La teologia mistica di San Bernardo |
Lo studio del pensiero di san Bernardo è spesso condotto in modo frammentario, come se fosse possibile discutere il senso di testi staccati dal loro contesto.
È quanto è accaduto in particolare per la sua famosa dottrina del primato dell'amore egoista e carnale, considerato spesso come punto di partenza del suo sistema, con il rischio di rimproverargli poi di aver tentato la quadratura del cerchio nel tentativo di condurci all'amore puro partendo da un amore necessariamente interessato.
La verità è ben diversa ma la si può scorgere solo cominciando, come lo stesso san Bernardo, da ciò che l'amore dovrebbe essere, invece di cominciare da ciò che è.
In sé, l'unico amore vero è l'amore di Dio, e se ci si domanda perché e come Dio debba essere amato, la risposta di san Bernardo è la stessa data da Severo di Milevi a sant'Agostino: il motivo per cui noi dobbiamo amare Dio, è Dio; la misura, è di amarlo senza misura.1
Questa profonda frase è sufficiente per i saggi, ma sentendosi, come l'apostolo, debitore anche verso gli stolti, Bernardo inizia a enumerare le ragioni che giustificano la sua tesi.
Nulla di più facile se ci si rivolge a dei cristiani.
Per coloro che credono che Dio stesso si è donato per salvarci è chiaro che egli merita il nostro amore e un amore senza limiti.
Ma cosa dire dei pagani? È su questo punto che la posizione di san Bernardo si definisce con la più grande chiarezza.
La sua dimostrazione è un'applicazione sistematica del metodo che altrove abbiamo definito2 il « socratismo cristiano ».
L'uomo si esamini e cerchi di conoscere se stesso; cosa trova in se?
I beni del corpo, ma al di sopra di questi e decisamente a loro superiori, i beni dello spirito.
Anzitutto trova ciò che Bernardo definisce, con una sola parola, « dignitas », la dignità umana per eccellenza; il libero arbitrio.
Se merita questo nome, è per un duplice motivo: eleva l'uomo al di sopra di tutti gli altri animali e gli conferisce il potere di dominarli per metterli al servizio dei propri bisogni.
Onore di preminenza, potere di dominio, questi sono quindi i due caratteri che l'uomo scopre in sé quando, cercando di conoscersi, prende coscienza del proprio libero arbitrio.
Ma cosa intendiamo con l'affermazione « prendere coscienza del proprio libero arbitrio »?
Sapersi libero è conoscere.
L'uomo non può quindi affermare la propria eminente dignità senza possedere contemporaneamente questa seconda: la « Scienza ».
Ma questa scienza della nostra dignità non sarebbe completa se non la unissimo alla conoscenza di Colui dal quale la riceviamo.
Il desiderio di scoprire l'autore della nostra dignità e di attaccarci saldamente a lui dopo che lo abbiamo trovato, è la « virtù ».
Queste tre cose non devono mai essere separate tra di loro.
Possedere questa dignità senza averne la scienza, cioè essere liberi senza saperlo, quale gloria comporta?
Possedere la dignità e la scienza del libero arbitrio, ma senza la virtù che lo fa risalire a Dio, forse è una gloria, ma è una gloria vana, dimentica della parola dell'Apostolo: « Quid habes quod non accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis? » ( 1 Cor 4,7 ).
Questi tre attributi della natura umana perderebbero quindi la loro natura propria, se si trovassero separati.
È quindi l'uomo stesso, in fin dei conti, che perde la propria natura.
Perché si trova sempre nel duplice pericolo o di dimenticare la « dignità » che fa la sua gloria, o di dimenticare che non ne è l'origine.
Nel primo caso dimentica la propria gloria; nel secondo cade nella vanagloria.
Ora, dimenticare ciò che fa la propria gloria, significa perdere di vista ciò che gli dona preminenza e potere sugli animali e divenire simile a uno di essi.
Non sapendosi libero, l'uomo perde il privilegio della propria ragione, che lo distingue dalle bestie, e si espone così a divenire come una di esse.
Il primo momento della conoscenza di se stessi, secondo san Bernardo, è la coscienza che l'uomo acquisisce della propria grandezza: « Capita quindi, se tu non ti riconosci una creatura gratificata dall'insigne privilegio della ragione, che tu cominci a unirti alle greggi degli esseri senza ragione; ignorando la propria gloria, che è all'interno, l'anima si lascia deviare dalla propria curiosità e, conformandosi alle cose sensibili esterne, diviene una di esse per aver creduto di non aver ricevuto qualcosa in più ».3
Il pericolo di non conoscere la propria grandezza è una grave minaccia per l'uomo, ma ancora più grave è il pericolo contrario di non sapere da chi la riceve: « Utrumque ergo scias necesse est, et quid sis, et quod a tè ipso non sis, ne aut omnino videlicet non glorieris, aut inaniter glorìeris ».4
Nel primo caso perdiamo la nostra gloria, nel secondo ci glorifichiamo di quanto non ci appartiene.
È da notare che san Bernardo si preoccupa, dopo san Paolo, di sottolineare il carattere obbligatorio della conoscenza di Dio per tutti gli uomini.
Ut sint inexcusabiles: non sono solo i cristiani, ma gli stessi infedeIi, che possono e devono conoscersi come creature eminenti, ma pur sempre creature.
Il Nosce te ipsum è una prescrizione valida per tutti.
Ciascuno, cristiano o no, può e deve conoscersi come libero - ed è questa la sua grandezza, essere libero e sapere d'esserlo -,ma deve anche comprendere che non deriva da se stesso né il proprio essere, né la propria libertà, né la scienza dell'uno e dell'altra.
Da qui deriva per tutti gli uomini allo stesso modo, l'obbligo di amare Dio con tutta la propria anima, con tutte le proprie forze e sopra ogni cosa, indipendentemente dal fatto di essere cristiani.
Non è necessario conoscere Cristo per rendersi conto di questo dovere, è sufficiente conoscere se stessi: meretur ergo amari propter seipsum Deus, et ab infideli, qui etsì nesciat Christum, scit tamen seipsum.5
Ovviamente quanto è vero per l'uomo in generale, lo è ancora di più per l'uomo cristiano.
Né il giudeo, né il pagano si sanno amati così come il cristiano: si sanno creati, ma non si sanno riscattati, e a quale prezzo!
Ogni cristiano si sente quindi doppiamente debitore di se stesso nei confronti di Dio, in quanto sa di esser stato creato e ricreato, donato a se stesso e ridonato: datus et redditus, me prò me debeo e bis debeo.
Eccolo quindi non solo nella stessa posizione del pagano, ma di fronte a un problema ancor più difficile da risolvere.
Come uomo deve amare Dio sopra ogni cosa, e come cristiano deve rendere a Dio il prezzo di questo amore infinito per mezzo del quale Dio ha donato se stesso per salvarci.
Come potrebbe, creatura finita, saldare un simile debito?
Abbiamo quindi ragione nel dire che il motivo per cui dobbiamo amare Dio è Dio, poiché egli ci ha amati per primo, e che la misura del nostro amore per lui deve essere il rifiuto di ogni misura.
Se non possiamo amarlo con un amore infinito, gli dobbiamo un amore totale, senza riserve, nel quale si esaurisce tutto il potere di un amore umano.
Ecco quale sarebbe lo stato normale dell'amore, se il peccato originale non l'avesse alterato in tutti gli uomini e se la negligenza dei cristiani stessi non li rendesse sordi all'appello della grazia.
Se si vuole comprendere san Bernardo bisogna quindi distinguere con cura la definizione dell'amore che l'uomo deve a Dio dalla descrizione dell'amore che gli rende.
Tutto ciò che abbiamo detto è e resta vero della natura non decaduta, o di una natura decaduta che si offra ai movimenti della grazia.
Tutto quanto diremo è vero della volontà di una natura decaduta, negligente o ribelle, in ogni caso di una natura non ancora restaurata.
Le necessità di fatto che pesano ormai su di noi sono necessità morali, che non diminuiscono in nulla la necessità metafisica del primato dell'amore divino.6
È per questo che Bernardo, dopo aver definito l'amore di Dio come il primo amore che l'uomo deve provare, dice altrove che l'amore si sviluppa necessariamente seguendo un certo numero di gradi, il primo dei quali è, quasi per definizione, egoista; il nome che san Bernardo gli dà e che bisogna conservare, poiché il suo valore è in qualche modo tecnico, è: l'amore carnale.
Eccone la definizione: « l'amore carnale è quello per il quale l'uomo ama se stesso, per se stesso e prima di ogni cosa ».7
L'affermazione dell'anteriorità di questo amore, e anche della sua priorità in rapporto a ogni altro, è costante in san Bernardo; essa solleva un difficilissimo problema d'interpretazione, perché se questa necessità è veramente inscritta nella natura stessa dell'uomo, non si vede come egli possa liberarsene.
