La città di Dio |
Ho detto nei libri precedenti1 che Dio ha voluto far provenire gli uomini da un solo uomo non solo per far convivere il genere umano nella identità della natura, ma anche per inserirlo mediante lo stretto legame della comune origine nella unità dei rapporti col vincolo della pace.
Il genere umano non era destinato alla morte di ciascun individuo se i primi due, di cui l'uomo non proveniva da altro individuo, la donna da lui, non l'avessero meritata a causa della disobbedienza.
In tal modo fu commesso da loro un così grande peccato che la natura umana incorse nella depravazione, perché furono trasmessi anche ai posteri la soggezione al peccato e il destino della morte.
Il potere della morte prevalse al punto da sospingere per la dovuta pena nell'abisso della seconda morte, che non ha fine, tutti gli uomini se la non dovuta grazia di Dio non ne avesse liberato un certo numero.
È avvenuto così che, sebbene numerosi e grandi popoli sussistano nel mondo con diverse religioni e costumi e si distinguano per notevole diversità di lingua, armamento e abbigliamento, tuttavia non si abbiano più di due tipi di umana convivenza.
Giustamente secondo il linguaggio della sacra Scrittura potremo definirli le due città.
Una è degli uomini che intendono vivere secondo la carne, l'altra di coloro che intendono vivere secondo lo spirito, ciascuna nella pace del proprio stile di vita; e quando conseguono il fine a cui tendono, vivono, ciascuna, nella pace del proprio stile di vita.
Prima dunque si deve esaminare che cosa significa vivere secondo la carne, che cosa secondo lo spirito.
Chi infatti interpreta le nostre parole di primo acchito, perché non ricorda o non riflette al modo con cui si esprime la sacra Scrittura, può pensare che i filosofi epicurei vivono secondo la carne, perché hanno riposto il bene sommo dell'uomo nel piacere sensibile.
Allo stesso modo pensano altri i quali hanno ritenuto in qualunque senso che il sommo bene dell'uomo è il bene materiale e tutta la massa d'individui che non ragionano in quel modo in base a una dottrina ma, portati dalla sensualità, sanno godere soltanto dei piaceri che percepiscono con i sensi.
Al contrario si potrebbe pensare che gli stoici, i quali ripongono il sommo bene dell'uomo nell'animo, vivano secondo lo spirito.
L'animo dell'uomo è appunto lo spirito.
Ma stando all'insegnamento della divina Scrittura si rileva che tutti e due vivono secondo la carne.
Essa certamente considera carne il corpo dell'essere animato terreno e mortale, come quando dice: Non ogni carne è la medesima; una cosa è infatti quella dell'uomo e altra quella del mammifero, degli uccelli e dei pesci. ( 1 Cor 15,39 )
Però si vale del significato di questa parola in molti altri sensi.
Usando una delle varie forme del linguaggio figurato considera carne l'uomo stesso, con quella figura che è la parte per il tutto, come in questo passo: Non ogni carne sarà giustificata dalle opere della legge. ( Rm 3,20 )
Ha certamente voluto intendere ogni uomo.
Lo indica esplicitamente di seguito quando soggiunge: Nessuno nella legge è giustificato, ( Gal 3,11 ) e nella Lettera ai Galati: Poiché sapete che l'uomo non è giustificato dalle opere della legge. ( Gal 2,16 )
In questo senso figurato s'intende: E il Verbo si è fatto carne, ( Gv 1,14 ) cioè uomo.
Non interpretando bene alcuni hanno pensato che il Cristo fosse privo dell'anima umana.
Talora al contrario si prende il tutto per la parte, come in quel passo del Vangelo in cui sono riportate le parole di Maria di Magdala che dice: Hanno sottratto il mio Signore e non so dove lo hanno riposto. ( Gv 20,13 )
Intendeva certamente soltanto la carne del Cristo, che riteneva sottratta dal monumento in cui era sepolta.
Così come parte per il tutto col termine carne s'intende l'uomo, come indicano i passi che sopra abbiamo citato.
Richiede troppo tempo discutere e compendiare i molti sensi in cui la sacra Scrittura usa il termine carne.
Quindi per poter trattare il significato di vivere secondo la carne, che è un male sebbene non lo sia il concetto di carne, esaminiamo con attenzione un brano della Lettera ai Galati dell'apostolo Paolo.
Egli dice: Sono note le opere della carne, che sono le fornicazioni, le impurità, la lussuria, l'idolatria, i malefizi, le inimicizie, le discordie, le rivalità, le animosità, i litigi, le fazioni, le invidie, le ubriachezze, le gozzoviglie e vizi simili a questi.
Vi avverto, come già ho fatto, che chi compie tali azioni non erediterà il regno di Dio. ( Gal 5,19-21; 1 Cor 6,9-10 )
Tutto questo brano della lettera dell'Apostolo, per quanto attiene all'argomento in questione, bene interpretato, può risolvere il problema del significato di vivere secondo la carne.
Fra le opere della carne, che ha dichiarato note e ha condannato dopo averle passate in rassegna, non troviamo soltanto quelle che riguardano il piacere della carne, come fornicazioni, impurità, lussuria e ubriachezze, gozzoviglie, ma anche quei pervertimenti dell'animo che si presentano esenti dal piacere della carne.
Ognuno capisce che idolatria, malefizi, inimicizie, discordie, rivalità, animosità, litigi, fazioni, invidie, sono piuttosto pervertimenti dell'animo che della carne.
Può avvenire talora che a causa dell'idolatria o dell'errore di qualche fazione ci si astenga dai piaceri sensibili.
