmente anche i preti secolari davanti all'aut-aut di appartenere a questo o a quello stato: « in omni vero opinione certum est sub altero ex dictis contineri » ( ibid., n. 13 ).
Certo lo stato dei consigli conosce forme di realizzazione molto diverse.
« Stato religioso » vero e proprio c'è solo canonicamente laddove i tre voti sono stati pronunciati solennemente e pubblicamente nelle mani della Chiesa.
Ovunque questo concetto di stato di vita non viene realizzato pienamente si può e si deve parlare di una partecipazione per analogia allo stato d'elezione.
Così già nel caso di un semplice voto di verginità, tanto più se unito a un voto di obbedienza, oppure nel caso di un qualche altro modo di partecipare nel mondo alla vita secondo i consigli: « omnis modus vivendi spiritualiter, ordinatus ad perfectionem caritatis acquirendam, si alioquin habeat immutabilitatem seu firmitatem ad statum sufficien-tem aliquo modo dici potest et debet status perfectionis ( … ) quaprop-ter (canonice) ( … ) distinguendus est in statum integrum ac perfectum et statum imperfectum ».
Di quest'ultimo vale: « statum religiosum ali quo modo participat, et in lata signifìcatione seu analogia quadam status ille potest dici religiosus » ( thid., lib 2 e 3 n 17-18 ).
Ma anche questo solo sotto il presupposto della corrispondente irrevocabilità.
Da ciò consegue in primo luogo che i « non sposati appartengono certo secondo la legge statale allo stato civile dei celibi, ma non per questo già allo stato dei vergini.
Solo chi sceglie il celibato come tale e lo abbraccia volontariamente per il Regno dei Cieli [ e, aggiungiamo noi: con un voto o una promessa durevole ], entra in questo stato ( … )
Tale verginità come dedizione a Dio e al servizio del prossimo è oggettivamente una benedizione per il mondo, similmente allo stato delle vergini in convento. »
Consegue in secondo luogo che tutte le forme di vocazione mondana che necessariamente esigono donne celibi nel mondo devono, per essere conciliabili con una concezione cristiana di stato di vita, offrire ai loro membri la possibilità di rinunciare alla libertà ( Ungebundenheit ) con cui l'uomo può disporre sempre nuovamente della sua vita, in favore di un autenticamente cristiano venir vincolato ( Gebundenheif ).
Solo allora la donna sentirà la benedizione che sta nel venir continuamente educati cristianamente da una oggettiva regola di vita, e verrà protetta dal minaccioso destino di diventare una vecchia zitella inaridita.
Poiché la società umana non consiste, come uno stato di api o di formiche, di tre esseri: maschili, femminili e asessuati, un uomo non può semplicemente astrarre dalla sua sessualità nel dar forma alla sua vita e nell'adempimento dell'immagine di Dio in lui.
Non sarebbe difficile mostrare che nazioni ed epoche veramente cattoliche non hanno conosciuto questo sostanziale assenso al « terzo stato » che nel tempo recente, con nausea del matrimonio e secolarizzazione dei conventi, società anonima tipo quella delle formiche e un liberalismo che stima la libertà dell'autodeterminazione come il massimo dei beni, è diventato quasi un ideale, e che anche da cattolici viene considerato come qualcosa di praticamente normale.
Si crede di fare già molto se si impegna la propria vita per un certo periodo di tempo per un qualche scopo umanitario, sempre con la riserva, se « qualcosa non va » o non piace più, di darsi a qualcos'altro.
Se però abbiamo parlato di una analogia dello stato dei consigli, giacché, accanto alla dedizione piena nei tre voti religiosi solenni esistono anche molteplici maniere di aver parte a questa vita di dedizione, bisogna dire allora che la partecipazione al vero e proprio stato d'elezione diventa tanto più piena quanto più fortemente in una forma di vita viene compreso e vissuto il legame più intimo, cioè il legame spirituale dell'obbedienza.
Verginità e povertà sono beni cristiani solo allorquando sono espressione di una dedizione e un legame spirituali a Dio.