L'uomo sarebbe quindi condannato dalla natura a far passare l'amore di sé davanti a quello per Dio.
Abbiamo detto però che l'amore umano si deve a Dio prima di ogni cosa; questo sembra metterlo in una situazione impossibile, domandargli di anteporre un altro amore a quello dal quale la sua stessa natura lo obbliga necessariamente a incominciare.
Tuttavia san Bernardo ha così spesso affermato l'uno e l'altro da non aver potuto non accorgersi della difficoltà.
Andiamo oltre, questa difficoltà è la ragione d'essere della sua dottrina; infatti se l'amore dell'uomo si volgesse spontaneamente verso dove deve indirizzarsi, non ci sarebbero da risolvere problemi relativi all'amore.
San Bernardo non può non aver visto il problema che si è instancabilmente impegnato a discutere.
Bisogna quindi cercare in che senso ciascuno di questi due amori è primo in rapporto all'altro; la risposta non può d'altra parte lasciar adito ad alcun dubbio: l'amore di Dio è primo di diritto l'amore carnale è primo di fatto; il problema consiste nel come ritornare da questo stato di fatto a quello di diritto che dovrebbe esistere.
Notiamo subito che, affermando la priorità dell'amore carnale, Bernardo si sente garantito nella sua posizione dall'autorità di san Paolo.
Egli ricorda incessantemente nei suoi sermoni il famoso testo: prius quod animale, deinde quod spirituale ( 1 Cor 15,46 ).
La conoscenza di questa dipendenza dottrinale è importante per orientare sin dall'inizio la nostra interpretazione dei testi cistercensi.
Qui, come sempre,8 bisogna considerare questa citazione medievale come un invito a rileggere tutto il passo da cui è tratta e di cui non è che un sommario richiamo: « Non vi fu prima ciò che è spirituale, ma ciò che è animale; ciò che è spirituale viene dopo.
Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre; il secondo viene dal cielo.
Quale è l'uomo terrestre, tali sono anche i terrestri, quale è il celeste, tali sono anche i celesti.
E come abbiamo portato l'immagine dell'uomo terrestre, così porteremo anche l'immagine dell'uomo celeste.
Ciò che affermo, o fratelli, è che ne la carne ne il sangue entreranno nel Regno di Dio e che la corruzione non erediterà l'incorruttibilità ».9
Ciò che Bernardo vuole anzitutto ricordarci è la necessità per l'uomo di subire una trasformazione che lo elevi dal carnale allo spirituale, se deve raggiungere l'immortalità che Gesù Cristo gli ha promesso e di cui la sua resurrezione è il pegno; ma poiché questa trasformazione è necessaria, vuol dire che nell'uomo c'è qualcosa da cambiare e ciò che deve essere cambiato deve essere antecedente a ciò che lo cambia.
L'uomo terrestre, ciò che è terrestre, è esattamente ciò che riceverà l'uomo celeste, che si rinnoverà a immagine di Dio.
Quindi ciò che è animale viene prima in noi; ma in che senso?
In un duplice senso: quello di una necessità naturale, però pesantemente aggravata dal peccato, e quello di una inclinazione morbosa, per nulla naturale, che di conseguenza si aggiunge a questa necessità naturale; cerchiamo di distinguerle.
Anzitutto necessità naturale.
Essa dipende dal fatto che l'uomo non è un puro spirito, ma un essere misto composto di un'anima e di un corpo.
Qui « carne » deve essere in primo luogo considerata nel senso ovvio di « corpo ».
Da questo punto di vista, l'anteriorità dell'amore carnale rispetto all'amore di Dio significa semplicemente che l'uomo si trova inizialmente obbligato a provvedere ai bisogni del proprio corpo.
È questo ciò che avviene; il bambino che viene al mondo è occupato dal proprio corpo per molti anni prima di poter pensare a volgere i propri desideri verso oggetti dell'ordine spirituale; e non solamente il bambino, ma anche l'adulto; anche il più severo degli asceti non può dedicarsi alla contemplazione delle cose divine più a lungo di quanto il corpo glielo permetta.
Questa fondamentale necessità ha numerose ramificazioni; da origine all'arte dell'abbigliamento, a quella del costruire le case, del guarire le malattie, in breve a tutte le arti maggiori alle quali l'attività degli uomini è quasi unicamente rivolta.
Inutile perdere il nostro tempo a enumerarle, perché è sufficiente vivere per prendere coscienza del carattere imperioso di questa necessità: ipsa nos erudii experientia, ipsa vexatio dat intellectum.
Il vero nome di questo amore del corpo è necessità.
Si tratta quindi, nel pensiero di san Bernardo, della necessità puramente naturale di provvedere anzitutto ai bisogni del corpo;10 in questo senso l'amore carnale si oppone a quello di Dio solo come una infermità legata alla natura animale, soprattutto decaduta; l'uomo può soffrirne, può sperare di esserne liberato in un'altra vita, ma è una debolezza congenita, dalla quale non potrà essere rialzato nella vita presente e della quale non deve rimproverarsi.
Ciò che complica la questione è che, se questa necessità non è in se stessa una colpa, essa grava molto più pesantemente su di noi in seguito al peccato originale; ciò è vero, ma il fatto deve essere interpretato, perché questo castigo per la colpa non ci è imputato come colpa.
Poiché gli uomini non potrebbero nascere adulti, in ogni caso sarebbe loro necessario passare attraverso un periodo di vita animale che riproporrebbe il problema.
Non potendo in nessun caso essere eliminata l'animalità costitutiva della natura umana, l'anteriorità della vita animale rispetto alla vita spirituale nell'essere umano non potrebbe essere più netta.
San Bernardo non va oltre quando afferma in questo primo senso l'anteriorità dell'amore carnale rispetto a ogni altro amore.
Ciò crea una difficoltà, un fastidio, forse anche un'impossibilità pratica per l'amore di Dio di svilupparsi liberamente in questa vita, ma non implica nell'uomo una sottomissione essenziale dell'anima al corpo che le impedisca di preferirsi alla carne che essa anima e ancor meno di preferire Dio.11
La terminologia di san Bernardo è, d'altra parte, molto più tecnica di quanto non si immagini, ed è sempre facile riconoscere questo amore carnale nei testi in cui egli ne parla.
Il carattere che lo distingue è designato col termine necessitas e la maniera con la quale agisce sulla volontà con il verbo urget.
Lo si può quindi facilmente distinguere da quest'altra forma di amore carnale, che ora esamineremo e che deriva dalla concupiscenza, poiché i termini tecnici che la esprimono, sia in se stessa sia nei suoi effetti, non sono i medesimi: il carattere che la distingue è designato col termine cupiditas e la maniera con la quale agisce sulla volontà con trahit; così opporremo sempre la necessità della natura, con il bisogno che essa genera, alla cupidigia, con la forza che ne deriva.
Lo stato normale del corpo è la salute, lo stato normale del cuore è la purezza: sicut autem corporis natura est sanitas, ita cordis est puritas.
È purtroppo un fatto che il desiderio umano solo raramente si mantiene nei limiti dell'una o dell'altra.
Invece di incanalarsi nel letto della necessità naturale, la volontà s'impegna a perseguire voluttà inutili, le quali cioè non sono desiderabili come requisiti per l'esercizio di funzioni necessario alla conservazione della vita, ma sono desiderate semplicemente per se stesse, in quanto voluttà.
Si constata che la volontà ha superato i limiti della necessità naturale dal fatto che per lei non esiste più alcun motivo per limitarsi nei propri desideri.
San Bernardo ha descritto questa caccia al piacere, e il rilassamento cui si accompagna, in pagine che lo storico delle idee si dispiace di non dover commentare, perché la loro bellezza è pari solo alla loro chiarezza.12
Ciò che invece dobbiamo sottolineare è il nuovo senso che qui riceve la priorità dell'amore carnale su ogni altro amore.
Infatti capita spesso che san Bernardo attribuisca questa anteriorità non più alla necessità naturale, ma a questa cupidigia che abbiamo appena descritto.
Perché, in questo secondo senso, la volontà è costretta a cedere prima all'amore carnale?
Anche qui san Paolo ci offre la risposta: perché siamo carnali e nati dalla concupiscenza della carne.
Se ciò che è animale precede lo spirituale in questo secondo senso, non è per il fatto che la natura lo voglia, ma al contrario perché la natura è stata corrotta dal peccato.13
È questo l'unico punto nel quale si deve notare un'imprecisione nel linguaggio di san Bernardo e bisogna riconoscere che infastidisce.
Egli usa il medesimo vocabolo necesse per designare due distinti stati della volontà, senza distinguere i due sensi che in tal caso questo termine riceve.
Il naturale è quello normale.
In linea di principio, è naturale per l'uomo amare sopra ogni cosa Dio che è l'autore della natura, ed è ciò che l'uomo faceva spontaneamente prima della colpa, quando la somiglianza divina non era ancora cancellata dal peccato.