Tuttavia col testo dell'Apostolo si prova che anche in tal caso l'uomo vive secondo la carne, quantunque sembri reprimere e dominare le passioni della carne, e si dimostra che compie le biasimevoli opere della carne proprio per il fatto che si astiene dai piaceri della carne.
Certamente le inimicizie si sentono nell'animo, eppure non v'è alcuno che, rivolgendosi a un suo nemico o presunto nemico, gli dice: "Tu hai della malacarne contro di me" e non piuttosto: "del malanimo".
Infine se si udisse parlare delle carnalità, per così dire, non si dubiterebbe di assegnarle alla carne, così non si può dubitare che le animosità appartengono all'animo.
Quindi il Dottore delle genti nella fede e nella verità ( 1 Tm 2,7 ) considera opere della carne questi pervertimenti e simili soltanto perché, secondo il discorso figurato con cui si usa la parte per il tutto, col termine carne intende indicare tutto l'uomo.
Se si dice che la carne nella condotta immorale è l'origine di tutti i vizi, perché l'anima agitata dalla carne si comporta di conseguenza, senza dubbio non si riflette attentamente sull'intera natura dell'uomo.
Infatti il corpo corruttibile appesantisce l'anima.
Anche l'apostolo Paolo, nel discutere del corpo corruttibile sul quale poco prima aveva dichiarato: Sebbene il nostro uomo esteriore si corrompa, ( 2 Cor 4,16 ) afferma: Sappiamo che, sebbene sarà disfatta la casa di creta, nostra dimora quaggiù, riceveremo un'abitazione da Dio, una casa non costruita da mano d'uomo, nei cieli.
Infatti sospiriamo in questo stato perché desideriamo di rivestirci del nostro corpo che è dal cielo, a condizione però di essere trovati già vestiti, non nudi.
In realtà quanti siamo in questa dimora, sospiriamo appesantiti perché non vogliamo esserne spogliati ma rivestiti più intimamente affinché ciò che è mortale sia assorbito dalla vita. ( 2 Cor 5,1-4 )
Dunque siamo appesantiti dal corpo corruttibile ma, sapendo che la causa dell'appesantimento non sono la natura e l'essenza del corpo ma la sua corruzione, non vogliamo essere spogliati del corpo ma essere rivestiti della sua immortalità.
Anche allora sarà corpo ma, poiché non sarà corruttibile, non appesantirà.
Quindi ora il corpo corruttibile appesantisce l'anima e la dimora di creta asservisce il senso che percepisce molti oggetti. ( Sap 9,15 )
Tuttavia coloro i quali pensano che tutti i mali spirituali provengano dal corpo sono in errore.
Sembra che Virgilio esponga in versi elegantissimi una teoria di Platone quando scrive: Quei semi hanno vivacità di fuoco e origine dal cielo nei limiti in cui non li rallentano i corpi e non li trattengono le terrene dimensioni e le membra destinate a morire.
Volendo far intendere che derivano dal corpo tutte le ben note quattro passioni dell'animo, il desiderio e il timore, la gioia e la tristezza, come origini di tutti gli atti e abitudini immorali, soggiunge: A causa del corpo temono e desiderano, si dolgono e godono e non veggono il libero cielo, perché chiuse nelle tenebre e nel carcere buio.2
Comunque la nostra fede la pensa diversamente.
Infatti la corruzione del corpo che appesantisce l'anima ( Sap 9,15 ) non è causa ma pena del primo peccato; e non la carne corruttibile ha reso peccatrice l'anima, ma l'anima peccatrice ha reso corruttibile la carne.
E sebbene da tale corruzione della carne provengono alcuni stimoli immorali e gli stessi desideri immorali, tuttavia non tutti i vizi della vita immorale si devono attribuire alla carne.
Non dobbiamo discolparne completamente il diavolo, che non ha carne.
Infatti non può essere giudicato impudico o ubriacone o soggetto ad altro pervertimento del genere perché sono di pertinenza dei piaceri della carne, sebbene sia invisibile incitatore e istigatore anche di tali disordini.
È tuttavia molto superbo e invidioso.
E questa forma di perversione si impossessò di lui in modo tale che per causa sua è stato destinato al supplizio eterno in un carcere dall'atmosfera tenebrosa.
L'Apostolo assegna alla carne, che certamente il diavolo non ha, i seguenti vizi che in lui hanno il primo posto.
Afferma appunto che le inimicizie, le discordie, le rivalità, le animosità, le invidie sono opere della carne. ( Gal 5,20-21 )
E di tutte queste malvagità il punto di partenza è la superbia, che nel diavolo domina pur senza la carne.
Eppure nessuno più di lui è nemico dei santi.
Non ci si presenta nessuno che più di lui sia contro di essi discorde, rivale, violento, invidioso.
E poiché ha queste malvagità pur non avendo la carne, ne consegue che sono opere della carne soltanto nel senso che sono opere dell'uomo che, come ho detto, l'Apostolo designa col termine di carne.
L'uomo è divenuto simile al diavolo non perché ha la carne, che il diavolo non ha, ma perché vive secondo se stesso, cioè secondo l'uomo.
Anche il diavolo volle vivere secondo se stesso, allorché non fu costante nella verità, perciò non derivò la menzogna dalla verità di Dio ma dalla propria menzogna, perché non solo è menzognero ma anche padre della menzogna. ( Gv 8,44 )
È stato infatti il primo a mentire e da chi ebbe origine il peccato ebbe origine anche la menzogna.
Dunque quando l'uomo vive secondo l'uomo, non secondo Dio, è simile al diavolo.
Anche l'angelo non doveva vivere secondo l'angelo ma secondo Dio, per perseverare nella verità e per esprimere la verità dalla verità di Lui e non la menzogna dalla propria menzogna.
