Supplemento alla III parte |
Pare che sia lecito confessare un peccato non commesso.
1. Come dice S. Gregorio [ Registr. 11,4,64 ], « è proprio delle anime buone riconoscere una colpa dove non c'è colpa ».
Quindi appartiene alle anime buone accusarsi di colpe non commesse.
2. C'è qualcuno che per umiltà si considera peggiore di chi è un pubblico peccatore, e in ciò è da lodarsi.
Ora, è lecito confessare con la bocca ciò che si pensa con il cuore.
Quindi è lecito confessare di avere un peccato più grave di quello effettivamente commesso.
3. Talora uno dubita se un peccato sia mortale o veniale.
Ora costui, come pare, è tenuto a confessarlo come mortale.
Perciò talora si è tenuti a confessare dei peccati che non si hanno.
4. La soddisfazione è proporzionata alla confessione.
Ma uno può soddisfare anche per dei peccati non commessi.
Quindi può anche confessare tali peccati.
1. Chi dice di avere fatto ciò che non ha fatto, mente.
Ora, nessuno deve mentire in confessione: poiché ogni menzogna è peccato.
Quindi nessuno deve confessare dei peccati che non ha commesso.
2. Nei tribunali pubblici non si deve mai addebitare a qualcuno un crimine che non possa venire provato con validi testimoni.
Ora, nel tribunale della penitenza il testimone è la coscienza.
Perciò uno non deve accusarsi di un peccato che la coscienza non gli rimprovera.
Mediante la confessione il penitente deve manifestare se stesso al confessore.
Ma chi dice di se stesso al confessore una cosa diversa da quella che ha nella coscienza, sia in bene che in male, non si manifesta, ma si nasconde al confessore.
Perciò tale confessione non è corretta, ma perché sia tale si richiede che la bocca si accordi con il cuore, in modo che la bocca accusi solo ciò che la coscienza rimprovera.
1. In due modi può capitare di riconoscere una colpa dove non c'è colpa.
Primo, se ci si riferisce alla sostanza dell'atto.
E allora non è vero che ciò appartiene alle anime buone.
Poiché non è delle anime buone o rette, ma di quelle che sbagliano riconoscere di avere commesso un atto che non hanno commesso.
- Secondo, quanto alla condizione dell'atto.
E allora è vero ciò che dice S. Gregorio, che cioè il giusto in un atto che di per sé pare buono teme che ci sia un difetto da parte sua; ed è in questo senso che Giobbe [ Gb 9,28 Vg ] diceva: « Io temevo per tutte le mie azioni ».
Spetta quindi alle anime buone accusare anche con la lingua questo timore che nutrono internamente.
2. Abbiamo risposto così anche alla seconda obiezioni.
Poiché il giusto che è veramente umile non si reputa peggiore attribuendosi il compimento di atti oggettivamente peggiori di quelli compiuti, ma nelle opere buone che compie teme di peccare maggiormente per superbia.
3. Quando uno dubita che un peccato sia mortale è tenuto a confessarlo, finché è nel dubbio.
Poiché come chi commette od omette una cosa dubitando che si tratti di peccato mortale pecca mortalmente esponendosi al pericolo, così si espone al pericolo chi trascura di confessarsi di quanto dubita che sia mortale.
Tuttavia egli non deve asserire che il suo peccato è mortale, ma deve parlare in forma dubitativa, lasciando il giudizio al sacerdote a cui spetta distinguere « tra lebbra e lebbra » [ Dt 17,8ss ].
4. Per il fatto che uno espia un peccato non commesso non dice una menzogna, come fa invece chi confessa un peccato che non crede di aver commesso.
Se però uno denunzia un peccato che non ha fatto credendo di averlo fatto, allora non mente.
Perciò egli non pecca se lo confessa come lo sente nel cuore.
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