Supplemento alla III parte |
Pare che l'intelletto umano non possa giungere a vedere Dio per essenza.
1. Nel Vangelo [ Gv 1,18 ] si legge: « Dio nessuno l'ha mai visto ».
E il Crisostomo spiega che neppure gli spiriti celesti, cioè neppure i Cherubini e i Serafini, hanno mai potuto vederlo così come egli è.
Ora, agli uomini non è promessa se non l'uguaglianza con gli angeli [ Mt 22,30 ]: « Saranno come gli angeli di Dio nel cielo ».
Quindi neppure i santi in paradiso vedranno Dio per essenza.
2. Dionigi così argomenta nel De Divinis Nominibus [ 1 ]: la conoscenza non ha altro oggetto che le realtà esistenti.
Ma ogni esistente è finito: essendo in qualche genere determinato.
Perciò Dio, essendo infinito, è « al di sopra di tutte le realtà esistenti ».
Quindi non è oggetto di conoscenza, ma supera ogni conoscenza.
3. Nel De Mystica Theologia [ 1 ] Dionigi dimostra che il modo più perfetto in cui la nostra intelligenza può unirsi a Dio sta nell'unirsi a lui come a uno sconosciuto.
Ora, ciò che è visto per essenza non è sconosciuto.
Quindi è impossibile che il nostro intelletto possa vedere Dio per essenza.
4. Scrivendo al monaco Caio [ Epist. 1 ], Dionigi afferma che « le tenebre che coprono Dio », da lui denominate « sovrabbondanza di luce », « oscurano ogni lume e si nascondono a ogni conoscenza; e se uno vedendo Dio intende ciò che vede, non vede lui, ma qualcuno dei suoi effetti ».
Perciò nessun intelletto creato potrà vedere Dio per essenza.
5. A Ieroteo [ Epist. 5 ] inoltre egli scrive: « Dio rimane invisibile per l'eccesso del suo splendore ».
Ma come il suo splendore sorpassa l'intelligenza dell'uomo viatore, così sorpassa anche quella dell'uomo che ha raggiunto la patria.
Come quindi Dio è invisibile sulla terra, così sarà invisibile anche nella patria beata.
6. L'oggetto intelligibile, essendo la perfezione dell'intelletto, esige una proporzione tra l'intelligibile e l'intelletto, e tra l'oggetto visibile e la vista.
Ora, non si scorge alcuna possibile proporzione fra il nostro intelletto e l'essenza divina: poiché distano all'infinito.
Perciò il nostro intelletto non può giungere a vedere l'essenza divina.
7. È più lontano Dio dal nostro intelletto che un oggetto intelligibile creato dal senso.
Ma il senso in nessun modo può giungere a vedere una creatura spirituale.
Quindi neppure il nostro intelletto potrà giungere a vedere l'essenza di Dio.
8. Ogni qual volta l'intelletto intende attualmente un oggetto esige di assumere come forma l'immagine della cosa conosciuta, immagine che diviene come il principio di quell'atto intellettivo determinato rispetto a quell'oggetto, come il calore è il principio del riscaldamento.
Perciò il nostro intelletto, per intendere Dio, dovrebbe essere attuato da un'immagine che informi l'intelletto stesso.
Ora, questa non può essere la stessa essenza divina, poiché tra la forma e il soggetto informato c'è unità di essere, e la divina essenza differisce dal nostro intelletto sia nell'essenza che nell'essere.
Quindi è necessario che la forma informante il nostro intelletto nell'intendere Dio sia un'immagine, o somiglianza, che Dio imprime nella nostra intelligenza.
Ma questa somiglianza, essendo qualcosa di creato, non può condurre a conoscere Dio se non come un effetto la sua causa.
Quindi è impossibile che il nostro intelletto veda Dio se non mediante i suoi effetti.
Ma la visione di Dio mediante i suoi effetti non è la visione di Dio per essenza.
Quindi il nostro intelletto non potrà vedere Dio per essenza.
9. L'essenza divina è distante dal nostro intendimento più di qualsiasi angelo o intelligenza [ creata ].
Eppure, come dice Avicenna [ Met. 3,8 ], la presenza di un'intelligenza angelica nel nostro intelletto non implica che la sua essenza sia nell'intelletto ( perché allora la nostra conoscenza di tali intelligenze sarebbe una sostanza e non un accidente ), ma implica che vi sia una specie, o immagine, dell'intelligenza suddetta.
Quindi neppure Dio è nel nostro intelletto, per essere da noi conosciuto, se non attraverso una sua immagine.