In un altro passo anche dell'uomo l'Apostolo dice: Se la verità di Dio rifulse nella mia menzogna. ( Rm 3,7 )
Ha parlato della nostra menzogna e della verità di Dio.
Perciò quando l'uomo vive secondo la verità, non vive secondo se stesso ma secondo Dio.
È Dio colui che ha detto: Io sono la verità. ( Gv 14,6 )
Se invece l'uomo vive secondo se stesso, cioè secondo l'uomo, non secondo Dio, certamente vive secondo menzogna.
E questo non perché l'uomo stesso sia menzogna, giacché suo artefice e creatore è Dio che certamente non è artefice e creatore di una menzogna, ma perché l'uomo è stato creato irreprensibile per vivere non secondo se stesso ma secondo colui dal quale è stato creato, cioè per fare la volontà di Lui e non la propria.
Non vivere secondo la norma con cui si è ordinati a vivere, questo appunto è la menzogna.
Egli vuole essere felice anche vivendo in modo da non esserlo.
Niente è più falso di questo desiderio.
Perciò non irragionevolmente il peccato in senso assoluto può essere considerato menzogna.
Esso si commette esclusivamente con la volontà con cui si vuole esser felici o non si vuole essere infelici.
Quindi si ha la menzogna perché, se avviene che si è felici, ne deriva piuttosto che si è infelici o se avviene che si è più felici ne deriva piuttosto che si è più infelici.
Questo avviene appunto perché per l'uomo la felicità può derivare soltanto da Dio, che egli abbandona con l'azione immorale, e non da se stesso perché, vivendo secondo se stesso, agisce immoralmente.
Abbiamo detto che da questo fatto sono derivate due città differenti e contrarie fra di loro, perché vi sono alcuni che vivono secondo la carne e altri secondo lo spirito.3
Si può anche dire in questo senso che alcuni vivono secondo l'uomo e altri secondo Dio.
Molto chiaramente in proposito Paolo scrive ai Corinti: Poiché tra di voi vi sono invidia e discordia, non siete forse carnali e non camminate secondo l'uomo? ( 1 Cor 3,3 )
Camminare secondo l'uomo è lo stesso che esser carnale, perché con carne, che è parte dell'uomo, s'intende l'uomo.
Poco prima aveva considerato viventi secondo l'anima quelli stessi che poi denomina carnali.
Scrive così: Chi degli uomini conosce i valori dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui?
Così nessuno conosce i valori di Dio se non lo Spirito di Dio. Noi, continua, non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo, ma lo Spirito che è da Dio per conoscere le cose che Dio ci ha donato.
Ne parliamo anche non con parole insegnate dalla sapienza umana ma insegnate dallo Spirito, perché confrontiamo le cose spirituali alle spirituali.
L'uomo naturale non conosce le cose che sono dello Spirito di Dio; per lui sono una sciocchezza. ( 1 Cor 2,11-14 )
Poco dopo Paolo dice a costoro, cioè ai viventi secondo l'anima: Ed io fratelli non vi ho potuto parlare come se foste spirituali ma carnali. ( 1 Cor 3,1 )
La frase di sopra e questa sono secondo quel linguaggio figurato che è la parte per il tutto.
Dall'anima e dalla carne, che sono le due parti dell'uomo, può essere significato il tutto che è l'uomo, quindi non sono due cose diverse l'uomo vivente secondo l'anima e l'uomo carnale, ma la medesima cosa, cioè l'uomo che vive secondo l'uomo.
Così s'indicano gli uomini nel passo: Qualsiasi carne non sarà giustificata dalle opere della legge ( Rm 3,20 ) e: Settantacinque anime si recarono in Egitto con Giacobbe. ( Gen 46, 27; At 7,14 )
Nel passo di sopra con qualsiasi carne s'intende "qualsiasi uomo" e nell'altro per settantacinque anime s'intendono settantacinque uomini.
E invece della frase: Non nelle parole insegnate dalla sapienza umana, si poteva dire: "non della sapienza carnale"; come invece di: Camminate secondo l'uomo si poteva dire: "secondo la carne".
Più apertamente questo senso è stato evidente nelle parole che Paolo soggiunse: Quando qualcuno dice: Io sono di Paolo, e un altro: Io di Apollo, non mostrate di essere uomini? ( 1 Cor 3,4 )
Il senso che si aveva in: Vivete secondo l'anima e in: Siete carnali è stato espresso con maggiore evidenza con le parole: Siete uomini che significano: "Vivete secondo l'uomo", non secondo Dio, perché se viveste secondo lui sareste dèi.
Non v'è ragione dunque di accusare nei nostri peccati e vizi, quasi per un insulto al Creatore, la natura della carne, perché nel suo genere e ordine essa è buona.
Non è bene, dopo avere abbandonato il bene che è il Creatore, vivere secondo un bene creato, sia che si scelga di vivere secondo la carne o secondo l'anima o secondo tutto l'uomo, composto di anima e di carne, e che perciò può essere indicato anche con i termini della sola anima o della sola carne.
Chi esalta come sommo bene la natura dell'anima e disprezza come male la natura della carne, senza dubbio carnalmente fa oggetto di desiderio l'anima e di fuga la carne.
Giudica infatti secondo l'umana futilità e non secondo la verità divina.
Certamente i platonici non vaneggiano come i manichei al punto da detestare i corpi terrestri come essenza del male.
Essi attribuiscono a Dio artefice tutti gli elementi, da cui è composto questo mondo visibile e tangibile e le relative proprietà.
Ritengono tuttavia che dalle strutture fisiologiche e dalle membra soggette a morire le anime siano condizionate al punto che da esse derivino le affezioni dei desideri, timori, gioia e tristezza.
