Summa Teologica - I-II |
6 - La distinzione tra peccato veniale e mortale risale alle origini del cristianesimo.
Ma pare che in origine la « venialità », o perdonabilità, fosse concepita su un piano piuttosto giuridico.
Nella prassi di molte antiche comunità cristiane vigeva questo criterio: alcuni peccati erano considerati perdonabili, e quindi non escludevano dalla comunione dei fedeli; altri invece erano ritenuti imperdonabili, e implicavano la excommunicatio.
Ma in seguito la terminologia suddetta prese altri punti di riferimento, specialmente quando ti ebbero ben chiara l'idea che la gerarchia ecclesiastica ha la piena autorità di rimettere qualsiasi colpa, compreso il rinnegamento scandaloso della fede, purché il colpevole ne sia sinceramente pentito.
Il vero punto di riferimento del peccato è Dio.
E di fronte a lui siamo morti, quando volontariamente abbiamo tradito il suo amore calpestando un suo comando.
Ma le piccole colpe quotidiane, dovute alla fragilità più che alla malizia, come potrebbero produrre un effetto così disastroso?
Nella catechesi i due concetti si precisano in rapporto all'effetto: è mortale il peccato che merita la morte eterna, cioè la dannazione; veniale invece è la colpa che non merita dannazione.
Ma il teologo non può contentarsi di questa spiegazione.
Impugnando l'arma della logica egli nota subito che l'effetto non può essere l'elemento costitutivo e discriminativo di un'azione umana.
Il peccato quindi sarà mortale o veniale, prima di mandare o di non mandare all'inferno; cioè sarà mortale o veniale per il modo col quale si commette, o per l'oggetto che lo specifica.
Qual'è, dunque, il costitutivo del peccato mortale?
Quale quello del peccato veniale?
Teologicamente ciò che costituisce il vero peccato, cioè il peccato mortale, è l'abbandonare volontariamente Dio: « l'aversio a Deo ».
Vero infatti che la definizione agostiniana del peccato insiste piuttosto nella difformità dalla Legge Eterna; ma abbiamo già detto che, codesta Legge non è che Dio stesso.
Ora, è logico domandarsi se il peccato veniale merita anch'esso questa definizione.
S. Tommaso risponde espressamente di no; perché il termine peccato applicato alle colpe veniali e mortali non è univoco, bensì analogico ( q. 88, a. 1, ad 1; cfr. 2 Sent., d. 42, q. 1, a. 3 ).
Del resto tutti i teologi precedenti e contemporanei concordano con lui nell'affermare che la colpa veniale non è « contra legem », ma « praeter legem » ( cfr. 2 Sent. d. 42, q. 1, a. 4, argg. et soli. 3, 4 ).
Il peccato veniale in definitiva non infirma un vero precetto, cioè una di quelle disposizioni che gravemente s'impongono alla ragione umana come norme di condotta, pena l'abbandono del Primo Principio della legge medesima, che poi è il fine ultimo della vita umana.
Chi pecca venialmente si attarda sui mezzi, ma non abbandona Dio come ultimo fine della sua condotta.
7 - Questa soluzione che all' Aquinate e ai suoi discepoli immediati parve tanto logica e consistente, nel complesso equilibrio dei suoi elementi, trovò invece una colluvie di difficoltà nei secoli successivi.
Il francescano Giovanni Duns Scoto [ m. 1308 ] partì all'attacco giocando con destrezza su tutte le possibili equivocazioni di una terminologia che col passare del tempo aveva perso la sua forza originaria, e sulla stessa complessità del problema.
Alle sue critiche si aggiunsero quelle di Durando di Saint Pourain e di altri.
- Non sempre le risposte dei tomisti alle molte difficoltà riuscirono concludenti; qualche volta nel tentativo di risolvere gli altrui cavilli la dottrina rischiò di perdere coerenza e chiarezza.
All'inizio di questo secolo essi hanno tentato di chiarire bene storicamente la posizione del loro Maestro, e di difendere in tutta la sua complessità la dottrina sul peccato veniale.
A parte qualche stonatura, l'articolo magistrale del P. Th. Deman su Dict. de Théol. Cath., « Péché» [ 1933 ], ha segnato un passo decisivo verso la perfetta chiarificazione sull'argomento.
Oltre tutto il compianto confratello ha avuto il merito i richiamare l'interesse degli studiosi moderni sull'argomento.