Ma tale immagine non può portare l'intelletto a conoscere l'essenza divina: poiché distandone infinitamente degenera in un'altra specie, molto più che se la specie del bianco degenerasse nella specie del nero.
Perciò, come colui nella cui vista la specie del bianco si cambia nella specie del nero per l'indisposizione dell'organo non vede il bianco, così il nostro intelletto che conosce Dio solo mediante tale immagine impressa non potrà vedere Dio per essenza.
10. « Negli esseri separati dalla materia c'è identità tra chi intende e l'oggetto conosciuto », come spiega Aristotele [ De anima 3,4 ].
Ora, Dio è la realtà più lontana dalla materia.
Non potendo quindi l'intelletto creato giungere a essere l'essenza increata, è impossibile che il nostro intelletto veda Dio per essenza.
11. Di tutto ciò che si vede per essenza si conosce la quiddità.
Ora, di Dio il nostro intelletto non è in grado di vedere « ciò che è », ma solo « ciò che non è », come affermano Dionigi [ De cael. hier. 2,3 ] e il Damasceno [ De fide orth. 1,4 ].
Quindi il nostro intelletto non può vedere Dio per essenza.
12. « Ogni infinito in quanto infinito è sconosciuto » [ Phys. 1,4 ].
Ora, Dio è infinito in tutti i modi.
Perciò è del tutto sconosciuto.
Quindi non può essere conosciuto per essenza da un intelletto creato.
13. S. Agostino [ Epist. 147, cc. 7,8,15 ] afferma: « Dio è per sua natura invisibile ».
Ma le cose che competono a Dio per natura non possono essere diversamente.
Quindi è impossibile che egli possa essere visto per essenza.
14. Tutto ciò che appare diverso da ciò che è, non è visto così come è.
Ora, in Dio il modo in cui egli è non è il modo in cui è visto dai santi nella patria beata: infatti egli è secondo il suo modo di essere, mentre è visto dai santi secondo il loro modo di conoscere.
Perciò egli non è visto dai santi secondo il suo modo di essere.
Quindi non è visto per essenza.
15. Ciò che è visto attraverso un mezzo non è visto per essenza.
Ma nella patria Dio sarà visto attraverso un mezzo, che è la luce della gloria, come risulta dalle parole del Salmo [ Sal 36,10 ]: « Nella tua luce vedremo la luce ».
Quindi egli non sarà visto per essenza.
16. Nella patria beata Dio sarà visto « a faccia a faccia », come dice S. Paolo [ 1 Cor 13,12 ].
Ora, l'uomo che vediamo a faccia a faccia lo vediamo mediante una sua immagine rappresentativa.
Perciò in patria vedremo Dio mediante un'immagine.
Quindi non per essenza.
1. S. Paolo [ 1 Cor 13,12 ] afferma: « Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo a faccia a faccia ».
Ma ciò che vediamo faccia a faccia lo vediamo per essenza.
Quindi nella patria Dio sarà visto dai santi per essenza.
2. Sta scritto [ 1 Gv 3,2 ]: « Quando egli si sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è ».
Quindi vedremo Dio per essenza.
3. A proposito di quel testo di S. Paolo [ 1 Cor 15,24 ]: « Quando avrà consegnato il regno a Dio Padre », la Glossa [ ord. ] spiega: « Là », ossia nella patria, « sarà vista l'essenza del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo: il che sarà concesso solo ai puri di cuore, ed è la beatitudine suprema ».
Perciò i beati vedranno Dio per essenza.
4. Nel Vangelo [ Gv 14,21 ] si legge: « Se uno mi ama, sarà amato dal Padre mio, e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui ».
Ora, ciò che viene manifestato è visto per essenza.
Quindi Dio nella patria sarà visto dai santi per essenza.
5. Nel commentare le parole dell'Esodo [ Es 33,20 ]: « Nessun uomo può vedermi e restare vivo », S. Gregorio [ Mor. 18,54 ] respinge l'opinione di quanti affermavano che « nella regione della beatitudine sarà possibile vedere Dio nella sua chiarezza, ma non nella sua natura », poiché « la sua chiarezza non è altro che la sua natura ».
Ma la natura di Dio è la sua essenza.
Quindi egli sarà visto per essenza.
6. È assolutamente impossibile che venga frustrato il desiderio dei santi.
Ma è comune desiderio dei santi il vedere Dio per essenza; infatti nell'Esodo [ Es 33,18 ] si legge: « Mostrami la tua gloria »; e nei Salmi [ Sal 80,20 ]: « Mostraci il tuo volto e saremo salvi »; e nel Vangelo [ Gv 14,8 ]: « Mostraci il Padre e ci basta ».