A queste quattro forme di perturbazioni, come dice Cicerone,4 o passioni, come preferiscono altri che derivano dal greco, si riconduce definitivamente l'immoralità dei comportamenti dell'uomo.
Se le cose stanno così, non v'è ragione che l'Enea di Virgilio, avendo udito dal padre nell'aldilà che le anime sarebbero tornate ai corpi, si meravigliasse di questa notizia con le parole: O padre, allora si deve pensare che alcune anime eccelse vadano al cielo e poi tornino ai corpi che appesantiscono?
Ma quale tragico desiderio della luce del mondo hanno questi infelici?5
Ma un desiderio così tragico derivante dagli arti terrestri e dalle membra soggette a morire è ancora presente in quella purezza così elevata delle anime?
Non afferma il poeta che esse sono guarite da tutte le simili pesti del corpo, come egli dice, quando incominciano a voler tornare nel corpo?
Se ne deduce, anche se si verificasse, cosa del tutto assurda, l'avvicendarsi di purificazione e contaminazione delle anime che vanno e vengono e l'impossibilità di affermare secondo verità che tutti gli stimoli colpevoli e immorali delle anime si sviluppino in loro dai corpi terrestri.
Infatti quel tragico desiderio della teoria dei platonici, come dice l'illustre poeta, non può assolutamente pervenire dal corpo per costringere ad essere nel corpo l'anima guarita da ogni pestilenza del corpo.
Infatti per loro stessa convinzione l'anima non è condizionata soltanto dalla carne a desiderare, temere, gioire, affliggersi, ma può essere agitata da stimoli provenienti da lei stessa.
C'è di mezzo appunto l'indole della volontà dell'individuo: se è perversa avrà inclinazioni perverse, se è retta non solo saranno immuni da colpa ma anche degne di lode.
La volontà è in tutte le inclinazioni, anzi esse non sono altro che atti di volontà.
Difatti il desiderio e la gioia sono la stessa volontà nella convergenza con gli oggetti che vogliamo.
E il timore e la tristezza sono la volontà nella divergenza dagli oggetti che non vogliamo.
Ma l'inclinazione si chiama desiderio se siamo in convergenza cercando di raggiungere gli oggetti che vogliamo e gioia se siamo in convergenza godendo delle cose che vogliamo.
Allo stesso modo la volontà è timore se siamo in divergenza da ciò che non vogliamo ci avvenga ed è tristezza se siamo in divergenza da ciò che è avvenuto sebbene non lo volessimo.
In definitiva stando alla diversità degli oggetti che si intendono raggiungere o si fuggono, secondo che la volontà umana viene attratta o respinta, essa si muta e si volge alle une o alle altre emozioni.
Perciò un uomo che vive secondo Dio, non secondo l'uomo, necessariamente è amante del bene, ne consegue che odia il male.
E poiché chi è cattivo non lo è per essenza ma per difetto, chi vive secondo Dio deve odio totale al male ( Sal 139,22 ) in modo da non odiare l'uomo a causa di un difetto e da non amare il difetto per amore dell'uomo, ma odi il difetto, ami l'uomo.
Guarito il difetto, rimarrà tutto da amare, niente da odiare.
Chi intende amare Dio e amare il prossimo come se stesso, non secondo l'uomo ma secondo Dio, certamente, in virtù di questo amore, è dichiarato di buona volontà, che abitualmente nella sacra Scrittura è detta carità ma anche, sempre nella Scrittura, amore.
L'Apostolo afferma che l'eletto a reggere il popolo secondo il suo comando deve essere anche amante del bene. ( Tt 1,8; Rm 13,1 )
Il Signore stesso interrogò l'apostolo Pietro con le parole: Mi vuoi bene più di costoro?
Quegli rispose: Lo sai, Signore, che io ti amo.
E il Signore ripropose la domanda chiedendo non se Pietro lo amava ma se gli voleva bene e quegli rispose ancora: Signore, tu lo sai che io ti amo.
Alla terza volta anche Gesù non chiese: Mi vuoi bene? ma: Mi ami? E l'Evangelista continua: Si afflisse Pietro perché gli chiese per la terza volta: Mi ami? Eppure Gesù non per tre volte, ma soltanto una volta aveva chiesto: Mi ami? e due: Mi vuoi bene?
Da ciò si capisce che anche quando il Signore chiedeva: Mi vuoi bene? intendeva: Mi ami?
Pietro non variò il termine di questo unico significato, ma anche alla terza volta disse: Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo. ( Gv 21,15-17 )
Ho ritenuto di richiamare l'episodio perché alcuni suppongono che altro è il voler bene o carità e altro l'amore.
Dicono che il voler bene si contraddistingue nel bene, l'amore nel male.
È assolutamente certo che neanche gli scrittori profani ritengono tale opinione.
Però se la vedano i filosofi se e perché fanno certe distinzioni.
I loro libri comunque dichiarano abbastanza chiaramente che essi hanno molto stimato l'amore anche per le cose buone e anche verso Dio.
Si doveva indurre a riflettere che i nostri libri rivelati, la cui autorità anteponiamo a tutte le opere letterarie, non dicono che altro è l'amore, altro il voler bene o carità.
Ho già accennato che l'amore ha significato anche nel bene.
Ma affinché non si pensi che l'amore ha significato nel male e nel bene, invece il voler bene soltanto nel bene, si rifletta sul passo del Salmo: Chi vuol bene all'ingiustizia, odia la sua anima ( Sal 10,6 ) e sull'altro dell'apostolo Giovanni: Se qualcuno vuol bene al mondo, non ha la benevolenza del Padre. ( 1 Gv 2,15 )
In questo passo il voler bene è in senso buono e cattivo.