Di fatto, è necessario per l'uomo iniziare ad assicurare la sussistenza del proprio corpo e in tal senso è giusto dire che l'amore carnale precede necessariamente tutti gli altri, ma ciò non significa che l'amore per il nostro corpo consista naturalmente nel preferirlo a Dio; può esservi anteriorità senza preferenza, nel qual caso l'amore in questione non è colpevole, o meglio, se la concupiscenza vi si mescola con preferenza, in quel caso la preferenza è necessaria, ma contro natura.
Se quindi san Bernardo parla del carattere necessario dell'amore di concupiscenza, egli usa il termine nel senso di necessità morale, così come fa spesso sant'Agostino, per designare la natura, non nella sua definizione essenziale, ma nello stato di fatto in cui essa si trova collocata in seguito al peccato originale.
Non si possono confondere questi diversi sensi senza far entrare san Bernardo in difficoltà inestricabili che si potrebbero introdurre nel suo sistema a seguito di questa imprecisione terminologica, ma che evidentemente non sono mai esistite nel suo pensiero.14
Così distinta dalla natura, la cupidigia determina una completa inversione nell'ordine dei valori15 e distrugge la gerarchia dei beni quale Dio l'aveva stabilita; non solo inizia dalla carne, ma la fa passare avanti a tutto il resto perché la preferisce.
San Bernardo mostra chiaramente ciò che distingue i due casi, facendo osservare che noi non possiamo neppure domandare a Dio di liberarci dalla necessità che ci lega al nostro corpo; tutto quello che possiamo fare è domandargli di liberarci dalle nostre « necessità », cioè di permetterci di soddisfarle una per una nella misura in cui si fanno sentire.
Essere liberi dalla necessità naturale significherebbe per noi cessare di essere uomini o almeno di essere uomini terrestri, in quanto significherebbe cessare di avere dei corpi.
Essere liberati dalla cupidigia è al contrario qualcosa che è legittimo domandare a Dio, in quanto essa non appartiene alla nostra natura, ma ne è una deformazione.
« L'anima mendica il pane altrui perché ha dimenticato di mangiare il proprio; essa aspira alle cose della terra perché non medita quelle del cielo ».16
Rendersi conto di questo carattere avventizio e in qualche modo accidentale della concupiscenza, è importante per spiegare che essa necessariamente sbaglia nel soddisfarsi, perché non si regola né sulla natura delle cose né su quella dell'uomo.
Il corpo riceve da essa più di quanto ha bisogno; quando viene superato anche il limite naturale non c'è più da attendersi per essa alcun limite da parte delle cose; d'altra parte ciò con cui spera di soddisfarsi è per definizione incapace di soddisfarla in quanto non è l'oggetto per il quale è fatta la volontà; essa si trova quindi impegnata in una direzione sbagliata e non è impegnandosi ulteriormente che potrà liberarsi, ma, al contrario, liberandosi da quei legami che la trattengono, e lo può fare solo con un movimento di « conversione ».
Movimento a cui d'altra parte tutto ci invita, perché l'uomo può scegliere solo tra questo e la più profonda miseria.
San Bernardo insiste continuamente sull'inevitabile disperazione alla quale l'uomo si condanna da solo se segue le vie della cupidigia.
Colui che vi si abbandona entra in ciò che Bernardo chiama, con un'altra di quelle metafore scritturistiche che hanno in lui valore tecnico: il consiglio degli empi.
Perché è un circolo vizioso quello in cui essi si rinchiudono.
Animati dal desiderio, cercano naturalmente tutto quanto possa appagare il loro desiderio, ma lo cercano sempre nel medesimo ambito, invece di uscirne una volta per tutte per entrare nella via diritta che li avvicinerebbe al loro fine.
Non più a uno di questi falsi fini che consumiamo e che ci consumano, ma a quello che ci porta al compimento: fini dico non consumptioni, sed consummationi.
Ciò che sarebbe necessario, invece di camminare tra le cose e metterle una per una alla prova, sarebbe pensare di raggiungere il Signore del mondo.
Perché un uomo vi pensi, è forse necessario che, dopo aver soddisfatto la propria ambizione di possedere la terra, si impossessi di tutte le cose, tranne che del loro principio.
Forse solo allora, per la stessa legge della propria cupidigia, la quale gli fa disprezzare ciò che ha per desiderare ciò che non ha, rigetterebbe con disgusto tutti i beni della terra per attaccarsi all'unica cosa che gli mancherebbe: Dio.
Ma il mondo è grande e la vita è corta.
Perché quindi seguire questo cammino faticoso e indiretto?
Il solo rimedio al male è far sì che la ragione preceda il senso, invece di seguirlo.17
Cosa ci dice infatti la ragione?
Anche l'impotenza del desiderio di soddisfarsi deve avere un senso positivo.
Una tale inquietudine che spinge l'uomo a separarsi dal bene che possiede per cercarne senza sosta un altro, non è forse, oltre che un fatto, un problema?
Ecco la risposta: il Bene ci attira.
L'inquietudine, l'instabilità del desiderio, non sono che l'eccesso di un amore troppo grande per ciò che ama, perché sbaglia oggetto.
Come potrebbe arrestarsi su un bene finito colui che solo un bene infinito può soddisfare?
Creato da Dio, per Dio, non senza motivo l'amore umano rifiuta di interrompere la propria ricerca sino a che non ha trovato l'unico oggetto che lo può appagare.18
Tutto quello che ci rimane da sapere, ora che possediamo la risposta al problema, è il motivo per cui esso si pone.
Perché questa follia? Perché questa ostinazione dell'empio a girare senza fine nel « circuito » in cui si consuma, desiderando senza saperlo e tuttavia rifiutando ciò che lo condurrebbe al proprio fine?
La cupidigia non è altro che Femore di Dio che si ignora; bisogna cercare la ragione di questa situazione.
« Il fatto è che, servendosi di un paragone più volte usato da san Bernardo, l'uomo è un esiliato; non abita più nel paese in cui è nato.
Si potrebbe dire, in termini leggermente diversi, che vive in un clima che non è il suo.
Così come Dio l'aveva creato, era una nobile creatura - nobilis creatura - ed era tale perché Dio l'aveva creato a propria immagine.
figurato a causa del peccato originale, l'uomo si è allontanato dal paese della somiglianza per entrare nella terra della dissomiglianza: « Regio dissimilitudinis ». Questa è la inversione originaria dalla quale è derivato tutto il male.
Conversione alla rovescia, « conversione esecrabile », nella quale l'uomo cambiò la gloria dell'immagine divina con la vergogna dell'immagine terrestre, la pace con Dio e con se stesso con la guerra contro Dio e se stesso, la libertà sotto la legge della carità con la schiavitù sotto la legge della propria volontà.
Si può andare oltre e dire che l'uomo ha scambiato il cielo con l'inferno, affermazione che riassume le precedenti perché l'inferno è a volte la propria volontà, la dissomiglianza con Dio che ne deriva, la guerra che essa stabilisce tra la creatura e il creatore.
Questo male introdotto nel mondo da Adamo è ereditario e la vita cristiana ha per oggetto proprio il lottare contro i suoi effetti.
Nasciamo corrotti: « Generati dal peccato, generiamo dei peccatori; nati debitori, dei debitori; corrotti, dei corrotti; schiavi, degli schiavi …
Siamo feriti sin da quando entriamo nel mondo, lo siamo mentre viviamo e lo siamo ancora quando ne usciamo; dalla pianta dei piedi fino alla sommità della nostra testa in tutto il nostro essere non vi è nulla di sano ».19
Se la cupidigia ci trascina necessariamente di bene finito in bene finito, allora la natura dell'uomo non è più nello stato in cui dovrebbe trovarsi; ormai ogni uomo che nasce, nasce sfigurato.
Il problema che immediatamente si pone allo spirito è di sapere se il male è irrimediabile.
Si può rispondere solo analizzando più attentamente la natura di questa somiglianza divina e quella dei danni prodotti dal peccato.
Seguire san Bernardo su questo terreno, significa andare incontro a una dottrina dove sono facilmente riconoscibili gli influssi combinati di sant'Agostino e di sant'Anselmo e della quale non si può tuttavia disconoscere il carattere profondamente originale.
Tutti gli elementi che prende in prestito vengono da lui ordinati in modo da preparare la soluzione al suo problema: dare un'interpretazione dottrinale coerente e una giustificazione teologica completa della vita cistercense, affinché, nata e nutrita da quella vita, questa dottrina a sua volta la nutra e la faccia vivere.
D'accordo con sant'Agostino, Bernardo situa l'immagine di Dio nel pensiero dell'uomo: mens;20 ma mentre Agostino la cerca preferibilmente nella conoscenza intellettuale, dove l'illuminazione divina attesta la presenza incessante del creatore nella creatura, Bernardo la situa piuttosto nella volontà e in modo particolare nella libertà.