Quindi i santi vedranno Dio per essenza.
Come noi, in conformità con la fede, affermiamo che l'ultimo fine della vita umana è la visione di Dio, così i filosofi hanno affermato che l'ultima felicità dell'uomo è intendere le sostanze separate nel loro essere dalla materia.
Perciò nel presente argomento si riscontrano le stesse obiezioni e varietà di opinioni sia presso i filosofi che presso i teologi.
Ora, alcuni filosofi pensarono che il nostro intelletto possibile non possa mai giungere a intendere le sostanze separate: tale è ad es. l'affermazione di Alfarabi al termine della sua Etica; sebbene altrove [ De intellectu ] dica il contrario, come riferisce Averroè [ De anima 3, comm. 36 ].
Parimenti alcuni teologi ritennero che l'intelletto umano non possa mai giungere a vedere Dio per essenza.
E gli uni e gli altri furono spinti a questa conclusione a motivo della distanza esistente fra il nostro intelletto e l'essenza divina, o le altre sostanze separate.
Essendo infatti « l'intelletto in atto » in qualche modo un'unica cosa con « l'intelligibile in atto » [ De anima 3,8 ], sembra difficile che un intelletto creato diventi in qualche modo l'essenza increata.
Da cui le parole del Crisostomo [ In Ioh. hom. 15 ]: « In che modo un essere creato vedrà l'increato? ».
- E la obiezione è anche maggiore per coloro che ritengono l'intelletto possibile soggetto alla generazione e alla corruzione, in quanto facoltà dipendente dal corpo; e ciò non solo rispetto alla visione dell'essenza divina, ma anche rispetto alla visione di qualsiasi sostanza separata.
Quest'ultima opinione però è del tutto insostenibile.
Primo, perché è incompatibile con i testi della Sacra Scrittura, come notava già S. Agostino [ Epist. 147,5 ].
- Secondo, perché essendo l'intellezione l'operazione più propria e specifica dell'uomo, è necessario che in base ad essa ne venga determinata la beatitudine, quando cioè l'intellezione raggiunge in lui la perfezione.
Ora, dal momento che la perfezione di chi intende è in quanto tale l'oggetto stesso intelligibile, se nella sua operazione intellettiva più perfetta l'uomo non giungesse a vedere l'essenza divina, ma un altro oggetto, bisognerebbe dire che a rendere beato l'uomo è tale oggetto, e non Dio.
E poiché l'ultima perfezione di ogni essere consiste nel ricongiungersi al proprio principio, bisognerà dire che il principio efficiente dell'uomo non è Dio, ma un altro essere.
Cosa questa assurda per noi.
E assurda anche per quei filosofi che affermano che le nostre anime emanano dalle sostanze separate in modo che possiamo alla fine averne l'intellezione.
Perciò secondo noi [ credenti ] è necessario ammettere che il nostro intelletto giungerà alla fine a vedere l'essenza divina; e secondo i filosofi che giungerà a vedere l'essenza delle sostanze separate.
Rimane ora da indagare come ciò possa avvenire.
Alcuni infatti, come Alfarabi e Avempace, affermano che dal momento che il nostro intelletto intende tutto ciò che è intelligibile, deve giungere a vedere l'essenza delle sostanze separate.
E per dimostrarlo usano due argomentazioni.
La prima parte dal fatto che come la natura specifica non viene suddivisa nei diversi individui se non in quanto viene a congiungersi con i principi individuanti, così la forma percepita intellettualmente dall'uomo non è diversa in me e in te se non in quanto è legata alle diverse forme immaginative [ di ciascuno ].
Perciò quando l'intelletto astrae la forma intelligibile dalle forme immaginative non rimane che la quiddità intellettiva astratta, che è una e identica per tutti i soggetti dotati d'intelligenza.
E tale è la quiddità delle sostanze separate.
Quando perciò il nostro intelletto raggiunge la massima astrazione di una qualsiasi quiddità intelligibile, viene a intendere per ciò stesso la quiddità della sostanza separata che è simile ad essa.
- La seconda argomentazione sottolinea invece il fatto che il nostro intelletto è fatto per astrarre la quiddità da tutti gli esseri intelligibili che la possiedono.
Se dunque la quiddità che esso astrae da questo singolare che possiede una quiddità è già una quiddità che non possiede una quiddità, nell'intenderla non si fa che percepire la quiddità di una sostanza separata dotata di tale disposizione: poiché le sostanze separate sono quiddità sussistenti prive di quiddità.