E affinché qualcuno non insista sull'amore in senso cattivo, giacché in senso buono l'ho già evidenziato, ascolti questa frase: Vi saranno uomini innamorati di se stessi, amanti del denaro. ( 2 Tm 3,2 )
Dunque la volontà retta è l'amore buono e la volontà perversa l'amore cattivo.
L'amore che brama avere l'oggetto amato è desiderio, quando lo ha e ne gode è gioia, quando fugge ciò che lo contraria è timore, quando esperimenta il verificarsi di ciò che lo contraria è tristezza.
Pertanto queste inclinazioni sono cattive se l'amore è cattivo, buone se buono.
Possiamo comprovare queste affermazioni dalla sacra Scrittura.
L'Apostolo brama di morire ed essere con Cristo ( Fil 1,23 ) e: La mia anima ha bramato di desiderare i tuoi giudizi, ( Sal 119,20 ) ovvero con maggiore corrispondenza: La mia anima ha desiderato di bramare i tuoi giudizi; il desiderio di saggezza guida al regno. ( Sap 6,21 )
Tuttavia l'usuale modo di parlare ha fatto sì che cupidigia e concupiscenza senza l'aggiunta dell'oggetto siano intese soltanto in senso cattivo.
La gioia è nel bene in questi passi: Gioite nel Signore ed esultate, o giusti; ( Sal 32,11 )
Hai posto gioia nel mio cuore; ( Sal 4,7 )
Mi riempirai di gioia col tuo volto. ( Sal 16,11 )
In Paolo il timore è nel bene nei seguenti passi: Nel timore e nel tremore attendete alla vostra salvezza; ( Fil 2,12 )
Non fare il saccente ma temi! ( Rm 11,20 )
Temo che come il serpente con la sua astuzia ha sedotto Eva, così la vostra coscienza defletta dalla castità che è nel Cristo. ( 2 Cor 11,3 )
C'è poi la tristezza, che Cicerone preferisce chiamare malessere6 e Virgilio dolore in queste parole: Si dolgono e gioiscono.7
Io ho preferito chiamarla tristezza perché il più delle volte si parla di malessere e di dolore in riferimento al corpo.
La riguarda un più attento esame se si può trovare nel bene.
Gli stoici hanno insegnato che nel saggio sono tre gli stati d'animo, denominati in greco εύπάθειαι8 e da Cicerone constantiae ( stati di serenità )9 in luogo delle tre inclinazioni, cioè in luogo del desiderio il volere, della gioia il godimento, del timore la cautela.
Hanno affermato poi che non esiste nell'animo del saggio una inclinazione in luogo del malessere o dolore, che io, per evitare un doppio senso, ho preferito denominare tristezza.
La volontà, dicono essi, desidera il bene e lo fa il saggio, il godimento è di un bene conseguito e il saggio lo consegue in ogni occasione, la cautela evita il male e il saggio deve evitarlo.
Ma poiché la tristezza riguarda un male già avvenuto ed essi pensano che al saggio non può accadere alcun male, hanno insegnato che in lui non può esservi uno stato d'animo che la sostituisca.
Si esprimono dunque in modo da affermare che soltanto il saggio vuole, gode, è cauto e che l'insipiente non fa altro che desiderare, gioire, temere, affliggersi.
Si aggiunge che in Cicerone quei tre sono stati di serenità e le quattro sono perturbazioni, ma passioni secondo molti altri.
In greco le tre, come ho detto, sono denominate εύπάθειαι e le quattro πάθη.
Esaminando il più diligentemente possibile se questa terminologia corrisponde alla sacra Scrittura, ho trovato il detto del Profeta: Non v'è il godere per gli empi, dice il Signore. ( Is 57, 21 )
Sembra appunto che gli empi possano più gioire del male che goderne, perché il godimento è propriamente delle anime buone e devote.
Così la frase del Vangelo: Quanto volete che gli uomini facciano a voi fatelo voi a loro ( Mt 7,12 ) sembra detta come se non si può volere nella malvagità e disonestà, ma soltanto desiderare.
In seguito alcuni esegeti per la consuetudine del dire hanno aggiunto i beni e hanno letto: Quanto di bene volete che gli uomini facciano a voi.
Hanno pensato appunto che non s'intenda ottenere dagli uomini qualcosa di disonesto come, per tacere delle cose più oscene, banchetti licenziosi con cui ci s'illuda, se si ricambia a loro, di aver soddisfatto a questo precetto.
Ma nel Vangelo greco, tradotto in latino, non è aggiunto: i beni, ma: Quanto volete che gli uomini facciano a voi, fatelo a loro.
Credo perciò che l'Evangelista nel dire: volete, ha inteso: i beni.
Non ha detto: "desiderate".
Non sempre il nostro linguaggio si deve adeguare a questi termini specifici ma talora bisogna usarne, e quando leggiamo scrittori, la cui autorità non è lecito rifiutare, si devono applicare a quei passi in cui l'appropriato significato non può avere altra interpretazione.
È il caso delle frasi che a titolo d'esempio ho desunto dal Profeta e dal Vangelo.
Si sa che gli empi gongolano di gioia.
Tuttavia: Non v'è il godere per gli empi, dice il Signore. ( Is 57, 21 )
Pertanto giacché il godere è uno stato d'animo diverso, come con proprietà e chiarezza si usa questa parola?
Inoltre è innegabile che non giustamente si può comandare agli uomini di fare agli altri quanto desiderano sia fatto a loro, perché non si trastullino l'un l'altro con la disonestà di un piacere illecito.