Tuttavia è importante fare qui delle distinzioni.
La Scrittura insegna che Dio ha fatto l'uomo « a sua immagine e somiglianza » ( Gen 1,26 ); i due termini sono importanti e dobbiamo definirli separatamente.
Dio ha creato l'uomo per assodarlo alla propria beatitudine; ogni nostra storia inizia con questa libera decisione.
Per essere felici, bisogna gioire; per gioire, occorre una volontà; la volontà gioisce solo impossessandosi del proprio oggetto con un atto di consenso; consentire vuol dire essere liberi.
È per questo che Dio, creando l'uomo per associarlo alla propria beatitudine, l'ha creato dotato di una volontà libera ed, è soprattutto in ragione della propria libertà che l'uomo è una creatura nobile, fatta a immagine, di Dio, capace di vivere in comunione con lui.
Questo dono della libertà, fatto dal creatore alla sua creatura, è, d'altra parte, un dono complesso perché implica tre libertà: una che è immutabile e due che non lo sono.
Consideriamo il libero arbitrio in se stesso; si scompone in due elementi: il consenso volontario, il potere di arbitrio.
La libertà del libero arbitrio si identifica anzitutto col potere di consentire o non consentire, che è inseparabile dalla volontà in quanto tale.
Un essere dotato di volontà può accettare o rifiutare questo o quell'oggetto, dire di sì o no, e questo solo per il fatto che è dotato di volontà.
È questa libertà naturale, inerente all'essenza stessa del volere, che si chiama « libertà dalla necessità » - libertas a necessitate.
L'espressione significa quindi, innanzitutto, che la nozione di volontario è radicalmente incompatibile con quella di costrizione, è per questo che talvolta la si denomina anche « libertà dalla costrizione » - libertas a coactione.
Qualunque siano infatti le circostanze esterne che possono contribuire a far maturare una decisione, quando essa è presa, è la volontà che consente e a rigor di logica è contradditorio che si possa « consentire proprio malgrado ».
Questa libertà è a tal punto un privilegio inseparabile da ogni essere dotato di volontà che in noi non potrebbe essere minore di quanto non sia in Dio stesso: « La libertà dalla necessità conviene in ugual modo e indifferentemente a Dio e in generale a ogni creatura razionale, sia buona sia cattiva.
Non la si perde né per il peccato né per la miseria: non è più grande nel giusto che nel peccatore, né più piena nell'angelo che nell'uomo.
Infatti, come il consenso della volontà umana, quando la grazia lo volge verso il bene, diventa per questo buono liberamente e rende l'uomo libero nel bene, cioè lo porta a volerlo e non lo trascina suo malgrado; così, allo stesso modo, quando questo consenso si getta spontaneamente nel male, l'uomo resta anche nel male libero e spontaneo, poiché è la sua volontà che ve lo conduce e non un obbligo estraneo.
E come un angelo del cielo, o anche Dio, rimane buono liberamente, cioè per propria volontà e non per qualche necessità esterna, così è liberamente che il demonio si è precipitato nel male e vi rimane, poiché vi si trova per un movimento volontario e non per un impulso esterno.
La libertà quindi, anche là dove il pensiero è in schiavitù, rimane completa sia nei malvagi che nei buoni, ma in questi ultimi più sottomessa all'ordine; completa, a suo modo, sia nella creatura che nel creatore, ma in quest'ultimo più potente ».21
Si vede bene fino a che punto san Bernardo si opponga a tutte le dottrine sul servo arbitrio.
Poiché egli arriva, nella sua affermazione della libertà, sino a mantenerne l'esistenza anche nei dannati, si può dire che nessun crimine è in grado di distruggerla.
E se si obiettasse che questo libero arbitrio, ormai inefficace, in lui non è altro che una parola priva di senso, ci si scontrerebbe con l'altra tesi fondamentale che fa del libero arbitrio dell'uomo, anche dopo il peccato, anche nella dannazione, un analogo del libero arbitrio dei beati in cielo, degli angeli e di Dio stesso.
È un punto sul quale l'insistere non può essere eccessivo: questa libertà dalla necessità, qualunque sia in noi la miseria presente, opera nell'atto umano non meno di quanto operi in quello angelico.
Presa in se stessa e indipendentemente dalle condizioni che la qualificano, la volontà del giusto che aderisce al bene, del peccatore che consente al male o del dannato che vi si è insediato per sempre, si impossessa efficacemente del proprio oggetto quanto quella per la quale Dio vuole eternamente la propria perfezione e la propria beatitudine.
È per questo che la libertà dalla necessità, che è tutt'uno con la facoltà di consentire e conseguentemente con la volontà, lungi dall'essere e dal poter mai divenire in noi un fattore trascurabile, è al contrario un titolo d'onore del quale nessuna creatura ragionevole, in qualunque stato si trovi, può mai essere privata; può degradarla, ma non può perderla senza, per questo, cessare anche di esistere.
Ecco anche perché questa libertà, che non si può perdere né distruggere, è in noi principalmente ciò per cui siamo a immagine di Dio.
Anche questa immagine dunque, come la libertà dalla costrizione e la stessa volontà, non si può né perdere né distruggere: « Forse è perché solo il libero arbitrio non sopporta di essere danneggiato o diminuito che, soprattutto in lui, sembra sia impressa una sorta di immagine sostanziale della divinità eterna e immutabile.
Infatti ha avuto un inizio, ma non conosce fine; la giustizia e la gloria non lo accrescono in nulla, come il peccato e la miseria non lo diminuiscono.
È possibile assomigliare di più all'eternità senza essere l'Eternità? ».22
Sin qui tutto è chiaro. Bisogna solamente aggiungere un'ulteriore complicazione necessaria: se ciò che noi abbiamo appena descritto riguardo al libero arbitrio non può essere perduto, esso è l'unica cosa in noi ad essere tale.
In noi esistono altre cose. Sopprimendo la libertà dalla necessità, si sopprime la volontà, si sopprime cioè l'uomo stesso.
Ma se non si può immaginare un uomo incapace di volere, si può immaginarlo incapace di volere il bene.
Infatti supponendolo incapace di volere il bene, non si dimostra con ciò che gli manchi il libero arbitrio, ma un'altra cosa che ci resta ancora da definire.
Supponiamo che sia capace di volere e di volere il bene, ma incapace di fare il bene che vuole, avrà conservato ancora il proprio libero arbitrio, ma esiste una terza cosa che gli mancherà.23
Che cosa? Per saperlo riprendiamo, completandola, l'analisi del libero arbitrio.
Innanzitutto è, come è stato detto, una libertà coessenziale alla volontà: quella di consentire o di non consentire; questo è ciò che si esprime con il termine libero.
Inoltre è una capacità di giudicare il nostro consenso, cioè la nostra stessa volontà, e di dichiararla buona, se è buona, o cattiva, se è cattiva; questo è ciò che si esprime con il termine arbitrio.
In un certo senso si potrebbe dire che è la volontà che giudica se stessa; nulla sarebbe più giusto, in quanto la volontà è tale solo in virtù della sua stretta associazione con la ragione.
Altrimenti non sarebbe più una volontà, ma un appetito.
È altrettanto vero, rigorosamente parlando, che è il liberum che consente e l'arbitrium che giudica; ora, arbitrare è giudicare e come ogni uomo, in quanto uomo, è sempre capace di volere, così è sempre capace di formulare un giudizio sulle proprie decisioni volontarie.
San Bernardo, che qui si ricorda probabilmente dell'ut sint inexcusabiles di san Paolo, è di una fermezza estrema su questo punto: ciò che noi chiameremo la voce della coscienza, non si spegne mai nell'uomo; sempre capaci di distinguere il bene dal male, siamo sempre capaci di giudicare le nostre decisioni, abbiamo quindi sempre in noi il nostro libero arbitrio.
Consentire e giudicare il proprio consenso non è però tutto.
Si può volere il male, sapere che ciò è male e tuttavia scegliere di farlo.
Al « giudizio » si aggiunge allora una " scelta " e questo atto di scegliere ( eligere ) è esso stesso il risultato di una « decisione » ( consilium ).
Ora, in conseguenza del peccato originale, noi non siamo necessariamente capaci di scegliere il bene o di evitare il male, anche se giudicati tali dalla nostra ragione.
Bisogna quindi dire che, se non ci manca mai il liberum arbitrium, ci può mancare, senza per questo cessare di essere uomini il liberum consiltum.
È anche da ipotizzare che, sapendo ciò che è bene, scegliamo di farlo, ma che ci possa mancare la forza per compierlo; se ci venisse a mancare tale potere, avremmo però ancora il liberum arbitrium e il liberum consilium, ma con il posse sarebbe sparito il liberum complacitum.24
Ecco quindi l'uomo, struttura complessa i cui elementi sono lontani dall'essere tutti ugualmente indistruttibili.