Infatti, come dice Avicenna [ Met. 5,5 ], « la quiddità di ciò che è semplice è il semplice stesso ».
Se invece la quiddità astratta da questo particolare essere sensibile è una quiddità dotata [ ancora ] di quiddità, allora l'intelletto è fatto per astrarre tale quiddità.
Così dunque, dato che non si può procedere all'infinito, si dovrà giungere a una quiddità priva di quiddità, cioè a una quiddità separata.
Ma queste spiegazioni non sembrano sufficienti.
Primo, perché la quiddità delle sostanze materiali che l'intelletto astrae non ha la stessa natura delle quiddità delle sostanze separate.
E così per il fatto che il nostro intelletto astrae le quiddità delle realtà materiali e le conosce non ne segue che esso conosca la quiddità della sostanza separata, e soprattutto dell'essenza divina, che ha una natura del tutto diversa da qualsiasi quiddità creata.
- Secondo, perché dato anche che fosse della stessa natura, tuttavia conoscendo la quiddità di una realtà composta non si verrebbe a conoscere la quiddità della sostanza separata se non secondo il genere remotissimo, che è la sostanza.
Ora, tale conoscenza è imperfetta, se non si giunge ai dati propri della cosa: chi infatti conosce l'uomo solo in quanto animale lo conosce solo in modo parziale e potenziale, e molto meno lo conoscerebbe se conoscesse solo la sua natura di sostanza.
Perciò conoscere Dio o le altre sostanze separate in tal modo non significa vedere l'essenza divina, o la quiddità delle sostanze separate, ma significa conoscerle attraverso gli effetti, e « come in uno specchio ».
Per questo Avicenna [ Met. 3,8 ] pone un'altra via per l'intellezione delle sostanze separate: queste cioè sarebbero conosciute intellettualmente da noi mediante intenzioni o idee che rispecchiano le loro quiddità, e che sono immagini rappresentative non astratte da esse, poiché si tratta di realtà in se stesse immateriali, ma impresse dalle sostanze stesse nelle nostre anime.
Ma anche questa spiegazione non sembra sufficiente per la visione di Dio che noi cerchiamo.
È infatti evidente che « tutto ciò che si riceve è ricevuto alla maniera del ricevente » [ De causis 12 ].
Perciò la somiglianza dell'essenza divina che viene impressa nel nostro intelletto sarà secondo il modo del nostro intelletto.
Ora, tale modo è inadeguato alla ricezione perfetta della somiglianza divina.
D'altra parte questa inadeguatezza può verificarsi secondo tutti i modi di dissomiglianza.
La somiglianza infatti è prima di tutto inadeguata quando la forma viene partecipata secondo l'identica natura della specie, ma non secondo il medesimo grado di perfezione: come la somiglianza nella bianchezza fra un soggetto dotato di poca bianchezza e uno che è molto bianco.
Si ha poi una inadeguatezza ancora maggiore quando non si raggiunge l'identica natura specifica, ma solo quella generica: come la somiglianza tra chi ha il colore del limone e chi ha il colore bianco.
C'è finalmente un grado sommo di inadeguatezza quando l'identità generica è raggiunta solo secondo un'analogia: ossia come c'è somiglianza tra la bianchezza e l'uomo per il fatto che entrambi sono enti.
Ora, è in quest'ultimo modo che è inadeguata qualsiasi somiglianza che si riscontra nella creatura rispetto all'essenza divina.
Perché d'altra parte la vista possa conoscere il bianco è necessario che riceva la somiglianza o immagine del bianco secondo la natura specifica del bianco ( sebbene non secondo l'identico modo di essere, poiché la forma nel senso ha un modo di essere diverso da quello esistente nelle realtà fuori del soggetto ): se infatti si producesse nell'occhio la forma del giallo, non si potrebbe dire che l'occhio vede la bianchezza.
Parimenti, affinché l'intelletto possa intendere una quiddità, bisogna che si produca in esso una somiglianza dell'identica natura specifica: sebbene il modo di essere non sia identico.
Infatti la forma esistente nell'intelletto o nel senso è principio di conoscenza non secondo il medesimo modo di essere, ma secondo la natura o ragione che tale forma ha in comune con la realtà esterna.
È quindi evidente che attraverso nessuna immagine ricevuta in un intelletto creato Dio può essere conosciuto in modo che si veda immediatamente la sua essenza.
Per questo alcuni, pur ammettendo che Dio è visibile in questo modo, hanno affermato che si avrà la visione non dell'essenza divina, ma di un certo fulgore o raggio della medesima.