Tuttavia è comandamento assai salutare e veritiero: Quanto volete che gli uomini facciano a voi, fatelo voi a loro. ( Mt 7,12 )
E questo soltanto perché in questo passo la volontà è stata addotta con un significato che non si può interpretare in senso cattivo.
Con un linguaggio abituale, usato frequentemente soprattutto nel modo di parlare di ogni giorno, non si direbbe: Non voler dire alcuna menzogna, ( Sir 7,14 ) se non si desse anche la volontà cattiva.
Difatti dal fatto che può degenerare si differenzia quella che acclamarono gli angeli con le parole: Pace in terra agli uomini di buona volontà. ( Lc 2,14 )
Sarebbe superflua l'aggiunta: di buona se non può esser che buona.
Niente di speciale avrebbe detto l'Apostolo nelle lodi della carità che non gode dell'ingiustizia, ( 1 Cor 13,6 ) se non perché la cattiveria ne gode.
Anche negli autori profani si nota l'accezione diversa di queste parole.
Dice Cicerone, oratore molto erudito: Desidero, senatori, esser clemente.10
Ha usato tale parola in senso buono.
Eppure non v'è un critico letterario così stravagante il quale possa sostenere che avrebbe dovuto dire: "voglio", non: desidero.
Al contrario, in Terenzio, un giovane libertino, invasato da un desiderio insensato, dice: Non voglio se non Filomena.
La risposta ivi allegata del suo schiavo più sensato indica abbastanza chiaramente che quella volontà era un capriccio.
Disse al padrone: Quanto sarebbe meglio che tu t'impegni ad allontanare questo amore dal tuo animo che dire parole con cui questo capriccio si accresca inutilmente.11
Il verso citato di Virgilio in cui con la massima concisione ha enumerato le quattro inclinazioni, afferma che gli scrittori hanno inteso il godimento anche in senso cattivo.
Dice: Da ciò temono e desiderano, si dolgono e godono.12
Ed anche il medesimo poeta: I cattivi godimenti dell'animo.13
Quindi vogliono, sono cauti, godono buoni e cattivi; e, per esprimere i medesimi concetti con altre parole, desiderano, temono e gioiscono buoni e cattivi, ma gli uni onestamente, gli altri disonestamente secondo che la volontà negli individui è retta o perversa.
Anche la tristezza, sebbene gli stoici hanno ritenuto che non v'è nulla a sostituirla nell'animo del saggio, è addotta in senso buono soprattutto nei nostri scrittori.
L'Apostolo loda i Corinti perché si sono rattristati secondo Dio.
Qualcuno potrebbe obiettare che l'Apostolo si congratulò perché si erano rattristati col pentimento e questa tristezza è possibile soltanto in coloro che hanno peccato.
Dice infatti: Vedo che quella lettera, anche se per breve tempo, vi ha rattristati; ora ne godo, non per la vostra tristezza ma perché questa tristezza vi ha indotto al pentimento.
Infatti vi siete rattristati secondo Dio e così non avete ricevuto alcun danno da parte nostra.
La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte.
Ecco infatti quanta sollecitudine ha prodotto in voi proprio questo rattristarvi secondo Dio. ( 2 Cor 7,8-11 )
Perciò gli stoici possono rispondere da parte loro che la tristezza sembra utile per pentirsi di aver peccato e che è irreperibile nell'animo del saggio perché in lui non avviene il peccato, di cui rattristarsi col pentimento, né altro male, da cui sia reso triste mentre lo sopporta e lo subisce.
Dicono che Alcibiade, se non prendo abbaglio sul nome, pianse perché, mentre si riteneva felice, Socrate lo contraddisse e gli dimostrò quanto fosse infelice perché era un insipiente.14
A lui dunque l'insipienza fu occasione di un'utile e auspicabile tristezza perché con essa l'uomo si duole di essere ciò che non deve.
Ma gli stoici affermano che non può essere triste il saggio, ma solo l'insipiente.
Già nel libro nono della presente opera15 ho risposto a questi filosofi, per quanto attiene al problema delle inclinazioni dell'animo, dimostrando che, non tanto riguardo ai concetti quanto alle parole, sono più desiderosi di polemica che di verità.
Da noi al contrario secondo la sacra Scrittura e la sana dottrina i cittadini della santa città di Dio, che vivono secondo lui nel pellegrinaggio di questa vita, temono e desiderano, si dolgono e godono, e poiché il loro amore è retto, hanno retti tutti questi sentimenti.
Temono la pena eterna, desiderano la vita eterna, si dolgono della loro condizione perché gemono in se stessi aspettando l'adozione e il riscatto del proprio corpo, ( Rm 8,23 ) godono nella speranza perché si avvererà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita per la vittoria. ( 1 Cor 15,54 )
Egualmente temono di peccare, desiderano di perseverare, si dolgono nei peccati, godono nelle opere buone.
Affinché temano di peccare ascoltano: Poiché dilagherà l'ingiustizia, perderà vigore la carità di molti. ( Mt 24,12 )
Affinché desiderino di perseverare ascoltano: Chi avrà perseverato sino alla fine, costui sarà salvo. ( Mt 10,22 )
Per dolersi dei peccati ascoltano: Se diciamo che non abbiamo il peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. ( 1 Gv 1,8 )
Per godere nelle opere buone ascoltano: Dio ama chi dona con gioia. ( 2 Cor 9,7 )
Egualmente secondo come si rapporteranno la loro volubilità e fermezza, temono e desiderano esser tentati, si dolgono e godono nelle tentazioni.
