Summa Teologica - II-II |
Questa distinzione tra « fare bene » ( fabbricare ) e « agire bene » ( vivere ) è fondamentale per distinguere tra abito e virtù.
Alla semplice abilità evocata dalla nozione di abito, quella di virtù aggiunge il perfezionamento morale ed è per questo che soltanto le virtù morali meritano questo nome, mentre le virtù intellettive non lo portano che impropriamente.
Non è sufficiente conoscere il bene, ma occorre compierlo; perciò « la sede della virtù propriamente detta non può trovarsi che nella volontà o in un'altra potenza che sia mossa dalla volontà ».452
Ed è qui, come si vede, che raggiungiamo il trattato delle passioni, perché nella misura in cui l'irascibile e il concupiscibile possono essere volontari per partecipazione, in questa stessa misura potranno essere la sede di virtù.
La temperanza avrà così il compito di disciplinare il concupiscibile insegnandogli a resistere a tutto ciò che potrebbe allontanarlo dal bene mediante l'impulso del piacere facile.
La fortezza avrà al contrario il compito di sostenere l'irascibile e di aiutarlo ad affrontare l'ostacolo di fronte a tutto ciò che potrebbe allontanarlo dal bene per timore o debolezza.
In entrambi i casi, la virtù fortifica la persona nel suo legame al bene, mentre il fatto di cedere all'inclinazione naturale delle sue passioni la condurrebbe alla dissoluzione.
Si comincia così a vedere come la virtù rende buono colui che l'esercita.
Contribuire a prevenire la disgregazione dell'essere morale e a unificarlo in profondità fin nelle sue potenze sensibili rappresenta già una vittoria.
Tuttavia occorre menzionare anche un altro beneficio che per lo più passa troppo spesso inosservato.
Mentre un agire forzato provoca la tristezza in quanto è il risultato di una violenza esternamente imposta453 l'agire virtuoso è al contrario fonte di gioia.
Questa è la diretta conseguenza della spigliatezza con cui si utilizza l'abito virtuoso; lungi dal diminuire il valore dell'atto, il piacere col quale lo si compie ne accresce al contrario la facilità e il merito: « Più il soggetto opera con piacere, dato il suo abito virtuoso, più il suo atto sarà piacevole e meritorio ».454
Come osserva Tommaso con una certa insistenza commentando Aristotele: « Le azioni compiute virtuosamente sono naturalmente gradevoli.
Bisogna ancora aggiungere che il diletto che se ne ricava appartiene necessariamente alla virtù ed entra nella sua definizione.
Non si è buoni né virtuosi se non si trova la propria gioia nel ben agire »455
Evidentemente siamo molto lontani dal pio slogan fino a poco tempo fa così diffuso: solo ciò che costa è meritorio.
Da ciò non necessariamente si concluderà che non bisogna agire per dovere ma soltanto per piacere; è certo però che se si agisce con molto amore si troverà la propria gioia.
La virtù è incompatibile con la tristezza.456
Si farà attenzione a non dedurre dalla citazione di Aristotele che Tommaso non ha altre fonti in questa materia; anzi, egli ha saputo elaborare un bellissimo commento di un proverbio citato da san Paolo ai Corinzi ( 1 Cor 9,7 ): « "Dio ama chi dona con gioia".
Eccone il motivo. Colui che ricompensa, ricompensa ciò che è degno, ossia soltanto gli atti di virtù.
Ora, in un atto virtuoso bisogna considerare due cose: la specie dell'atto e il modo in cui l'agente lo compie.
Ne deriva che se una di queste due cose non si ritrova in un dato atto, non si dirà che si tratta realmente ( simpliciter ) di un atto virtuoso; così non sarà perfettamente giusto secondo la virtù se non colui che compie le opere della giustizia con gioia e diletto.
Per gli uomini che vedono soltanto le apparenze, è sufficiente che l'atto di virtù sia impostato quanto alla sua specie, ma per Dio che scruta il cuore, ciò non è sufficiente, occorre ancora che l'atto sia compiuto secondo la giusta maniera, ossia con gioia e diletto.