Quindi neppure questo modo basta per la visione di Dio che stiamo cercando.
Perciò si deve accettare un'altra spiegazione, escogitata anche da alcuni filosofi, quali Alessandro [ di Afrodisia ] e Averroè [ De anima 3, comm. 36 ].
Posto infatti che in qualsiasi cognizione è necessaria una forma mediante la quale l'oggetto viene conosciuto o visto, tale forma, con la quale l'intelletto è in grado di vedere le sostanze separate, non è certamente la quiddità che l'intelletto astrae dalle realtà composte, come diceva la prima opinione; e neppure è un'impronta lasciata nel nostro intelletto dalla sostanza separata, come diceva la seconda, ma è la stessa sostanza separata che viene a unirsi al nostro intelletto come forma, in modo che essa sia insieme l'oggetto e il mezzo col quale si compie l'intellezione.
E checché ne sia delle altre sostanze separate, tuttavia noi dobbiamo accettare tale spiegazione nel caso della visione di Dio per essenza: perché se il nostro intelletto venisse informato da qualsiasi altra forma non potrebbe giungere con essa a percepire l'essenza divina.
Ciò però non va inteso nel senso che l'essenza divina diventi realmente la forma propria del nostro intelletto; oppure nel senso che l'unione di essa col nostro intelletto costituisca un'unica realtà in senso assoluto, come avviene nel mondo fisico per l'unione tra la materia e la forma, ma nel senso che il rapporto fra l'essenza divina e il nostro intelletto è paragonabile a quello tra la forma e la materia.
Poiché ogniqualvolta due cose di cui l'una è più perfetta dell'altra vengono ricevute nel medesimo soggetto, il loro rapporto, cioè la relazione tra la più perfetta e la meno perfetta, è come il rapporto tra la materia e la forma.
La luce e il colore, ad es., vengono ricevuti insieme in un corpo diafano, e la luce sta al colore come la forma sta alla materia.
Analogamente, quando nell'anima vengono ricevute insieme la luce intellettuale e l'essenza stessa di Dio inabitante in essa, sebbene non allo stesso modo, l'essenza divina sta all'intelletto come la forma sta alla materia.
E che ciò basti a che l'intelletto mediante l'essenza divina sia in grado di vedere tale essenza medesima può essere spiegato nel modo seguente.
Come infatti dalla materia e da una forma di ordine fisico, in forza della quale un corpo riceve l'esistenza, risulta una realtà unica nell'essere, così dalla forma con cui l'intelletto conosce e dall'intelletto medesimo risulta una realtà unica nell'intendere.
Ora, nel mondo fisico una realtà per sé sussistente non può essere la forma di una materia, se tale realtà è composta di materia: poiché è impossibile che la materia sia la forma di un qualsiasi essere.
Se invece la realtà per sé sussistente è soltanto forma, allora nulla impedisce che possa diventare la forma di una qualche materia, ed essere l'elemento costitutivo di un composto, come è evidente nel caso dell'anima umana.
Ora, nell'intellezione si deve considerare l'intelletto stesso in potenza come la materia, la specie intelligibile come la forma e l'intelletto in atto come il loro composto.
Se quindi esiste una realtà per sé sussistente che non ha in se stessa nulla all'infuori di quanto in essa è intelligibile, tale realtà potrà essere la forma con cui si ha l'intellezione.
Ora, ogni cosa è intelligibile per quanto è in atto, non per quanto c'è in essa di potenzialità, come spiega Aristotele [ Met. 9,9 ]: e un segno di ciò sta nel fatto che la forma intelligibile va astratta dalla materia e da tutte le proprietà della materia.
Perciò l'essenza divina, essendo puro atto, potrà essere la forma con la quale l'intelletto compie l'intellezione.
E questa sarà appunto la visione beatifica.
Per cui il Maestro afferma nelle Sentenze [ 2,1,6 ] che l'unione tra l'anima e il corpo è « un certo esempio dell'unione beata con cui lo spirito si unirà a Dio ».
1. Quel testo evangelico, come nota S. Agostino [ Epist. 147, cc. 6 ss. ], può essere spiegato in tre modi.
Primo, in modo da escludere la visione corporea, con la quale nessuno ha mai visto né vedrà Dio nella sua essenza.
Secondo, in modo da escludere la visione intellettiva di Dio per essenza da parte di coloro che vivono questa vita mortale.
Terzo, in modo da escludere la visione comprensiva da parte di un intelletto creato.
Ed è così che lo interpreta il Crisostomo.