Affinché temano di esser tentati ascoltano: Se qualcuno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che avete lo Spirito, correggetelo con dolcezza, ma tu veglia su te stesso per non cadere anche tu in tentazione. ( Gal 6,1 )
Affinché desiderino di esser tentati ascoltano un uomo forte della città di Dio che dice: Giudicami, o Signore, e mettimi alla prova, raffina al fuoco i miei sensi e il mio cuore. ( Sal 26,2 )
Per dolersi nelle tentazioni si ricordano di Pietro che piange. ( Mt 26,75 )
Per godere nelle tentazioni ascoltano Giacomo che dice: Considerate perfetta letizia, o miei fratelli, quando incorrete in ogni sorta di prova. ( Gc 1,2 )
I cristiani sono stimolati da questi sentimenti non solo a favore di se stessi, ma anche di coloro di cui desiderano la liberazione e temono la perdizione, si dolgono se si perdono e godono se ottengono la salvezza.
A proposito ricordiamo l'uomo più buono e più forte che si vanta delle proprie debolezze, ( 2 Cor 12,9 ) noi soprattutto che veniamo alla Chiesa di Cristo dai popoli pagani, perché egli fu il Dottore dei popoli pagani nella fede e nella verità.
Egli si adoperò più di tutti i suoi colleghi nell'apostolato ( 1 Cor 15,10 ) ed educò con molte lettere i popoli di Dio, non soltanto quelli da lui conosciuti nel presente, ma anche quelli che si prevedevano in futuro.
I cristiani, dico, mediante gli occhi della fede ammirano con grande gioia quell'uomo, campione del Cristo che lo addestrò e plasmò alla lotta, ( Gal 1,12 ) con lui crocifisso, ( Gal 2,19 ) in lui glorioso, che competeva secondo le regole in una grande gara nel teatro di questo mondo, in cui divenne oggetto di ammirazione agli angeli e agli uomini ( 1 Cor 4,9 ) e che conseguì la palma della vocazione al cielo negli eventi che la precedono. ( Fil 3,14; 2 Tm 4,7-8 )
Osservano appunto, con gli occhi della fede, che egli godeva con chi gode, piangeva con chi piange, ( Rm 12,15 ) che all'esterno aveva lotte, all'interno timori, ( 2 Cor 7,5 ) che bramava morire ed essere con Cristo, ( Fil 1,23 ) che desiderava di vedere i Romani per conseguire i frutti di bene con loro come con gli altri popoli, ( Rm 1,11-13 ) che era geloso dei Corinti ma a causa di questa gelosia temeva che i loro propositi fossero sviati dalla purezza la quale è nel Cristo, ( 2 Cor 11,2-3 ) che aveva una grande tristezza e un continuo intimo dolore a causa degli Ebrei, ( Rm 9,2 ) perché essi, ignorando la giustizia di Dio e volendo sopravvalutare la propria, non erano sottomessi alla giustizia di Dio, ( Rm 10,3 ) che dichiarava non solo il dolore ma anche il proprio pianto per alcuni i quali avevano peccato e non avevano fatto penitenza della loro impurità e fornicazione. ( 2 Cor 12,21 )
Se queste emozioni e sentimenti provenienti dall'amore al bene e dalla santa carità sono da considerare vizi, permetteremmo che siano considerate virtù quelli che sono veramente vizi.
Ma se questi impulsi seguono la retta ragione in modo che se ne usi quando conviene, non si può presumere di considerarli anormalità ossia passioni viziose.
Per questo anche il Signore, che si è degnato di condurre la vita umana nella condizione di schiavo ( Fil 2,7 ) ma senza alcun peccato, si valse di questi sentimenti quando lo ritenne opportuno.
In lui, nel quale erano veri il corpo e l'anima umana, non era falso l'umano sentimento.
Dunque non sono falsi gli episodi riferiti nel Vangelo, e cioè che si rattristò con risentimento per la insensibilità del cuore dei Giudei, ( Mc 3,5 ) che disse: Godo per voi affinché crediate, ( Gv 11,15 ) perfino che prima di risuscitare Lazzaro pianse, ( Gv 11,35 ) che desiderò mangiare la pasqua con i suoi discepoli, ( Lc 22,15 ) che all'approssimarsi della Passione la sua anima fu triste. ( Mt 26,38 )
Egli, quando volle, in virtù di una precisa intenzione accolse nel suo animo di uomo queste emozioni come, quando volle, divenne uomo.
Quindi, anche quando sperimentiamo nell'onestà e secondo Dio questi sentimenti, bisogna ammettere che sono di questa vita, non di quella futura che speriamo e che ad essi spesso contro voglia cediamo.
Talora piangiamo, anche senza volerlo, quantunque siamo mossi non da desiderio colpevole ma da lodevole carità.
Li sperimentiamo dunque per la debolezza della condizione umana.
Non così Gesù, nel quale anche la debolezza derivò dalla sua forza.
Ma fintantoché abbiamo indosso la debolezza di questa vita, se non avessimo affatto queste emozioni, allora piuttosto non vivremmo secondo onestà.
L'Apostolo rimproverava e biasimava alcuni anche perché, diceva, erano senza sentimento. ( Rm 1,31 )
Anche il Salmo li ha ripresi perché di essi dice: Ho atteso chi mi compatisse, e non vi fu. ( Sal 69,21 )
Infatti non provare alcun dolore, mentre siamo in questa condizione d'infelicità, certamente, come ha ritenuto e detto anche uno degli scrittori della cultura profana, non avviene senza un gran contributo di brutalità nell'animo e d'insensibilità nel corpo.16
V'è quello stato che in greco si denomina άπάθεια e che si potrebbe tradurre impassibilità.
Poiché riguarda l'anima e non il corpo, se si deve intendere nel senso che si vive senza queste emozioni, le quali condizionano la ragione e turbano la coscienza, è onesta e sommamente desiderabile, ma anche essa non è di questa vita.