« Infatti col voto dell'obbedienza viene offerto il bene più grande, cioè la volontà stessa, che è più nobile che il proprio corpo, che l'uomo offre a Dio con la continenza, o i beni esteriori, che egli sacrifica a Dio col voto di povertà », al punto che l'obbedienza costituisce per Tommaso chiaramente l'elemento che contraddistingue formalmente lo stato dei consigli: « Anche se qualcuno senza il voto dell'obbedienza pratica la povertà volontaria e la verginità per voto, non appartiene perciò stesso allo stato religioso, il quale stesso viene preferito alla verginità per voto » ( S Th n n q 186 a 8 ad 3 ).
Vicinanza e distanza nei confronti della perfezione del concetto di stato di vita sono dunque da leggere, nella suddetta analogia, a partire da questo elemento formale.
Il legame pieno attraverso il sacramento o i voti è stato cristiano adempiuto.
Fino alla scelta dello stato l'uomo deve perseverare in uno stato d'attesa, che come tale non è assolutamente imperfetto, giacché corrisponde alla volontà di Dio.
Qui trova il suo posto autentico una verginità puramente fisica.
Non si scambi però questa verginità dello stato d'attesa ( alla quale con ragione si devono attenere le giovani ragazze nei circoli e nelle associazioni ) con uno stato definitivo e compiuto.
Se al tempo adeguato non avviene una scelta di stato, non per questo la verginità in attesa passa di per sé ad essere una verginità compiuta, giacché per questo ci sarebbe bisogno dell'esplicito collegamento ad una qualche forma di vita secondo i consigli.
In caso diverso questa forma di vita rimane uno stato d'attesa prolungato.
Del tutto in modo diverso stanno le cose riguardo allo sfato vedovile.
Il giogo è stato portato, il sacrificio offerto, la vita adempiuta davanti a Dio.
La persona è adesso libera - e questa libertà è come una ricompensa di Dio per il peso portato - di sentirsi ancora legata e di conservare così la fedeltà matrimoniale al di là della morte oppure di contrarre un nuovo legame nello stato matrimoniale ( 1 Cor 7,39 ), oppure infine di legarsi spiritualmente nel senso di una partecipazione allo stato dei consigli.
Paolo conosce una terza possibilità.
Dalle vedove che hanno figli o nipoti egli si aspetta « che imparino prima a praticare la pietà verso quelli della propria famiglia e a rendere il contraccambio ai loro genitori, perché è gradito a Dio ».
« Se qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele. »
Invece egli si augura che « le vedove più giovani si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare all'avversario nessun motivo di biasimo ».
Infatti nel caso che esse abbiano fatto un voto e poi « prese da un desiderio indegno di Cristo abbiano voglia di sposarsi di nuovo, si attirano un giudizio di condanna per aver infranto il primo voto ».
Solo le vedove più anziane egli le fa iscrivere nel catalogo delle vedove e pronunciare così il voto dello stato di vita ( 1 Tm 5,4-14 ).
Quello che Paolo in ogni caso ha voluto evitare è il « girare ozioso qua e là per le case », che poi diventa una minaccia, se la donna non appartiene a stato alcuno.
La via è per lei tracciata: « Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia » ( 1 Tm 2,15 ), a meno che ella non voglia, anziché delle cose del marito, « occuparsi delle cose del Signore » e nella verginità « essere santa nel corpo e nello spirito » ( 1 Cor 7,34 )
Se sceglie quest'ultima possibilità, allora deve entrare in un tal legame col Signore, che per lo meno non rimane al di sotto del legame matrimoniale; nessun legame per prova, nessun matrimonio d'amicizia « soprannaturale » può scegliere, bensì una forma di dedizione che può valere come risposta all'assolutezza della dedizione del Signore.
Se lo stato d'elezione si fonda direttamente sulla Croce e ottiene da essa tutta la sua possibilità d'esistere e la sua energia, il matrimonio cristiano ricava indirettamente il suo compimento e la sua conferma ultima patimenti dalla Croce.