Il punto centrale della dottrina di san Bernardo è che l'immagine di Dio in noi non può perdersi: è per questo che l'uomo rimane uomo, dopo come prima del peccato: ipse liber sui propter voluntatem, ipse judex sui pròpter rationem; ma la somiglianza con Dio in noi può perdersi: è per questo che l'uomo perdendo le virtù delle quali Dio l'aveva dotato per unire le proprie decisioni, scelte e azioni al giudizio della propria ragione, ha perso la propria somiglianza divina.
Sempre dotato del libero arbitrio, non ha più né la libertà di scegliere, che lo liberava dal peccato, né quella di agire in base alle proprie scelte, che lo liberava dalla miseria di una volontà impotente.
In breve, la libertas a necessitate ci rimane, ma abbiamo perso la libertas a peccato e la libertas a miseria.
Abusando della prima, l'uomo ha perso le altre due; ha conservato l'immagine e le due somiglianze se ne sono andate.25
Perché? Perché, a differenza della prima, queste ultime due libertà comportano dei gradi.
L'uomo poteva quindi riceverle in una certa misura, secondo una certa proporzione, che avrebbe potuto essere più grande e poteva anche divenire più piccola.
Il livello più alto di queste libertà sarebbe stato, per l'uomo, di trovarsi così completamente liberato dal peccato e dalla miseria da essergli impossibile il cadervi.
Dio avrebbe potuto crearlo in questo stato, nel qual caso, gratificato da queste due libertà nella loro pienezza, l'uomo non avrebbe mai potuto perderle: si sarebbe allora trovato, sin dalla sua creazione, confermato nel bene, come lo sono attualmente gli angeli e gli eletti nel cielo.
Ma al di sotto di questo grado superiore ve ne è un altro: poter peccare o no, poter soffrire o no, ed è proprio quello dove Dio pose l'uomo creandolo.
Per la propria colpa la natura umana è caduta dalla possibilità di non peccare dove si trovava, all'impossibilità di non peccare, e dalla possibilità di non soffrire all'impossibilità di non soffrire.
Colpa libera, della quale l'uomo è quindi interamente responsabile, e che l'ha spogliato, per una inevitabile conseguenza, delle virtù che gli permettevano di evitare, se lo voleva, il peccato e la miseria.26
Abbiamo detto che queste due libertà costituivano la somiglianza divina nell'uomo; perderle significava quindi perdere tale somiglianza ed esiliarsi nel deserto della dissomiglianza, dove, ancora oggi, si trova dispersa la folla degli uomini sfigurati.
Tentiamo di precisare la natura del male che li ha colpiti.
L'uomo è indefettibilmente a immagine di Dio; tuttavia è semplicemente fatto a immagine: solo il Verbo è questa stessa immagine, perché solo lui è espressione adeguata e sussistente del Padre.
Se quindi portare in sé l'immagine di Dio è la grandezza dell'uomo, questa grandezza è in lui come un dono.
Creatura elevata, capace di partecipare alla maestà divina - celsa creatura in capacitate majestatis - la sua dignità non gli appartiene di diritto.
Per esprimere in che modo la grandezza dell'anima appartenga alla natura dell'anima senza confondersi con essa, Bernardo usa una terminologia che ci può facilmente disorientare: questa grandezza, afferma, è la « forma » dell'anima e nessuna forma è ciò di cui è forma, sebbene non ne possa essere separata.
Ciò che chiama « forma » non è evidentemente la forma essenziale di Aristotele; d'altra parte sappiamo che non è neppure un semplice accidente, perché gli accidenti sono separabili dalla sostanza ( tali sono le somiglianze divine che noi abbiamo perso ); la « forma » di cui qui si parla non può quindi essere che un « proprio », cioè una qualificazione inseparabile dal soggetto in cui risiede e dal quale tuttavia rimane distinta.27
La diminuzione inflitta all'uomo dal peccato non riguarda quindi la sua grandezza.
Ci restano da esaminare le sue somiglianze.
Indichiamole con una parola e chiamiamole la « rettitudine » dell'uomo.28
L'anima è « grande » in quanto capace di partecipare alla vita divina, ma è « retta » in quanto desidera parteciparvi.
Come la grandezza, la rettitudine dell'anima è distinta dall'anima e inoltre esse sono distinte tra di loro, lo dimostra il fatto che, sebbene la grandezza dell'anima ne sia inseparabile, non lo è la rettitudine.
Incapace di cessare di essere grande e a immagine di Dio senza cessare di esistere, l'anima può cessare di essere retta e a somiglianza di Dio senza essere distrutta.
Per questo non ha che da perdere le proprie virtù, cioè l'amore per i beni eterni, e preferirgli quelli terreni, temporali, perituri.
L'eterno è la parte di Dio, che resta essenzialmente sua anche quando ci viene offerta; il temporale, il terreno, è la parte dell'uomo, che resta sua anche quando Dio lo invita a una più alta eredità.
Rifiutando il divino per il terreno, l'uomo rivendica quindi la propria parte preferendola a quella di Dio; facendo ciò perde la propria rettitudine, si piega, si « incurva », si distoglie dal cielo, verso cui Dio l'aveva rivolto, per inclinarsi verso questa terra attirato dal suo essere animale.
Qual è esattamente il suo nuovo stato?
Da « retta » quale era, la sua anima è diventata « curva », altro termine tecnico la cui fortuna successivamente sarà considerevole.29
Tuttavia, in virtù della distinzione che abbiamo introdotto, la perdita della sua rettitudine non ha determinato per l'anima quella della sua grandezza.
Spogliata di questo amore dell'eterno che costituiva la sua rettitudine, essa però ne resta capace; se ciò non fosse, non ci rimarrebbe, dopo il peccato, alcuna speranza di salvezza.
Fortunatamente non è così: come Adamo era in grado, essendo a immagine di Dio, di ricevere inoltre da lui la sua somiglianza, noi restiamo capaci di riceverla di nuovo, se egli vuole restituircela.
È importante capire bene questo punto in quanto è la base di tutta la mistica cistercense: è da qui che l'anima deve partire, « ut … ad amplexus Verbi fidenter accedat ».30
Ciò che ci sfigura è questo incurvamento verso il terrestre, questa perdita del gusto per i beni divini, cioè la perdita della carità; invece di essere mossi dall'amore, siamo ormai soggetti al timore e non solo al timore di Dio, che è necessario, ma al timore del castigo di Dio, che avremmo potuto evitare.
Tuttavia la dissomiglianza non ha cancellato l'immagine; la paura non ha annientato l'amore, la schiavitù del peccato non ha distrutto la libertà naturale; in breve, tutti i mali di cui noi soffriamo solo per nostra colpa, non si sono sostituiti ai beni di cui Dio ci aveva colmati, essi li hanno ricoperti come un vestito, li nascondono senza eliminarli.
Al di sotto di questa rigida crosta che la dissimula, l'immagine sussiste indeformabile, indistruttibile; l'immagine, vale a dire la natura umana stessa in ciò che ha di più nobile: la libertà.31
Scendiamo ancora più nel profondo del nostro cuore, perché san Bernardo non ha voluto rimanere in superficie, ma portare il bisturi fino nella ferita che ci tormenta.
Cosa è esattamente questa « curvatura » che ci distoglie da Dió e ci fa ripiegare su noi stessi?
Come riconoscerla e svelarne gli effetti?
Per scoprirlo è sufficiente analizzare i procedimenti particolari della nostra volontà.
Essi sono di due tipi e conseguentemente si dice che la volontà e duplice: comune o propria.
Queste espressioni non significano naturalmente che in noi ci sono due facoltà del volere, ma che noi possediamo due modi di volere, l'uno che si chiama voluntas communis, l'altro voluntas propria.
Essi si oppongono apertamente e il loro carattere antitetico permette di definirli reciprocamente.
La volontà comune non è altro che la carità.
In effetti ciò che caratterizza la carità è che essa implica una disposizione del volere a condividere i beni di cui gioisce.32
Condividerli non significa perderli, ma al contrario conservarli in modo più sicuro, e persino accrescerli, come avremo occasione di constatare più avanti.
Il suo contrario, la volontà propria, è quindi il rifiuto di avere qualsiasi cosa in comune con altri, la decisione di volere solo per noi e in vista di noi stessi.
Decisione che sembra saggia, e che tuttavia è folle, perché appena la volontà propria occupa il cuore dell'uomo, perdendo la carità, il suo volere si separa da quello di Dio e si esclude così anche dalla vita divina.
La « curvatura » dell'anima è quindi la volontà propria, cioè il ripiegamento su di sé di una carità che si degrada in cupidigia.33
Si comprende allora perché la volontà propria e la carità si oppongono.
Dio è carità; la volontà propria, opponendosi alla carità, conduce quindi contro Dio la più crudele delle guerre.
All'inizio, diventando propria, si sottrae al dominio di colui che dovrebbe servire come suo creatore.