Non di individui qualunque ma veramente devoti e molto avanzati nella santità sono le parole: Se dicessimo di non avere il peccato, inganniamo noi stessi e in noi non è la verità. ( 1 Gv 1,8 )
Allora si avrà l'άπάθεια quando nell'uomo non si avrà alcun peccato.
In questo mondo si vive abbastanza onestamente se si vive senza delitto; chi invece ritiene di vivere senza peccato, non si comporta in maniera da non avere il peccato ma di non ottenerne il perdono.
Inoltre se l'άπάθεια si deve denominare lo stato in cui nessun sentimento può sfiorare l'animo, ciascuno ritiene che tale insensibilità è peggiore di tutti i vizi.
Essa può quindi non irragionevolmente esser considerata felicità definitiva se avverrà senza l'assillo del timore e senza alcuna tristezza, ma soltanto chi è alieno dalla verità potrà dire che in quello stato non vi saranno l'amore e il godimento.
Se poi è lo άπάθεια stato in cui non atterrisce il timore né affanna il dolore, si deve rifiutare in questa vita, se in questa vita vogliamo vivere onestamente, cioè secondo Dio, ma si deve sperare per la vita felice che ci è promessa nell'eternità.
C'è un timore di cui l'apostolo Giovanni dice: Nella carità non c'è il timore, al contrario la perfetta carità elimina il timore, perché il timore suppone il castigo e chi teme non è perfetto nella carità. ( 1 Gv 4,18 )
Questo timore non è del genere di quello col quale l'apostolo Paolo temeva che i Corinti fossero ammaliati dall'astuzia del serpente. ( 2 Cor 11,3 )
La carità infatti si vale di questo timore, anzi se ne vale soltanto la carità.
Il timore che non è nella carità è di quel genere di cui Paolo stesso dice: Non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nel timore. ( Rm 8,15 )
Ma il timore casto, che perdura al di là dei secoli dei secoli, ( Sal 18,10 ) se rimarrà anche nell'eternità, giacché è l'unico senso per intendere che rimane al di là della successione dei tempi, non è timore che distolga da un male eventuale ma timore il quale conferma nel bene che non si può perdere. Infatti nello stato in cui l'amore per il bene conseguito è immutabile, certamente è tranquillo, se si può dire, il timore di evitare il male.
Col termine di timore casto è stata indicata la volontà con cui sarà ineluttabile il non voler peccare e si evita il peccato nella serenità della carità e non nella preoccupazione affannosa di non peccare.
Ovvero se nella sicurezza sommamente infallibile di godimenti in una perenne felicità non potrà esservi timore di alcun genere, il passo: Il timore del Signore è casto perché rimane per tutti i secoli ( Sal 18,10 ) si confronti con quest'altro: La pazienza dei miseri non andrà perduta in eterno. ( Sal 9,19 )
Ma non sarà eterna la pazienza stessa, perché non è necessaria se non dove si devono sopportare sofferenze, ma è eterna la condizione a cui si giunge con la pazienza.
Così forse è stato detto che il timore casto rimane al di là della successione dei tempi, perché rimarrà lo stato a cui il timore stesso conduce.
Stando così le cose, poiché si deve condurre una vita onesta con cui giungere alla felicità, la vita onesta mantiene onesti tutti questi sentimenti, quella malvagia malvagi.
La vita felice, che è anche eterna, avrà amore e godimento non solo onesti ma anche immancabili, ma nessun timore e dolore.
Quindi si palesa in qualche modo di quali attributi debbano essere in questo esilio i cittadini della città di Dio che vivono secondo lo spirito, non secondo la carne, cioè secondo Dio e non secondo l'uomo e di quali attributi saranno nella immortalità a cui tendono.
D'altra parte la città, ossia società degli empi che non vivono secondo Dio ma secondo l'uomo e che nell'adorazione stessa della falsa divinità e nel disprezzo di quella vera seguono la dottrina di uomini e demoni, viene turbata da questi perversi sentimenti quasi fossero passioni e turbamenti.
E se ha cittadini che all'apparenza danno una regola a tali sentimenti e quasi li riducono alla giusta misura, sono talmente boriosi e tronfi nell'empietà che in loro vi sono gonfiori più gravi anche se sofferenze più lievi.
E se alcuni con frivolezza tanto più disumana quanto più rara amano in se stessi questo contegno da non lasciarsi né esaltare e stimolare né deprimere e piegare da alcun sentimento, perdono piuttosto l'umana dignità anziché raggiungere la vera tranquillità.
Una cosa non è retta perché rigida, né sana perché insensibile.
Indice |
1 | Vedi sopra 12,22-28 |
2 | Virgilio, Aen. 6, 730-734 |
3 | Vedi sopra 14,1 |
4 | Cicerone, Tuscul. 4, 4, 10 |
5 | Virgilio, Aen. 6, 719-721 |
6 | Cicerone, De fin. 3, 10, 35 |
7 | Virgilio, Aen. 6, 733 |
8 | Diogene Laerzio, 7, 115 |
9 | Cicerone, Tuscul. 4, 6, 11-14 |
10 | Cicerone, In Catil. 1, 2, 4 |
11 | Terenzio, Andria 2, 1, 306-309 |
12 | Virgilio, Aen. 6, 733 |
13 | Virgilio, Aen. 6, 278.279 |
14 | Platone, Alcib. 118bd; Conv. 213c-e; Cicerone, Tuscul. 3, 32, 77 |
15 | Vedi sopra 9,4-5 |
16 | Cicerone, Tuscul. 3, 6, 12 |