Ormai i tentativi di compromesso fatti dal Suarez e dal Vazquez sul finire del secolo XVI sono completamente abbandonati.
8 - Col passare del tempo la controversia si era accentuata su di un aspetto particolare, in cui la dottrina tomistica pareva dibattersi in una manifesta contraddizione.
Da un lato S. Tommaso afferma che ogni atto umano è compiuto per un fine ultimo, e d'altra parte è certo che per non cadere in peccato mortale l'ultimo fine di ogni azione dev'essere Dio stesso.
Ora, com'è possibile che Dio sia il fine ultimo di chi commette il peccato veniale?
É vero che gli autori spirituali, per scuotere le anime dalla tiepidezza, spesso esagerano nel definire la natura dei peccati veniali facendone dei peccati mortali in miniatura; ma chi non vede l'impossibilità di ordinare a Dio una bugia, anche se minima, o un atto di collera ingiustificato?
Il problema è stato agitato dai più grandi rappresentanti del tomismo nel corso dei secoli, i quali hanno discusso tutte le possibili soluzioni:
a) Il peccato veniale dell'anima in grazia non ha un fine ultimo nè attuale nè virtuale; nell'atto del peccato il soggetto tende ancora abitualmente al fine ultimo che è Dio.
E quindi si ha un fine ultimo solo concomitante ( Sentenza del Gaetano ).
b) Nel peccato veniale il finis operis è la creatura, il finis operantis è il proprio comodo, il quale non è però fine ultimo, ma solo fine prossimo del peccato veniale, essendo questo abitualmente subordinato a Dio ( B. Medina: variazione della sentenza precedente ).
c) Il peccato veniale ha un fine ultimo non simpliciter o positivo, ma solo secundum quid, o negativo.
« Il giusto che pecca venialmente ha Dio per fine ultimo simpliciter, e tuttavia pone nel peccato veniale il fine ultimo secundum quid » ( Così F. Suarez, e grosso modo Vasquez ).
d) fine ultimo efficacemente voluto può stare con un altro fine ultimo inefficacemente voluto ».
Quindi nel peccato veniale l'uomo agisce virtualmente per un fine ultimo concreto inefficace che è la creatura, restando Dio il fine ultimo efficace del giusto il quale commette codesto atto ( tesi di G. B. Ildefonso, del Gonet, del Gredt e di altri ).
e) Nel peccato veniale la carità che anima il giusto influisce sul peccato perché è una delle condizioni che muovono a consentirvi », sia pure in maniera negativa.
Perciò rimane un influsso concreto virtuale negativo o permissivo dell'ultimo fine che è Dio stesso ( Giovanni di S. Tommaso e Salmanticensi ).
f) Il peccato veniale ha il suo fine ultimo nella beatitudine in genere: esso cioè non ha un fine ultimo concreto, ma solo un fine ultimo formale ( O. Curiel, O. Martinez, Billot, Garrigou-Lagrange ).
g) Si può anche escludere che il peccato veniale abbia un ultimo fine, perché non è necessario un fine ultimo concreto attualmente o virtualmente voluto in ogni atto umano ( Autori recenti ).
h) Il peccato veniale è esso stesso ordinato abitualmente a Dio e questo deve bastare per un buon tomista ( P. Deman ).
9 - Evidentemente noi non possiamo qui discutere il valore di ognuna di codeste sentenze.
Rimandiamo i lettori più esigenti alla nota bibliografica con la quale si conclude il presente volume.
Ci sembra però doveroso accennare a quella che noi crediamo la migliore e la più genuina impostazione del problema.
Sollecitati dalle obiezioni di altre scuole i nostri bravi tomisti hanno rivolto la loro attenzione al fine dell'atto peccaminoso, e ai vari modi di tendervi.
Non c' è dubbio che la controversia è proprio su questo terreno.
E neppure possiamo mettere in dubbio la validità del principio che ogni azione umana dev'essere compiuta per un fine ultimo; perché questa non è che una esemplificazione di un principio metafisico: « Omne agens agit propter finem ».
I fini intermedi, infatti, non sono fini: in definitiva essi non sono che mezzi - « sunt ad finem ».
Ma per chiarire bene il pensiero di S. Tommaso bisogna tener presenti altri aspetti fondamentali del problema.
Invece di concentrare l'attenzione sul fine, sull'oggetto e sulla tendenza più o meno attuale verso di essi, bisogna rivolgere lo sguardo al soggetto.