Inoltre afferra e saccheggia tutto ciò che appartiene a Dio; si impadronirebbe dell'universo intero se ne avesse il potere e si può affermare senza timore che tutto ciò non basterebbe a soddisfarla.
Ancora di più, non contenta di appropriarsi della creazione, si rivolta contro Dio per negarlo e annullarlo nella misura in cui ne è capace.
Non potendo eliminarlo, vorrebbe almeno che non fosse Dio, poiché quando l'uomo desidera che Dio non conosca i suoi peccati, o non voglia o non possa vendicarli, cosa fa se non sperare che Dio sia privato della propria conoscenza, della propria giustizia o della propria potenza, cioè che non sia più Dio?
« Malvagità crudelissima e assolutamente detestabile quella che desidera che Dio perda la potenza, la saggezza e la giustizia!
È una bestia crudele, la peggiore delle belve, una lupa rapacissima e una iena ferocissima.
Questa è inoltre una immondissima lebbra per la quale dobbiamo immergerci nel Giordano e imitare Colui che non è venuto per fare la propria volontà: non mea voluntas, disse infatti nella Passione, set tua fiat.34
Esiste tuttavia una lebbra ancora più dannosa, in quanto colpisce il libero arbitrio nel suo stesso elemento razionale, è il consiglio proprio - proprium consilium.
Abbiamo infatti visto che il libero arbitrio è allo stesso tempo un potere volontario di consentire e un potere razionale di giudicare; ora la patologia dell'anima segue rigorosamente la sua anatomia e san Bernardo, che si dimostra così poco curioso riguardo a problemi sterili, da qui prova di una notevole capacità di costruzione sistematica, perché si tratta di un problema la cui risposta è di grande importanza per la condotta della vita spirituale.
I disordini della volontà propria dipendono immediatamente dall'elemento volontario del libero arbitrio; questo elemento non è altro che la libertà dalla necessità, cioè l'immagine di Dio in noi, che sappiamo essere indistruttibile.
È quindi evidente che i disordini di cui la volontà è sede, poiché non potrebbero alterarne l'essenza, sono di natura secondaria; devono avere altrove la loro causa, della quale non sono altro che le ripercussioni e gli effetti.
Ma non si può esitare più a lungo sul luogo di questo disordine fondamentale.
L'uomo ha perso la somiglianza divina perdendo le proprie virtù; queste virtù risiedevano in ciò che aggiunge al nostro libero arbitrio un liberum consilium; e quindi nel consilium che si trova il germe del male, e l'origine segreta della volontà propria non può essere che il proprium consilium.
Questo è un male terribile, perché più il « senso proprio » abbonda in noi, più siamo cattivi e più ci crediamo giusti.
Nessun'altra disposizione dell'anima si accompagna più facilmente di questa all'illusione della giustizia, perché non pecca per mancanza di zelo, ma per mancanza di scienza; è veramente uno zelo mal diretto.
È ciò che si vede diffondersi ampiamente nei fautori di eresie e di scismi.
È vero che essa esalta la giustizia, ma la propria, non quella di Dio.
« Essa risiede in coloro che hanno lo zelo di Dio, ma non secondo la scienza; seguendo il loro errore, essi si ostinano sino al punto di non voler ascoltare i consigli di nessuno.
Questi sono i divisori dell'unità e i nemici della pace; privi di carità, gonfi di vanità, pieni di compiacenza e grandi ai propri occhi, ignorano la giustizia di Dio e vogliono stabilire la loro.
Quale orgoglio più grande si può trovare in un uomo se non quello di preferire il proprio unico giudizio a quello di un'intera assemblea, come se fosse il solo a possedere lo spirito di Dio? ».35
In fondo il senso proprio è un'idolatria: adorazione di se stessi e ribellione contro Dio.
Ecco l'origine di tutto il male.
Preferendosi a Dio, la ragione ha pervertito la propria facoltà di scegliere, alterato la propria attitudine a non compiacersi che nel bene e messo in disordine la propria volonta.
Finché il consilium e il complacitum della ragione sono malati, non ci può essere salute per il libero arbitrio.
È per questo che, perdendo la rettitudine dei consigli e di conseguenza la somiglianza divina, la volontà dell'uomo ha perso la libertas a peccato; e perdendo la rettitudine del complacitum è ormai incapace di compiacersi nel bene anche quando la volontà vorrebbe realizzarlo, ha perso cioè la propria libertas a miseria.
D'altra parte è per questo che l'ascesi e le mortificazioni rimangono faticose, anche per colui che si libera completamente dal proprio volere; noi possiamo, con la grazia, domare la carne, ma l'anima ne soffre, perché ormai non sa più fare con gioia ciò che prima della colpa avrebbe fatto senza sforzo.
Questa è la condizione di quelli che vivono nel paese della dissomiglianza.
Essi non sono felici.
Errando, girando senza speranza per le « vie degli empi », gli uomini che si trovano in questo triste cerchio non soffrono solo per aver perso Dio: si sono persi essi stessi; la loro anima non ha più nemmeno il coraggio di guardarsi e, se vi si costringe, non si riconosce più.
Infatti non essendo più simile a Dio, non è più simile a se stessa: inde anima dissimilis Deo, inde dissimilis est et sibi;36 una somiglianza che non assomiglia più al proprio modello non può più assomigliarsi.
È vero che essa resta un'immagine; nel più profondo della propria miseria, questa realtà veramente divina, che è il libero arbitrio, continua a brillare in sé come un gioiello nell'oro, ma è proprio questo che porta al culmino la sua miseria, perché sentendosi, allo stesso tempo uguale e diversa, ancora un'immagine, ma incapace di restituirsi la bellezza perduta, è ancora capace di giudicare la propria bruttezza.
L'empio consideri quindi se stesso, guardi in faccia questo viso malato e corroso dalla lebbra: oserà ancora pretendere di somigliare a Dio?
Meglio farebbe a esclamare con il salmista: « Chi è come te, Signore? » ( Sal 35,10 ).
Come l'immagine indistruttibile di Dio giudica in quest'uomo la somiglianza distrutta, così la somiglianza eterna piange in lui ciò che egli ha perso: nam manet prima similitudo, et ideo illa plus displicet, quod ista manet.37
Come uscire da questa miseria, come ritrovare la somiglianza di Dio?
Affinché le tre libertà si ricostituiscano nell'anima dell'uomo, bisogna che cessi la volontà propria; essa cesserà solo se l' « intenzione » si lascerà condurre dalla carità; ma perché l'intenzione si corregga, bisogna innanzitutto che cessi il senso proprio e la ragione si sottometta alla verità.
Carità nell'intenzione, verità nell'elezione; semplici come colombe, ma prudenti come serpenti; prudenza innanzitutto: oculus videlicet cordis, non solum pius qui fallere nolit, set et cautus sit qui falli non possit,38 questi sono i primi consigli di san Bernardo all'anima che cerca se stessa in Dio.
La « cecità » della ragione è il primo male da guarire per chi vuole rimediare alla « perversità » della volontà.39
Cos'è che illuminerà l'occhio interiore, e gli restituirà la dirittura del consiglio? La fede.
Non solo la convinzione, ma la fede vera, cioè la vera fede.
« Tutto quello, infatti, che non viene dalla fede, è peccato » ( Rm 14,23 ).
Accettandola essa ci darà la verità, una scienza molto più sicura di quella di cui la ragione di un Abelardo persegue la conquista; illuminando la ragione, eliminerà il consilium proprium; la volontà si aprirà alla carità, che caccerà la propria voluntas e la somiglianza divina risplenderà nuovamente nell'anima poco prima sfigurata.
Il rimedio è sicuro, ma la cura è lunga; la si può seguire ovunque; ma vi sono dei luoghi privilegiati dove agisce meglio che in altri: i monasteri.
Bernardo si guarda attorno e cerca con lo sguardo quello dove essa opera meglio che in tutti gli altri; non esita, è Cìteaux.