Egli infatti aggiunge: « Per conoscenza qui » l'Evangelista « intende tutta quella percezione e comprensione certissima che il Padre ha del Figlio ».
E questo è il senso inteso dall'Evangelista, il quale aggiunge: « Il Figlio unigenito che è nel seno del Padre », ecc.; volendo così dimostrare in base alla visione comprensiva ed esauriente che il Figlio è Dio.
2. Come Dio con la sua essenza infinita sorpassa tutte le realtà esistenti che hanno un essere determinato, così con la sua conoscenza sorpassa qualsiasi cognizione.
Per cui tra la conoscenza di Dio e la sua essenza c'è lo stesso rapporto che c'è fra la nostra conoscenza e gli enti creati.
Ma alla conoscenza concorrono due cose: il soggetto conoscente e il mezzo col quale esso conosce.
Ora, la visione con la quale vedremo Dio per essenza, quanto al mezzo conoscitivo, è identica a quella con la quale Dio vede se stesso: poiché come egli vede se stesso mediante la propria essenza, così lo vedremo anche noi.
Quanto però al soggetto conoscitivo c'è la differenza che passa fra l'intelletto divino e il nostro.
Ora, nell'atto conoscitivo ciò che è conosciuto segue la forma mediante la quale esso è conosciuto, poiché è mediante la forma o immagine della pietra che vediamo la pietra; l'efficacia invece di tale atto dipende dalla virtù del soggetto conoscente, come chi ha una vista più acuta vede più distintamente.
Perciò nella visione suddetta noi vedremo ciò che Dio vede, cioè la sua essenza, ma non con la medesima efficacia.
3. In quel testo Dionigi parla della conoscenza che di Dio noi abbiamo nella vita presente mediante una qualche immagine creata, di cui il nostro intelletto si serve per conoscerlo.
Ora, come nota S. Agostino [ Serm. 117 ], Dio sfugge a qualsiasi immagine del nostro intelletto: poiché qualunque sia l'immagine concepita, questa non può raggiungere l'intima natura dell'essenza divina.
Perciò Dio non può essere alla portata del nostro intelletto, ma il modo più perfetto di conoscerlo nello stato presente sta nel conoscere che egli è superiore a tutto ciò che l'intelletto nostro è capace di concepire; cosicché ci uniamo a lui come a uno sconosciuto.
Ma nella patria beata vedremo Dio mediante la forma che è la sua stessa essenza, e ci uniremo a lui come a uno che è conosciuto.
4. « Dio è luce », come si legge nella Scrittura [ 1 Gv 1,5 ].
Il lume è invece piuttosto il riflesso della luce su un oggetto illuminato.
Poiché dunque l'essenza divina è di un altro genere rispetto a qualsiasi sua immagine impressa nell'intelletto, Dionigi afferma che « le tenebre divine oscurano ogni lume »: e ciò perché l'essenza divina, che egli denomina tenebra per l'eccesso del suo splendore, rimane inevidente secondo l'immagine che può riceverne il nostro intelletto.
Da cui segue che egli « si nasconde a ogni conoscenza ».
Perciò chiunque nel vedere Dio concepisce mentalmente qualcosa, non concepisce veramente Dio, ma uno degli effetti di Dio.
5. Sebbene lo splendore di Dio sorpassi ogni immagine che informa attualmente l'intelletto, non sorpassa però l'essenza stessa di Dio, che nella patria beata avrà la funzione di forma per il nostro intelletto.
E così tale essenza, sebbene ora sia invisibile, allora sarà visibile.
6. Anche se tra il finito e l'infinito non ci può essere una proporzione, poiché l'eccedenza dell'infinito sul finito non è determinata, tuttavia ci può essere una proporzionalità, che è una somiglianza tra proporzioni: come infatti il finito sta a qualcosa di finito, così l'infinito sta all'infinito.
Ora, perché una cosa sia totalmente conosciuta si richiede talora che ci sia una proporzione tra il conoscente e il conosciuto: poiché la virtù del soggetto conoscente deve essere adeguata alla conoscibilità dell'oggetto, e l'uguaglianza è appunto una certa proporzione.
Talora invece la conoscibilità dell'oggetto supera la virtù del soggetto conoscente, come quando noi conosciamo Dio; o al contrario, come quando Dio conosce le creature.
E allora non è necessario che ci sia una proporzione tra il conoscente e il conosciuto, ma basta una proporzionalità: in modo cioè che il conoscibile stia al suo essere conosciuto come il conoscente al conoscere.