Come forma di vita esso non ha origine, così come nemmeno il sacerdozio di cui tratteremo in seguito, dal Nuovo Testamento.
Esso è radicato nel primo racconto della creazione.
Ma già là era più che un mistero puramente naturale.
Nella sua fondazione esso trasse origine da un atto preternaturale di Dio, e mirava con la collaborazione dell'uomo alla sempre nuova realizzazione della più che naturale unità dell'amore.
Dio rimaneva pronto a donare ogni volta, in un atto unitario che per noi non è più immaginabile, la grazia della sua fecondità creativa, quando uomo e donna si incontrassero spiritualmente-corporalmente all'interno di questa grazia.
Nel Nuovo Testamento dalla generale soprannaturalità della grazia del matrimonio nasce la concreta, configurata soprannaturalità della grazia di Cristo sulla croce.
Dall'apparire del Figlio nel mondo non c'è nessun'altra forma di amore, per noi, all'infuori della forma in cui egli ci ha amato.
« In questo consiste l'amore, che non noi abbiamo amato per primi Dio, ma egli ha amato noi e ha dato suo Figlio come espiazione per i nostri peccati » ( 1 Gv 4,10 ).
« Da questo riconosciamo l'amore, che Egli ha dato la sua vita per noi.
Perciò anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ).
« Questo è il mio comandamento: amatevi l'un l'altro come io vi ho amato.
Nessuno ha un amore più grande di colui che da la sua vita per i propri amici.
Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando » ( Gv 15,12-14 ).
Questo è dunque il canone per ogni amore cristiano, anche per l'amore e la fedeltà matrimoniale.
E solo per il fatto che al mistero della fecondità corporale Cristo infonde nuovamente dall'alto l'infinitamente più profondo mistero della fecondità spirituale di fede, amore e speranza e con ciò anche lo spirito di povertà, castità e obbedienza, il matrimonio diventa capace di venir elevato a sacramento all'interno della Chiesa cristiana.
Esso lo può diventare solo per il fatto che partecipa allo spirito del sacrificio di Cristo.
E questo lo può nuovamente solo se attraverso questo spirito riottiene misteriosamente qualcosa dello spirito del paradiso terrestre, come regnava prima della separazione degli stati.
Il matrimonio cristiano non può dunque venir compreso se lo si considera dapprima solo come un istituto naturale con una determinata forma di amore naturale, istituto che successivamente verrebbe « innalzato » dal sacramento al livello della Grazia.
Lo si deve sin da principio interpretare dall'alto, cioè dall'atto cristiano che lo fonda come matrimonio.
Questo atto è quello della fede cristiana, che se è viva include sempre in sé l'amore e la speranza.
In questo atto viene pronunciata la promessa matrimoniale al coniuge.
È un atto che giunge direttamente e immediatamente a Dio; è un voto di fedeltà a Dio, poiché Dio per primo si è rivelato nelle sue promesse e manifestazioni come la fedeltà eterna, a cui si deve credere, sperare e che si deve amare.
Dentro questo voto di fedeltà a Dio viene pronunciato il voto di fedeltà al coniuge.
È l'atto di fede di entrambi i contraenti che si incontra in Dio e che da Dio, base della loro unità, testimone del loro legame e garante della loro fecondità, viene plasmato, assunto e restituito.
È Dio che nell'atto di fede dona i coniugi l'uno all'altro, all'interno del fondamentale atto cristiano d'offerta.
A Lui essi si offrono l'uno insieme all'altro, da Lui essi si riottengono l'un l'altro in un dono di grazia, di fiducia, di richiesta cristiana.
La fedeltà che essi si promettono reciprocamente è solo per questo così indissolubile, perché essa affonda le sue radici nella stessa fedeltà di Dio, ottiene la sua energia, infrangibilità ed eternità dalla Sua fedeltà, la quale continua ancora ad essere fedeltà anche quando l'uomo pensa di stare alla fine della sua fedeltà.
