Supplemento alla III parte |
Pare che la contrizione non sia il più grande dolore possibile in natura.
1. Il dolore è la sensazione di una lesione.
Ma certe lesioni sono sentite più fortemente della lesione del peccato: p. es. la lesione di una ferita.
Quindi la contrizione non è il dolore più grande.
2. Le cause le giudichiamo dagli effetti.
Ora, l'effetto del dolore sono le lacrime.
Poiché dunque talvolta chi è contrito non versa lacrime per i peccati, mentre ne versa per la morte di un amico, per una ferita o per altre cose del genere, pare che la contrizione non sia il più grave dei dolori.
3. Più un sentimento è mescolato al suo contrario, tanto meno è intenso.
Ora, nel dolore della contrizione è mescolata molta gioia: poiché il contrito gode della propria liberazione, della speranza del perdono e di altre cose del genere.
Quindi il suo dolore è minimo.
4. Il dolore della contrizione è un certo dispiacere.
Ma vi sono molte cose che dispiacciono all'uomo contrito più dei peccati commessi: infatti egli non vorrebbe subire la pena dell'inferno piuttosto che peccare, e neppure avere sostenuto tutte le pene temporali, o anche sostenerle: altrimenti pochi sarebbero i contriti.
Perciò la contrizione non è il dolore più grande.
1. Qualsiasi dolore è fondato sull'amore, nota S. Agostino [ De civ. Dei 14,7 ].
Ma l'amore di carità, su cui è fondato il dolore della contrizione, è l'amore più grande.
Quindi la contrizione è il dolore più grande.
2. Il dolore riguarda il male.
Quindi per un male più grave ci deve essere un dolore più grande.
Ma la colpa è un male più grande della pena.
Quindi il dolore della colpa, ossia la contrizione, sorpassa ogni altro dolore.
Nella contrizione dobbiamo distinguere due tipi di dolore.
Il primo risiede nella volontà, e in esso consiste essenzialmente la contrizione, la quale altro non è che il dispiacere dei peccati commessi.
E questo dolore nella contrizione sorpassa tutti gli altri dolori.
Infatti nella misura in cui una cosa piace, dispiace il suo contrario.
Ora, il fine piace sopra tutte le cose: poiché tutto è desiderato per il fine.
Quindi il peccato che distoglie dall'ultimo fine deve dispiacere più di ogni altra cosa.
Il secondo tipo di dolore risiede nella parte sensitiva, ed è causato dal primo dolore: o per una necessaria conseguenza naturale, in quanto le facoltà inferiori seguono il moto di quelle superiori, oppure per una scelta, in quanto il penitente eccita in se stesso questo dolore per piangere i peccati.
Ora, in nessuno di questi due casi è richiesto che il dolore sia della massima intensità.
Poiché le facoltà inferiori vengono mosse dagli oggetti loro propri con maggiore intensità che in seguito alla ridondanza delle facoltà superiori.
Quindi più l'operazione delle potenze superiori è prossima agli oggetti di quelle inferiori, più queste ne seguono l'impulso.
Così dunque la parte sensitiva prova maggior dolore per una lesione sensibile di quanto non ne provi per ridondanza dalla ragione.
E così pure è più intenso quel dolore che ridonda dalla ragione quando questa ha per oggetto realtà materiali, che non quando ha per oggetto realtà spirituali.
Per cui il dolore della parte sensitiva che deriva dal dispiacere provato dalla ragione per il peccato non è più intenso degli altri dolori che si producono in essa.
- E lo stesso si dica del dolore cercato volontariamente.
Sia perché gli affetti inferiori non ubbidiscono ciecamente e assolutamente, in modo da produrre nell'appetito inferiore una passione così grande come comanda l'appetito superiore.
Sia anche perché le passioni vengono assunte negli atti virtuosi secondo una certa misura, mentre talora il dolore non virtuoso non ne tiene conto e la sorpassa.
1. Come il dolore sensibile deriva dalla sensazione di una lesione, così il dolore interiore deriva dalla conoscenza di un danno.