Quando l' Autore della Somma insiste a dimostrare che il peccato veniale non può trovarsi negli angeli e neppure nell'uomo prima del peccato originale, non intende affatto di imbastire delle questioni eleganti.
Scoto. il quale pensa di contraddirne le conclusioni ricorrendo al suo volontarismo, dimostra bene di non aver capito affatto il pensiero di S. Tommaso a proposito del peccato veniale.
Per l' Aquinate tale colpa è inconcepibile in un soggetto integro nella sua natura razionale o intellettuale.
L'angelo e l'uomo integro sono immuni dal peccato veniale proprio perché le facoltà sentono attualmente il dominio della facoltà principale orientata decisamente verso un fine ultimo concreto.
Sottolineato il fatto che l'unità di codesti esseri è insieme essenziale e dinamica.
L'uomo decaduto invece è ridotto a una congerie di facoltà, ciascuna delle quali ha le sue brave tendenze.
La ragione è ancora a capo di quest'esercito, ma ormai il suo non è che un dominio politico.
Ebbene il peccato veniale ha il proprio campo di azione proprio in questo marasma nel quale è caduto l'uomo dopo il peccato originale.
Le facoltà periferiche, quali fantasia, il concupiscibile e l'irascibile hanno ormai di fatto a certa autonomia, e sentono il richiamo del loro oggetto, indipendentemente dalle prospettive cui è orientata l'intelligenza, o la volontà; e queste medesime facoltà riescono a fissarsi in un oggetto o in un fine prestabilito.
Stando così le cose è inevitabile che l'uomo, anche se giusto battezzato, cada spesso in peccato veniale.
S. Tommaso giustifica perciò pienamente l'affermazione della Scrittura: « Septies enim cadet iustus, et resurget » ( Pr 24,16 ).10 - La caduta per le anime in grazia avviene nell'ambito dell'orientamento abituale della volontà al bene vero, cioè verso Dio.
Spesso infatti anche l'uomo giusto fa delle concessioni incoerenti alle attrattive delle potenze inferiori, che però non, compromettono la sua orientazione verso il bene supremo.
Questi atti hanno un loro fine?
Sì, lo hanno nella soddisfazione delle facoltà direttamente interessate; ma l'uomo interiore avverte l' incoerenza di simili concessioni.
Il fine della facoltà soddisfatta non è Dio, bensì la creatura.
Però l'uomo che vi ha cercato la soddisfazione ha coscienza di non averla considerata, con la sua ragione e con il suo volere, al di sopra del suo valore di mezzo.
Perciò il peccato veniale ha un fine costitutivo nell'ambito della facoltà che lo emette.
Ma all'esame della ragione codesto fine non supera mai la portata di mezzo: è allora un mezzo incoerente per un ultimo fine abitualmente voluto, cui non può essere attualmente e concretamente ordinato.
É ben chiaro alla coscienza stessa di chi fa il peccato veniale che in quell'azione non si tende in maniera attuale verso Dio, pur conservandone l'amicizia.
S. Tommaso spiega: « In due modi ci possiamo allontanare dal bene divino incommutabile: in maniera [ tabile o ] abituale, e in maniera passeggera [ o ] attuale.
Si allontana in maniera stabile colui che si propone un fine contrario, e questo avviene nel peccato mortale; perciò chi pecca mortalmente è come uno che abbandona una strada.
Uno invece si allontana in maniera attuale [ o passeggera ], quando compie un'azione con la quale non tende a Dio, per il fatto che aderisce in maniera disordinata a un mezzo, senza però costituire in esso il proprio fine; e questo avviene nel peccato veniale.
Perciò chi fa peccato veniale viene paragonato a uno che si attarda troppo sulla strada, e questo è un allontanarsi in senso improprio.
Così chi ritarda il moto di un corpo grave non toglie la gravità o la sua inclinazione al fine.
La toglierebbe invece, se a codesto corpo imprimesse un moto contrario, come quando si producono corpi leggeri da corpi gravi » ( 2 Sent., d. 42, q. 1, a. 3, ad 5 ).
Niente impedisce di dire che la volontà e la ragione, accettando la colpa veniale, tendono a un fine formale che è il bene o la felicità in genere.
Ma trattandosi di felicità a scartamento ridotto, per delle facoltà che non rispecchiano la tendenza globale del soggetto operante, in definitiva codesto fine non rimane che un mezzo.
Questo ci sembra in poche parole il punto di vista dell'Aquinate sull'argomento.
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