L'atto nel quale i coniugi cristiani si promettono reciprocamente fedeltà è perciò, come lo stesso atto cristiano fondamentale della fede, un atto assolutamente non dominabile con lo sguardo, aperto in Dio: come la fede crede di più di quanto può comprendere e vedere, poiché Dio vede, e la sua parola è sufficiente, così la promessa matrimoniale promette di più di quanto le sole forze umane sono in grado di mantenere, poiché Dio è fedele e dona al credente la forza della sua fedeltà.
Questa dedizione per la vita e per la morte ha qualcosa della forma dell'indissolubile, eterno voto che è immanente ad ogni amore; è un atto di una tale definitività che equivale ad una reale « perdita della propria anima » ( Mt 16,25 ).
E solo perché l'anima ha offerto in sacrificio il diritto all'autodisposizione della propria vita può venir offerto in sacrificio anche il diritto all'autodisposizione del proprio corpo.
« La moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma lo è la moglie » ( 1 Cor 7,4 ).
In questa dedizione i coniugi sperimentano che essi non erano due unità chiuse che successivamente si sono unite, e delle quali, come per caso, è fuoriuscita una terza nuova unità, il figlio.
Essi vengono a sapere piuttosto che entrambi sono « una carne » e che già lo erano originariamente, senza saperlo, poiché Eva ha origine da Adamo.
Che essi perciò, congiungendosi e rinunciando così alla loro supposta autosufficienza, seguono solo una legge profonda di autodedizione, la quale attraverso la perdita di ciò che sembrava essere unità trova questa unità con l'altro e nell'altro.
Un'unità però che non proviene semplicemente dai due partners, ma dal frutto della loro dedizione, che è più che il loro seme; è qualcosa di insospettato, gratuito, meraviglioso, risultante dalla dedizione: il figlio.
Finché si considera il matrimonio come un'istituzione puramente naturale, il figlio apparirà sempre come un prodotto casuale, anche se allietante, forse sperato, dell'unione sessuale.
Il frutto non giace nella reciproca dedizione dei coniugi, non è derivabile da essi, non si può comprendere a partire da essi.
Accade così che in questa considerazione puramente naturale del matrimonio si deve distinguere tra diversi « fini » del matrimonio: il fine dell'educazione dei figli e il fine della dedizione reciproca, che si può distinguere poi anche come « scopo » e « senso » del matrimonio.
Questa distinzione però cade ( e con ciò anche certi imbarazzi a cui questa distinzione conduce ) se si considera il matrimonio nel suo sacramentale esser fondato nell'atto di fede.
Ora infatti i coniugi sono non più soltanto aperti l'uno all'altro - e in questa apertura chiusi a tutti gli altri -, essi stanno piuttosto aperti primariamente a Dio, e offrendosi davanti a Dio l'uno all'altro in questo stato si donano allo stesso tempo a Lui e attendono da Lui l'inatteso: il frutto della sua grazia.
La maniera in cui essi si offrono a Dio è essa stessa già grazia, e perciò è feconda.
Così la fecondità della fede in essi attende la fecondità dall'alto donata da Dio, che questa sia un figlio che Dio dona loro oppure un frutto spirituale, se non ottengono la fecondità fisica.
L'atto di consegna all'interno del sacramento si distingue altrettanto essenzialmente dall'atto d'amore in un matrimonio « puramente naturale » quanto l'atteggiamento spirituale di un credente si distingue da quello di un non credente.
Il credente attende ogni frutto da Dio, senza voler sapere in anticipo che cosa otterrà; egli è aperta speranza, che anticipatamente da il suo assenso e accetta ogni grazia di Dio, in qualsiasi forma essa si presenti.
Così i coniugi cristiani, incontrandosi, aspettano sempre da Dio la sovrabbondante risposta della sua grazia: è impossibile per essi distinguere il « senso » del matrimonio dal suo « scopo ».
La ragione ultima di ciò è che la loro fede partecipa alla grazia della croce, la cui fecondità si apre all'infinito.
Il loro amore, esternamente un affare che si esaurisce fra due persone, partecipa nascostamente dell'illimitato, sempre cattolicamente ed eucaristicamente aperto amore del Signore, la cui fecondità si riversa sempre ulteriormente al di là di tutto ciò che rimane chiuso.