Sebbene quindi la lesione del peccato non venga percepita dai sensi esterni, tuttavia è percepita come sommamente nociva dal senso interiore della ragione.
2. Le mozioni fisiche seguono le passioni della parte sensitiva immediatamente, mentre solo mediante queste ultime seguono gli affetti dell'appetito superiore.
Per questo le lacrime scaturiscono con maggiore prontezza per il dolore sensibile, o anche per mali più prossimi alla sensibilità, che non per il dolore spirituale della contrizione.
3. La gioia che il penitente prova del proprio dolore non ne diminuisce il dispiacere, ma lo aumenta, poiché non gli è contraria: infatti, secondo Aristotele [ Ethic. 10,5 ], « ogni funzione trova incremento nel piacere che provoca »; come chi prova piacere nell'apprendere una data scienza, impara meglio.
E allo stesso modo chi gode di un dispiacere, lo sente in modo più acuto.
- Può darsi però che tale gioia temperi il dolore che rifluisce dalla ragione sulla sensibilità.
4. Il grado di dispiacere per una data cosa deve corrispondere al grado di malizia di quest'ultima.
Ora, in una colpa mortale la malizia viene misurata in rapporto alla persona contro cui si pecca e che ne riceve l'ingiuria, e in rapporto a colui che pecca e che ne riceve il danno.
E poiché l'uomo deve amare Dio più di se stesso, conseguentemente deve odiare la colpa più in quanto è offesa di Dio che in quanto è nociva a lui stesso.
Ora, la colpa è nociva a lui stesso principalmente perché lo separa da Dio.
E da questo lato la separazione da Dio, che è una certa pena, deve dispiacere più della colpa in quanto produce tale danno, poiché quanto è odiato per un dato motivo è meno odiato del motivo stesso; tuttavia deve dispiacere meno della colpa in quanto è offesa di Dio.
Tra le varie pene poi il grado di malizia va considerato in base alla gravità del danno.
Quindi, poiché il massimo danno è la privazione del sommo bene, fra tutte le pene la più grave è la separazione da Dio.
C'è poi una gradualità di malizia accidentale, che è doveroso considerare nel dispiacere, basata sul rapporto tra presente e passato: poiché il passato ormai non esiste più, e quindi implica un grado minore di malizia come di bontà.
Per questo l'uomo rifugge dal sopportare un male presente o futuro più di quanto non provi orrore per un male passato.
Infatti non esiste una passione che corrisponda al male passato come il dolore corrisponde al male presente e il timore a quello futuro.
Perciò di due mali passati l'animo aborrisce maggiormente quello i cui effetti rimangono al presente o sono temuti per il futuro, anche se nel passato era un male minore.
E poiché l'effetto di una colpa precedente spesso non viene percepito come l'effetto di una pena precedente, sia perché la colpa viene guarita più perfettamente di certe pene, sia perché una menomazione fisica è più evidente di una menomazione spirituale, di conseguenza l'uomo, anche se ben disposto, talora sente maggiormente la ripulsa per una pena precedente che per una colpa precedente, sebbene sia più pronto a soffrire quella pena che a commettere quella colpa.
Si deve inoltre notare, nel confronto tra la colpa e la pena, che alcune pene sono inseparabili dall'offesa di Dio, come la separazione da Dio; altre poi aggiungono la perpetuità, come la pena dell'inferno.
Perciò la pena a cui è annessa un'offesa va fuggita come la colpa.
Quella poi che implica perpetuità, di per sé va fuggita più della colpa.
- Se però si prescinde dall'offesa, e si considera solo la pena, questa riveste una malizia minore della colpa in quanto è offesa di Dio.
E per questo deve dispiacere di meno.
Si noti però che, sebbene tale debba essere la disposizione di chi è contrito, tuttavia questi non va tentato in proposito.
Poiché l'uomo non può facilmente misurare i propri affetti, e talvolta ciò che dispiace meno pare che dispiaccia di più, essendo più vicino a un danno sensibile, che ci impressiona maggiormente.
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