Indice |
1 | " Vultis ergo a me audire quare et quo modo diligendus sit Deus. Et ego: Causa digendi Deum, Deus est; modus, sine modo diligere ", Dil i, 1, in, 119, 18-19. San Bernardo si ispira così, come fa notare Mabillon, a Severo di Milevi, in sant'Agostino, Epistola 109, 2 Cfr. Giovanni di Salisbury, Polycraticus, vii, 11, P.L., 199, 661 B. |
2 | Vedi su questo punto E. Gilson, L'esprit de la pUl(ysofhte_meàtéyale Jti, J. Vrin, Paris 1932, cap._iJtr. it. Lo Spirito della filosofia medioevale, Morcelliana, Érescia 1947}7"0n importante capitolo della storia di questa dottrina è stato scritto dall'abate A. Combes, Un témoin du socratisme chrétien au XV" siede: Robert Ciboule, in " Archives d'Histoire doctrinale et litteraire du moyen àge", 8 (1933), pp. 93-258. Lo studio delle fonti della mistica cistercense mi ha insegnato che questo tema era già familiare a sant'Ambrogio, e che Guglielmo di Saint-Thierry ne aveva raccolto le espressioni nel proprio commento sul Cantico dei Cantici ispirato a sant'Ambrogio. Vedi anche Gregorio di Nissa (?), De eo quid sii…, P.G., 44, 1332 A-B |
3 | Dil II, 4, III, 122, 13-17. E. Gilson, che usò, per le citazioni di san Bernardo, l'edizione Mabillon riprodotta nella Patrologia latina del Migne, sottolineò in questa nota la necessità di una nuova edizione critica delle opere dell'abate cistercense. Per questo ci siamo permessi di aggiornare le citazioni di san Bernardo seguendo il testo critico stabilito da J. Leclercq e H. Rochais negli otto volumi: Sancii Bernardi Opera, Editiones Cister-censes, Romae 1957-1977. (ndt) |
4 | Dil II, 4, III, 122, 8-9 |
5 | Dil II, 6, III, 124, 2-3. Notare in modo particolare: " Clamat riempe intus ei innata, et non ignota rationi, iustitia, quia ex toto se illuni diligere debeat, cui to-tum se debere non ignorai ", Dil II, 6, III, 124, 5-7. La ragione può conoscere l'esistenza di un Dio creatore, sappiamo quindi naturalmente di dovere, anche solo per giustizia, amarlo sopra ogni cosa. |
6 | Il passaggio dalla verità di diritto allo stato di fatto è fortemente sottolineato da san Bernardo stesso al termine del lungo sviluppo che è appena stato analizzato: viribus semel accepta a Deo, ad Dei ex toto convertere voluntatem, et non magis "Verum id difficile, mimo impossibile est, suis scilicet quempiam liberive arbitrii ad propriam retorquere, eaque sibi tamquam propria retinere ", Dil II, 6, III, 124,. 7-10. San Bernardo si muove quindi già esattamente sul terreno dove più tardi lo seguirà san Tommaso d'Aquino: in linea di diritto, l'amore naturale di Dio sopra ogni cosa diventa il primo; di fatto, a causa del peccato originale, l'uomo all'inizio si preferisce a Dio: san Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, i" n", q. 109, a 3, resp. Cfr. Pars 1, q. 60 a. 5, ad resp |
7 | " Et est amor carnalis, quo ante omnia homo diligit seipsum propter seipsum ", Dil VIII, 23, III, 138, 13-14 |
8 | E. Gilson, Les Idées et les Lettres, Vrin, Paris 1932, p. 156 |
9 | San Paolo, 1 Cor 15,46-50. Con una tecnica diversa, Guglielmo di Saint-Thierry sviluppa a lungo la medesima idea. Distingue tré stati della vita religiosa: animalis, rationalis, spiritualis, corrispondenti agli incipientes, proficientes, perfecti: Gugliel-mo di Saint-Thierry, Epistola aurea, I, 5, 12, P.L., 184, 315, Lo status animalis e analizzato (con ricordi agostiniani molto precisi) nel cap. 5, n. 13, P.L., 184, 316-317. Sull'analisi di queste distinzioni compiute da Guglielmo, vedi M.-M. Davy, Les trois éfapes de la vìe spirituelle d'après Guillaume de Saint-Thierry, in " Rè-cherches de science religieuse", 23 (1933), pp. 569-588 |
10 | " Viae igitur filiorum Adam in necessitate et cupiditate versantur. Ab utraque siquidem ducimur, ab utraque trahimur, nisi quod videmur magis urgeri necessitate, trahi cupiditate. Et necessitas quidem specialiter corpori tribuenda videtur… Siquidem e duobus malis longe melius in necessitate gradi quam in cupiditate ", QH 11,3, IV, 450, 2-5. 14-15. La distinzione e l'appropriazione di questi termini, senza essere rigida in modo assoluto, è frequente in san Bernardo. Cfr. " Sed quo-niam natura fragilior atque infinnior est, ipsi primum, imperante necessitate, com-pellitur inservire ", Dil VIII, 23, III, 138, 12-13. Il commento dell'edizione W.W. Williams (p. 42, n. 3): " necessitate: not, of course, external compulsion, but thè binding torce of thè commandment ", è quindi un malinteso nato dalla dimenticanza del significato tecnico di necessitas: si tratta di una necessità che non è ne esterna, ne legata a un precetto, ma interna e naturale, sebbene aggravata in punizione del peccato. L'errore è tanto più strano in quanto Bernardo stesso precisa, qualche riga più avanti: " nec praecepto indicitur, sed naturae inseritur ". Si tratta semplicemente di ciò che noi chiameremmo l'istinto di conservazione |
11 | Bernardo si muove però qui nella scia di sant'Agostino; questo passaggio del De diligendo Dea sembra ispirarsi al seguente testo che ne è il miglior commento: " Est quaedam vita hominis carnalibus sensibus implicata, gaudiis camalibus dedita, carnalem fugitans offensionem, voluptatemque consecutans. Hujus vitae felici-tas temporalis est: ab hac vita incipere necessitatis est, in ea persistere voluntatis. In hac quippe ex utero matris infans funditur, hujus offensiones quantum potest refugit, hujus appetii voluptates; nihil amplius valet. Sed posteaquam venerit in aetatem qua in eo rationis usus evigilet, poterit adjuta divinitus voluntate eligere al-teram vitam, cujus in mente gaudium est, cujus interna atque aeterna felicitas ", S. Agostino, Epistola 150. Non è forse inutile osservare, per maggior precisione, che l'esegesi del testo di san Paolo da parte di san Bernardo è qui solo parziale, ed egli lo sa. Il prius quod animale può essere spiegato così, ma significa di più; animale in effetti può designare sia solamente l'animalità naturale (come in questo caso), sia la cupidigia della concupiscenza che non può più esser considerata naturale, sia tutte e due; vedi per esempio Div 8, 2, VII 112. L'estensione del senso del testo è quindi, in ogni caso, funzione del problema nel quale è introdotto. Guglielmo di Saint-Thierry, più rigoroso di san Bernardo, non fa che precisare l'espressione del proprio pensiero quando dice: " Sed nullum vitium naturale est, virtus vero omnis homini naturalis est "; ma l'abitudine al peccato o alla negligenza fa sì che spesso i vizi divengano come una seconda natura e " quasi naturalia ", Epistola aurea, II, 2, 7, P.L., 184, 343 A. |
12 | Dil VII, 18, III, 134-135; Div 42, 3, VII, 257. Notare che quest'ultimo testo è una descrizione sia dei danni della cupidigia, sia di ciò che Bernardo chiama: regio dissimd'tudinis. Come si vedrà meglio più avanti, è a causa della propria cupidigia che l'uomo è " sfigurato ". Queste idee sono riassunte nelle due righe del De diligendo Deo: " At vero si coeperit amor idem, ut assolet (sdì. naturae insertus), esse profusior sive proclivior et, necessitatis alveo minime contentus, campos edam vo-luptatis exundans latius visus fuerit occupare… ", Dil VIII, 23, III, 138, 16-19 |
13 | " Quia carnales sumus et de carnis concupiscentia
nascimur, necesse est
cupi-ditas vel amor noster a carne incipiat, quae si recto ordine dirigitur,
quibusdam suis gradibus duce grada proficiens, spiritu tandem consummabitur,
quia non prius quod spirituale, sed quod animale, deinde quod spirituale ",