E questo perché in questa fecondità dell'amore crocifisso del Signore è divenuta manifesta la stessa legge dell'amore trinitario, che non si esaurisce fra Padre e Figlio, ma ha per frutto il terzo, lo Spirito, al quale appartiene perciò in maniera speciale l'amore in Dio.
Solo questa partecipazione alla Croce dà anche alla dedizione corporale reciproca tra i due coniugi la sua giustificazione ultima liberante.
Ora infatti questa non appare più semplicemente ( come nello stato originario ) come il simbolismo di una grazia invisibile di fede, speranza e amore, ma come espressa partecipazione all'incarnazione della grazia divina, che nella vita e nella passione del Signore niente più opera senza l' « instrumentum coniunctum » della sua carne e sangue.
Stato matrimoniale e stato d'elezione non stanno l'uno di fronte all'altro come stato dell'amore carnale e stato dell'amore puramente spirituale, poiché entrambe le forme di stato di vita sono rappresentazione dell'unico spiritual-corporale amore di Cristo per la sua Chiesa e in essa per l'umanità.
Con l'incarnazione della Grazia l'amore spirituale ( del secondo stato ) diventa un amore necessariamente incarnato, e l'amore corporale ( del primo stato ) diventa un amore legittimo anche nel corpo e compenetrato dallo spirito.
Così al posto della tragicità del sesso è entrata la feconda, liberante visuale della Croce.
È ben vero che dopo l'Eden l'amore sessuale è finito sotto quella dialettica di generazione e morte dalla quale niente a livello umano poteva liberarlo.
Desiderio e angoscia erano presi in un cerchio chiuso da cui non c'era via d'uscita alcuna, poiché l'amore perfetto che Dio all'inizio aveva elargito ai coniugi come principio del matrimonio non era più, nell'ambito della colpa ereditaria, ritrovabile.
Questo cerchio tragico viene eliminato solo allorché Cristo sulla croce, al di là della schiavitù sotto desiderio e angoscia, produce dalla sovrabbondanza del suo amore una nuova unità: quella di generazione di vita eterna nel bei mezzo della morte eterna, generazione della Chiesa, sua sposa, dall'abisso dell'abbandono da parte del Padre e dello sprofondare nella piena verità della morte.
Così soltanto è superata la demonicità della sessualità.
Così soltanto il matrimonio può venir nuovamente inserito nelle forme di dedizione cristiana, sebbene l'unità dello stato originario non sia ripristinabile.
Esso lo può solamente a condizione di essere vissuto a partire dal sentimento della croce, dove ogni concupiscenza, per quanto disordinata ed egoistica, viene superata dall'altruismo della dedizione cristiana.
Così entrambi gli stati vivono del medesimo amore: l'amore di Cristo, che rimane il paradigma di ogni amore.
Ed entrambi gli stati sono fecondi in forza di questo amore, poiché entrambi portano in sé il principio della fecondità, cioè l'amore stesso, che è riversato nei nostri cuori insieme con fede e speranza.
Infatti Dio volle sorprendere gli uomini non solo con una ricompensa donata dal di fuori, ma volle far derivare il frutto della grazia dall'amore che egli dona agli uomini come una cosa loro propria: come loro frutto e allo stesso tempo come Suo frutto per essi e in essi.
Quanto maggiormente però l'amore di un uomo assomiglia a quello divino, quanto maggiormente dunque rinuncia a se stesso e si sparge intorno a sé per assumere interiormente la forma di povertà, verginità e obbedienza, tanto maggiormente anche il frutto di questo amore sarà un frutto divino: un frutto superiore ad ogni umana fecondità e umana aspettativa.
Questo frutto nella sua unità è donato allo stato d'elezione, che rinuncia col voto non soltanto ai propri frutti corporali e spirituali, ma ( cosa che è decisiva ) alla visione dei frutti che Dio gli donerà.