E tale proporzionalità è sufficiente perché l'infinito sia conosciuto dal finito, e viceversa.
Oppure si può rispondere che il termine proporzione secondo la sua accezione originaria indica il rapporto di una quantità all'altra, secondo un determinato scarto o una determinata adeguazione, ma in seguito è passato a indicare un rapporto qualsiasi esistente tra una cosa e un'altra.
E in questo senso si dice, ad es., che la materia deve essere proporzionata alla forma.
Ora, in questo medesimo senso nulla impedisce che il nostro intelletto, sebbene finito, possa dirsi proporzionato alla visione dell'essenza divina: non però ad averne la comprensione, data la sua immensità.
7. Ci sono due tipi di somiglianza e di lontananza.
La prima è basata sull'affinità di natura.
E in base a questa Dio è più lontano dall'intelletto creato di quanto un intelligibile creato è lontano dal senso.
- La seconda invece è basata su una proporzionalità.
E allora si verifica il contrario: poiché il senso non ha alcuna proporzione a conoscere un oggetto immateriale, mentre l'intelletto è proporzionato a conoscere qualunque realtà immateriale.
Ed è questa affinità che si richiede per conoscere, non la prima: poiché è evidente che nell'intendere la pietra l'intelletto non diviene simile alla pietra secondo il suo essere fisico.
Del resto anche la vista percepisce sia il miele che il fiele di colore rossastro, sebbene non possa percepire il primo come dolce: e ciò perché rispetto alla vista il colore del fiele è più affine al miele di quanto la dolcezza del miele è affine al miele stesso.
8. Nella visione di Dio per essenza, l'essenza divina stessa sarà come la forma o l'immagine mediante la quale l'intelletto compirà il proprio atto.
Né per questo tale forma dovrà costituire con l'intelletto un unico essere in senso assoluto, ma formerà un'unica realtà con esso solo quanto all'atto dell'intellezione.
9. Su questo punto non possiamo accettare la posizione di Avicenna: poiché anche altri filosofi ne respingono l'opinione.
A meno che non si voglia dire che Avicenna intendeva parlare della conoscenza delle sostanze separate che si ha mediante gli abiti delle scienze speculative, e le immagini rappresentative delle altre cose.
Per cui si servirebbe di questo argomento per dimostrare che il sapere in noi non è una sostanza, ma un accidente.
E tuttavia l'essenza divina, pur essendo secondo la sua propria natura più lontana dal nostro intelletto della sostanza dell'angelo, tuttavia è superiore a questa quanto all' intelligibilità: poiché è atto puro, senza alcuna mescolanza di potenzialità, il che non si riscontra nelle altre sostanze separate.
Né la cognizione con cui vedremo Dio per essenza sarà un accidente dalla parte dell'oggetto visto, ma solo dalla parte dell'atto del soggetto conoscente, il quale atto non sarà la sostanza stessa né del conoscente né del suo oggetto d'intellezione.
10. Una sostanza separata dalla materia ha l'intellezione di sé e delle altre cose: e in tutti e due i casi si riscontra la verità dell'affermazione riferita.
Essendo infatti l'essenza delle sostanze separate per se stessa intelligibile in atto, in quanto separata dalla materia, è evidente che quando tali sostanze intendono se stesse c'è identità perfetta tra il soggetto intellettivo e il suo oggetto: poiché esse non intendono mediante un'idea astratta da esse stesse, nel modo in cui noi intendiamo le realtà materiali.
Sembra perciò questo il significato di quel testo del Filosofo [ l. cit. nell'ob. ], come risulta dal Commentatore.
In quanto poi esse intendono le altre cose, allora l'oggetto intelligibile in atto è identico all'intelligenza in atto, dato che la forma dell'oggetto concepito diventa la forma dell'intelligenza nella sua attualità; ma ciò non nel senso che sia l'essenza medesima dell'intelletto, come nota Avicenna [ De natural. 6,5,6 ], poiché l'essenza dell'intelletto rimane unica sotto due forme nell'intendere successivamente due cose, come la materia prima rimane unica sotto le diverse forme [ successive ].
Per cui anche Averroè [ De anima 3,5 ] paragona da questo punto di vista l'intelletto possibile alla materia prima.
Quindi non segue in alcuna maniera che il nostro intelletto nel vedere Dio debba divenire l'essenza divina, ma che l'essenza divina sarà per esso come la sua perfezione e la sua forma.
11. I testi a cui si accenna, e tutti gli altri consimili, vanno riferiti alla conoscenza che abbiamo di Dio nella vita presente, per le ragioni già esposte [ nel corpo e ad 3 ].
