Summa Teologica - II-II |
Infra a. seq.; De Malo, q. 10, a. 1, ad 6; In 1 Cor., c. 14, lect. 1
Pare che l'invidia non sia una tristezza.
1. La tristezza ha per oggetto il male.
Ora, l'invidia ha per oggetto il bene: così infatti S. Gregorio [ Mor. 5,46 ] parla dell'invidioso: « La felicità altrui ne ferisce e ne tortura l'anima con la sua pena ».
Perciò l'invidia non è una tristezza.
2. La somiglianza non è causa di dolore, bensì di piacere.
Ma la somiglianza è causa di invidia: scrive infatti il Filosofo [ Reth. 2,10 ]: « Proveranno l'invidia coloro che sono simili nel genere, ossia nella parentela, nella statura, nelle abitudini o nelle opinioni ».
Quindi l'invidia non è una tristezza.
3. La tristezza viene causata da qualche deficienza: vi sono inclini infatti quelli che soffrono qualche grave deficienza, come si è detto nel trattato sulle passioni [ I-II, q. 47, a. 3 ].
Invece sono invidiosi, come nota il Filosofo [ ib. ], « quelli che hanno piccole deficienze, o che amano gli onori, o che sono stimati sapienti ».
Perciò l'invidia non è una tristezza.
4. La tristezza è il contrario del piacere.
Ma i contrari non possono avere la stessa causa.
Dal momento quindi che il ricordo dei beni posseduti causa il piacere, come già si disse [ I-II, q. 32, a. 3 ], esso non potrà causare la tristezza.
Ma esso è causa dell'invidia: infatti il Filosofo [ ib. ] afferma che gli uomini hanno invidia di coloro « che hanno o possiedono i beni che erano loro dovuti, o che essi un tempo possedevano ».
Quindi l'invidia non è un tipo di tristezza.
Il Damasceno [ De fide orth. 2,14 ] insegna che l'invidia è una specie di tristezza, affermando che l'invidia è « la tristezza dei beni altrui ».
L'oggetto della tristezza è il male proprio.
Ma può capitare di vedere il bene altrui come un male proprio, nel qual caso il bene altrui può essere oggetto di tristezza.
E ciò può capitare in due modi.
Primo, quando uno si rattrista del bene di un altro in quanto è per lui nocivo: come quando uno si rattrista dell'esaltazione del suo nemico perché ne teme un danno.
Tale tristezza però non è invidia, ma è piuttosto un effetto del timore, come nota il Filosofo [ Reth. 2,9 ].
Secondo, il bene altrui può essere creduto un male proprio in quando sminuisce la propria gloria, o la propria eccellenza.
Ed è in questo modo che si rattrista del bene altrui l'invidia.
Ed è ancora per questo, come osserva il Filosofo [ Reth. 2,10 ], che gli uomini hanno invidia specialmente di quei beni « che implicano la gloria, e da cui gli uomini ambiscono di cogliere l'onore e la reputazione ».
1. Nulla impedisce che quanto è bene per uno sia considerato un male per altri.
E in questo modo ci può essere una certa tristezza del bene, come si è spiegato [ nel corpo ].
2. L'invidia, essendo motivata dalla gloria altrui in quanto diminuisce il prestigio che uno desidera, si prova soltanto per coloro dei quali si vuole raggiungere o sopravanzare il prestigio.
Ora, ciò non avviene rispetto a quelli che sono troppo distanti: nessuno infatti, all'infuori di un pazzo, tenta di raggiungere o sopravanzare nella gloria quelli che sono molto superiori: un uomo del popolo, p. es., non invidia un re, né un re invidia un uomo del popolo, che egli molto sopravanza.
Quindi l'uomo non invidia quelli che sono troppo distanti per luogo, tempo e condizione, ma quelli che sono vicini, e che egli cerca di uguagliare o di superare.
Quando infatti costoro ci superano nella gloria, ciò avviene contro il nostro volere, e quindi ne viene causata una tristezza.
La somiglianza causa invece piacere nei casi in cui si accorda con la volontà.
3. Nessuno si sforza di raggiungere una cosa in cui si sente troppo manchevole.
Per cui quando in questa viene superato, non prova invidia.
Se invece la sua deficienza non è molta, allora gli pare di poter raggiungere quel bene, e così tenta di raggiungerlo.
Per cui se i suoi tentativi vengono frustrati dal prevalere della gloria altrui, se ne rattrista.
Ed è per questo che gli amanti degli onori sono più portati all'invidia.
Come pure sono invidiosi i pusillanimi: poiché essi stimano grande qualsiasi cosa, e per qualunque bene capitato a un altro pensano di aver subìto un grave insuccesso.
Per cui nella Scrittura [ Gb 5,2 ] si legge: « Al pusillanime dà morte l'invidia ».
E S. Gregorio [Mor. 5,46 ] insegna che « non possiamo invidiare se non coloro che in qualcosa stimiamo migliori di noi ».
4. Il ricordo dei beni passati produce un piacere in quanto se ne ebbe il possesso; ma in quanto quei beni sono perduti, causano tristezza.
E in quanto sono posseduti da altri causano invidia: poiché ciò pare compromettere al massimo la propria gloria.
Per questo il Filosofo [ l. cit. nell'ob. ] scrive che « i vecchi hanno invidia dei più giovani; e quelli che spesero molto per conseguire una cosa hanno invidia di quelli che l'hanno raggiunta con poca fatica »: essi infatti si addolorano della perdita dei loro beni, e del fatto che altri se ne sono impossessati.
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