Egli lascia nelle mani di Dio, insieme a tutto il proprio io, anche il risultato della propria consegna.
Infatti il Signore sulla croce non ha guardato ai frutti della sua dedizione, ma piuttosto li ha posti del tutto nelle mani del Padre, per riceverli solo al terzo giorno, risorgendo, dalla mano del Padre, in tutta la loro sovrabbondanza.
A questo frutto prende parte anche lo stato cristiano matrimoniale, lasciando a Dio sin da principio nella promessa solenne del sacramento i frutti spirituali e corporali che Dio voglia donare e accettando lietamente qualsiasi risposta divina.
Se il coniuge cristiano è capace di compiere realmente questo atto di perfetta consegna di sé, la sua comunione limitata si apre allora all'universalità della Chiesa cattolica, e il suo amore, che sembra limitato ad un circolo così ristretto, ottiene fattiva partecipazione alla realizzazione del Regno di Dio sulla terra.
Certamente egli rimane in ciò « laico ».
Anche attraverso questo sacramento particolarmente cristologico non trapassa infatti nello stato della vocazione qualitativa.
Egli rimane nella forma di vita che già nell'Antico Testamento era in vigore e che ha ottenuto dal sacramento una consacrazione soprannaturale, senza diventare per ciò stesso una fondazione nuova ad opera di Cristo.
Egli rimane legato alla forma della dedizione carnale, che solo in un difficilmente raggiungibile caso-limite può condurre ad un perfetto scioglimento da ogni bramosìa condizionata dalla colpa.
Ed egli non può trasmettere ai suoi figli la grazia sacramentale sulla quale cresce il suo matrimonio, poiché essi nascono a loro volta nella caducità del genere umano.
Egli non ha il diritto, sulla base del suo stato di vita, di compiere quel completo olocausto non solo dello spirito ma anche del corpo, in povertà, castità e obbedienza, al quale sono invitati gli eletti.
Ma egli non sta in nessun modo di fronte a questi come un cristiano di minor valore, poiché la scelta di Dio dona ad ognuno, anche se in maniera diversa, quello che per lui è il meglio.
Ambedue gli stati, lo stato laicale, che raggiunge la sua pienezza nello stato matrimoniale, e lo stato d'elezione, si condizionano l'un l'altro e sono fino all'ultimo dipendenti l'uno dall'altro; non però come due metà di ugual valore, che si completano l'un l'altra, ma come lo stato particolare, che proviene da quello generale e col sacrificio e la missione ritorna ad esso, e lo stato generale, che non senza quello particolare è quello che è: uno stato cristiano proprio.
In questo rapporto si specchia la legge fondamentale dell'economia della salvezza: il Vecchio Testamento tanto perdurante nel Nuovo quanto superato, tanto assunto quanto sopraelevato, il Nuovo compimento dell'Antico, ma a tal punto « nuovo » che nessuno all'infuori di Dio lo vide già venire nell'Antico.
Indice |
1 | Al massimo come eccezione, che però non potrebbe fondare alcuno stato, bensì era una specie di simbolico stare nella pura promessa |
2 | Su queste "due vite" o "due stati" cfr. inoltre Simone Logotete, Cronica (qui pure citazioni dai Padri); Basilio, Ep. 79 ad Eustafhium; Crisostomo, Hom. 17 ad pop.; Agostino, Ep. 89 ad Hilarium, q 4; Origene, Hom. 9 in Josue |
3 | Certo però egli parla di una duplice legge di vita: il matrimonio e la vita contemplativa ( Supp. q 41 a 2 ad 4 ). Sebbene al genere umano nella sua totalità sia stato impartito uno stretto ordine volto alla riproduzione e quindi al matrimonio, il singolo può però per ragioni superiori scegliere la vita contemplativa. È chiaro che qui Tommaso in riguardo ad Aristotele mette al posto del concetto cristiano di stato dei consigli il concetto più vago di contemplazione, che però significa pur sempre nel senso dei Greci la piena libertà per le cose più alte, divine, il vacare Dea. Un tertium quid non lo conosce nemmeno Tommaso |