Perciò Dio approva e ricompensa non « colui che dà » soltanto, ma colui che dà « con gioia », non con tristezza e controvoglia: « Servite il Signore nella gioia » ( Sal 100,2 ); « Nelle tue offerte mostrati gioioso » ( Sir 35,11 ); « Che colui che esercita la misericordia lo faccia con gioia » ( Rm 12,8 ).457
Si può aggiungere qui - ma è lungi dall'essere secondario, e vedremo ben presto perché - che vi è un uso « intelligente » della virtù che ne esclude ogni ristrettezza.
La virtù non elimina soltanto la tristezza, ma anche la meschineria.
Tra le virtù annesse che fra Tommaso collega alla virtù di fortezza, si trova ciò che egli chiama la magnanimità, la grandezza d'animo.
Molto poco conosciuta, poiché non rientra nella catechesi corrente, questa virtù che stabilisce « la misura della ragione nei grandi onori » riceve nella Somma un trattamento molto ampio458
Oltre all'eredità aristotelica ( sottomessa peraltro a seria critica ), è la sua estrazione sociale che ha potuto invitare Tommaso ad approfondire questo tema, non fosse altro che per proporre ai suoi un codice di comportamento sociale.
Per cui non sarebbe possibile esagerare l'influenza di questo secondo fattore, poiché non vi è alcun dubbio che Tommaso si fa dell'uomo un'idea a misura del suo Creatore.
Più l'uomo è grande, più lo è anche Dio.
La coscienza della sua piccolezza dinanzi a Dio non elimina la coscienza della sua grandezza; per questo l'umiltà dev'essere accompagnata dalla magnanimità.
Per i cristiani, l'umiltà esercita sì la sua moderazione a tutti i livelli, fino al punto in cui umiltà e magnanimità confluiscono nella nozione di speranza teologale ( a quale più grande onore si potrebbe aspirare rispetto a quello di condividere la comunione trinitaria? ).459
Ma resta rilevante il fatto che la virtù si trovi dalla parte della grandezza e i vizi opposti si chiamino pusillanimità e meschineria.460
Indice |
452 | I-II, q. 56, a. 3. |
453 | Cf. Quaestio de virtutibus, a. 4. |
454 | Sent. III d. 23 q. 1, a. 1 ad 4, Quanto delectabiius operatur propter babitum uirtutis, tanto actus eius est delectabilior et magis meritorius. |
455 | Commento all'Etica a Nicomaco I, 13( 1099 a 17 ), Leon., t. 47/1, p. 47, linee 85-90. |
456 | Giustamente OH. PESCH, Tommaso d'Aquino ( qui sopra, nota 29 ), pp. 235 SS., ha osservato che nessun'altra passione è trattata con tanta ampiezza quanto la tristezza; così pure Tommaso tratta molto seriamente dell'omonimo peccato: quello che si oppone alla gioia che viene da Dio è chiamato « accidia », quello che si oppone alla gioia che viene dal bene del prossimo si chiama « invidia » ( cf. II-II, qq. 35-36 ). |
457 | In ad 2 Cor. 9,7, lect. 1, n. 332. |
458 | II-II, qq. 129-133. |
459 | Rinviamo qui al capolavoro di R.-A. GAUTHtER, Magnanimité. L'idéal de la grandeur dans la philosophie paienne et dans la théologie chrétienne, « Bibl. thomiste 27 », Paris 1951, pp. 295-37 1 e soprattutto pp. 443-465. |
460 | Cf. II-II, q. 133; pusillanimitas porta proprio lo stesso nome sia in latino che in italiano; seguendo molti altri abbiamo tradotto con « meschineria » ( mesquineria in orig. ) quella che Tommaso indica come parvificentia [ che potremmo rendere in italiano con « piccineria », n. d. tr. 1. La meschineria si oppone in realtà alla magnanimità ( cf.
II-II, qq. 134-135 ), ma restiamo proprio nella stessa attitudine d'animo. La vedova del Vangelo ( Lc 21,2-4 ) che offre tutto ciò che possiede agisce con grandezza; il carattere modesto della sua offerta non muta niente. |