12. L'infinito in senso privativo è in quanto tale sconosciuto: poiché una cosa è detta infinita in tale senso per l'eliminazione di ciò che le dà completezza, e quindi conoscibilità.
Cosicché tale infinito si riduce alla materia soggetta alla privazione, come spiega Aristotele [ Phys. 3,7 ].
- Invece l'infinito in senso negativo va concepito mediante l'eliminazione di ogni materia coartante: poiché anche la forma viene in qualche modo delimitata dalla materia.
Per cui questo infinito è di per sé sommamente conoscibile.
E Dio è un infinito di questo genere.
13. S. Agostino parla della visibilità corporale, che non potrà mai essere attribuita a Dio.
Il che appare evidente dal testo che precede [ Epist. 147, cc. 15 ]: « Nessuno ha mai visto Dio nella maniera in cui vediamo e denominiamo le realtà visibili; egli è per natura invisibile, come è anche incorruttibile ».
Però come per natura egli è sommamente ente, così di per sé è anche sommamente intelligibile; e che talora non sia conosciuto da noi dipende dalla nostra incapacità.
Il fatto quindi che egli venga visto da noi dopo un periodo di invisibilità dipende da una mutazione non sua, ma nostra.
14. Nella patria beata Dio sarà visto dai santi « così come egli è » [ 1 Gv 3,2 ] se l'espressione si riferisce al modo di essere dell'oggetto visto: infatti egli sarà visto dai santi in possesso del modo di essere che possiede.
Se però il modo viene riferito al soggetto conoscente, allora egli non sarà visto così come egli è: poiché l'efficacia dell'intelletto creato nel vedere non uguaglierà l'efficacia dell'essenza divina a essere intesa.
15. Nella visione sia corporale che intellettuale si riscontrano tre tipi di mezzo.
Il primo è il mezzo sotto il quale si vede.
E questo è quello che prepara la vista a vedere in generale, senza determinarla a un oggetto speciale: come la luce materiale si rapporta alla visione corporale, e la luce dell'intelletto agente all'intelletto possibile.
- Il secondo mezzo è quello mediante il quale si vede, e questo è la forma o immagine visiva con la quale i due tipi di vista vengono determinati a un oggetto speciale: come mediante l'immagine della pietra uno è determinato a conoscere la pietra.
- Il terzo tipo è il mezzo nel quale si vede.
E questo è quel dato mediante la cui percezione la vista è condotta a conoscere un'altra cosa: come guardando uno specchio uno giunge a conoscere le cose in esso rappresentate, oppure da un'immagine uno è portato a conoscere la cosa rappresentata.
Ed è in questo senso che l'intelletto attraverso la conoscenza degli effetti raggiunge la causa, o viceversa.
Nella patria beata dunque non avremo il terzo tipo di mezzo, con il quale si conosce Dio mediante le specie intenzionali delle altre cose, come cioè lo conosciamo adesso, per cui si dice che adesso lo conosciamo « come in uno specchio » [ 1 Cor 13,12 ].
- E neppure ci sarà il secondo tipo di mezzo: poiché sarà mediante l'essenza divina stessa che il nostro intelletto vedrà Dio.
- Ci sarà invece allora solo il primo tipo di mezzo, il quale eleverà il nostro intelletto in modo che si possa unire alla sostanza increata nel modo che abbiamo indicato.
Ma per tale mezzo la conoscenza non viene detta mediata: poiché esso non si interpone tra il soggetto conoscente e l'oggetto, ma è quello che dà al soggetto la capacità di conoscere.
16. Delle creature corporali non si dice che sono viste immediatamente se non quando ciò che in esse può unirsi con la vista le si unisce di fatto.
Esse però non possono unirsi in questo modo nella loro essenza, a motivo della loro materialità.
Per cui esse sono viste immediatamente quando la loro immagine rappresentativa si unisce all'intelletto.
Dio invece può unirsi all'intelletto mediante la propria essenza [ cf. corpo ].
Egli quindi non è visto immediatamente se la sua essenza non si unisce all'intelletto.
E solo tale visione immediata può dirsi « a faccia a faccia ».
Inoltre l'immagine di una realtà corporea viene ricevuta nella vista secondo la natura specifica che ha nella realtà, per quanto secondo un diverso modo di essere: per cui tale immagine porta direttamente a conoscere quella data cosa.
Invece nessuna immagine è in grado di portare la nostra intelligenza a una simile cognizione di Dio, come risulta da quanto abbiamo detto [ ib. ].
Perciò il paragone non regge.
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