Dil XV, 39, m, 152, 18-23. Questo testo richiede due osservazioni: 1° Non si può dubitare, come fa W.W. William (ed. cit., p. 65, n. 13), che carnali! non debba essere più considerato, contemporaneamente, nel senso forte e in quello debole di carneus. L'esitazione è tanto meno concessa in quanto carnales sumus è riconosciuto in questo commento come un richiamo di Rom 7, 14. Ora, se si ristabilisce il testo completo al quale Bernardo fa qui allusione, vi si trova chiaramente menzionato il peccato: " Scimus enim quia lex spiritualis est, ego autem carnalis sum venumdatus sub peccato ". Qui si tratta quindi della carne infettata dal peccato e della concupiscenza quale punizione e fonte del peccato. 2° Il carattere carnale dell'uomo nel suo stato presente è invocato in questo testo per spiegare che l'amore umano si orienta all'inizio verso la carne, sia a seguito del peccato (carnalis, cupiditas), sia per necessità naturale (carneus, amor noster). I due generi di necessità naturale sono qui trattati dal medesimo testo di san Paolo. La natura terrestre, animale, dell'uomo lo sottopone alla necessità di fatto di vigilare sulla propria conservazione; non lo si può biasimare. La corruzione dell'uomo operata dal peccato lo sottopone necessariamente alla concupiscenza e alla cupidigia. Si potrebbe dire che nel primo senso è carneus, nel secondo carnalis, e che vi sono quindi due motivi (di cui uno è naturale e l'altro no) perché l'uomo ami se stesso prima di ogni altra cosa. Se ci si stupisce del fatto che Bernardo abbia fatto queste due importanti osservazioni in due capitoli del suo trattato così lontani, cioè t'viil e il XV, bisogna ricordarsi che questi testi appartengono in realtà a due differenti trattati. Il De diligendo Deo comprende i capitoli dal i all'xi incluso; i capitoli xii-xv sono un'aggiunta e riproducono la parte principale di una lettera scrìtta a Gnigo i il Certosino, in risposta all'invio delle sue meravigliose Meditationes (pubblicate in P.L., 153, 601-632) la cui lettura l'aveva entusiasmato. La fine del trattato è quindi anteriore all'inizio; lo si troverà, nella sua prima forma, in Ep 11 la cui data è verosimilmente il 1125. Il De diligendo Deo, redatto molto più tardi, non può quindi essere considerato come un unico blocco; il capitolo vili è un'esposizione distinta da quella del capitolo XV e i testi devono essere coordinati, ma non confusi. |
14 | Il linguaggio di san Tommaso segna su questo punto un decisivo progresso rispetto a quello di san Bernardo. Non si può ammettere che, per un qualsiasi motivo, l'uomo ami naturalmente se stesso più di Dio: " Alioquin, si naturaliter plus seipsum diligerei quam Deum, sequeretur quod naturalis dilectio esset perversa, et quod non perficeretur per caritatem, sed destrueretur ", San Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, pars I, q, 60, a. 5, resp. Va da sé che san Bernardo pensa allo stesso modo e si è visto che Guglielmo lo dice (vedi sopra, nota 11). È quindi naturale amare Dio sopra ogni cosa, ma psicologicamente necessario iniziare con l'amare se stessi e, per una natura decaduta, senza la grazia, è moralmente necessario che essa si preferisca a Dio. La terminologia di san Bernardo è quindi, su questo punto, elaborata in modo meno perfetto rispetto a quella di san Tommaso, ma-e qui rispondo a un'obiezione che ho sentito formulare una volta da un teologo-essa è agli antipodi di quella di Luterò. Ciò che si preferisce a Dio, in san Bernardo, è la natura umana sfigurata dal peccato, ma la grazia può rettificare questi tratti difformi e, a partire da quando l'uomo avrà ritrovato la propria somiglianzà con Dio, la vera natura umana, la natura normale, ricomincerà ad amare naturalmente Dio sopra ogni cosa. La teologia mistica di san Bernardo non è che la storia di questa restaurazione, ed è esattamente ciò che Luterò ha sempre dichiarato impossibile: " Diligere Deum super omnia naturaliter est terminus fictus, sicut Chimaera " (M. Luterò, Disputatio contro scholasticam theologiam (1517), Weimar Ausgabe, I, pp. 221-228, tesi 18). Si può preferire un'altra economia dottrinale a quella di san Bernardo, ma bisogna essere ciechi per non vedere che la mistica cistercense e quella luterana sono come il fuoco e l'acqua. |
15 | Amor è un sentimento naturale che, ordinato verso il proprio fine, è caritas e, deviato dal proprio fine, è cupiditas. La carità include in sé ogni amore ordinato, ma esclude la cupidigia, che cessa di essere se stessa se si ordina; infatti essa non è che la distorsione dell'amore. Una cupiditas non può essere ordinata qua cupiditas. Cfr. sotto, cap. V, nota 43 |
16 | QH 11, 3, IV, 450, 29-451, 2 |
17 | Dil VII, 19-20, m, 135-136. Nulla può sostituire la meditazione, riga per riga, di questo meraviglioso testo, la cui densità scoraggia l'analisi e di cui indico qui solo il movimento generale. Vi si può aggiungere un altro testo, del medesimo genere in Div 42, 3, VII, 257-258. |
18 | " Et horum omnium idcirco non est finis, quia nil in eis sumnium singulariter reperitur vel optimum. Et quid mirurn si inferioribus et deterioribus contentum non sit, quod citta summum vel optimum quiescere non potest? ", Dil VII, 18, III, 134, 27-29 |
19 | " Prima regio est regio dissimilitudinis. Nobilis illa creatura in regione simili-tudinis fabricata, quia ad imaginem Dei facta, cuna in honore esset, non intellexit, et de similitudine ad dissimilitudinem descendit. Magna prorsus dissimilitudo, de paradiso ad infernum, de angelo ad iumentum, de Deo ad diabolum! Exsecranda con-versio… Maledicta descensio… Vulnerati sumus ingrediendo in mundum, conversando in mundo, conversando in mundo, exeundo de mundo: a planta pedis usque ad verticem non est sanitas in nobis ", Div 42, 2, VII, 256-257 (passim). L'espressione " regio dissimilitudinis " è tratta da sant'Agostino. Ho perso molto tempo a cer-carvela, senza successo, ed è F. Cayrè che l'ha trovata per me. Si trova nelle Confessioni, lib. VII, cap. X, n. 16: " Et reverberasti infirmitatem aspectus mei radians in me vehementer, et contremui amore et horrore: et inveni longe me esse a tè in regione dissimilitudinis… ". Varie edizioni (P. Knoll, P.C. de Labriolle) rimandano a Ger 31, 15. In questo versetto non trovo nulla che suggerisca una tale espressione; forse hanno voluto dire Ger 31, 40: " et omnem valloni cadaverum, et cineris, et universam regionem mortis… ". In ogni modo, " dissimilitudo " non vi si trova e il termine non mi è stato segnalato da nessuna delle concordanze bibliche che ho consultato. Se ci si riferisce al contesto, si vedrà che san Bemardo fa un uso molto personale dell'espressione presa in prestito; mantenendo il contatto con una delle idee più profonde di sant'Agostino "Mihi autem inhaerere Deo bonum est, quia, si non manebo in ilio, nec in me poterò ", Confessioni, VII, 11, 17), ricostruisce con forza dall'interno la dottrina dell'immagine per farne il centro di tutta la sua ascesi. Sant'Agostino si riconoscerebbe senza esitazione in san Bernardo; tuttavia la " regio dissimilitudinis " delle Confessioni è essenzialmente la regione platonica del divenire, tra il non essere del nulla e l'essere immutabile di Dio; quella di san Bernardo è essenzialmente la regione del peccato e della deformità della somiglianzà perduta. Va da sé che non mancano rapporti tra l'una e l'altra: sant'Agostino stesso ha affermato che la contingenza dell'essere creato spiega la possibilità del peccato; san Bernardo suggerisce ovunque che la perdita della somiglianzà è una perdita di essere; nondimeno entrambi si muovono su un piano che, senza essere di esclusiva proprietà, è quello personalmente preferito: L'aspetto metafisico ed ellenico del - pensiero agostiniano risalta con una forza singolare quando lo si guarda dal punto di vista di san Bernardo. Cfr. Guglielmo di Saint-Thierry, De natura et dignitate amoris, XI, 34, P.L., 184, 401 A |
20 | " Frustra glorietur de liberiate arbitrii, quac in mente est ", Mart 3, V, 401, 17-18. Essendo il libero arbitrio l'immagine stessa di Dio in noi, questo testo equivale a situare l'immagine divina nel pensiero |
21 | Gra IV, 9, III, 172, 18-173, 2. Cfr. E. Gilson, La philosophie de saint Bonaven-ture, Vrin, Paris 1924, p. 395, nota 1. Ho fatto altrove osservare che è interessante paragonare questo testo a quello di Cartesio sulla libertà: E. Gilson La liberto chez Descartes et la théòlogie, Alcan, Paris 1913, pp. 239-243. La fonte comune di Bernardo, di Bonaventura e di Cartesio sarebbe Gregorio di Nissa, secondo Th. Raynaud, op. cit., p. 239, nota 2. Cfr. Gregorio di Nissa, De hominis opificio, P.G., 44, 184 B-C. Il senso preciso della dottrina è il seguente. L'uomo è a immagine di Dio nel proprio libero arbitrio, e non lo perderà mai; fu creato a somiglianzà di Dio in alcune virtù che gli permettevano di scegliere bene (Sapienza divina) e di fare il bene che aveva scelto (Potenza divina); ora egli le ha perdute (vedi sotto, nota 25). È quindi proprio per il libero arbitrio che, principalmente, è creato a immagine di Dio, in quanto è la sola analogia divina che non possa perdere senza per questo cessare di esistere. |
22 | Gra IX, 28, III, 185, 25-186, 4. Cfr. " An forte quaeris et tunicam inconsutilem, quae non dividitur, sed sorte provenit? Ego divinam arbittor esse imaginem, quae nimirum non assunta, sed insita atque ipsi impressa naturae, dividi scindique non potest. Ad imaginem nempe et similitudinem Dei factus est homo, in imagine arbitrii libertatem, virtutes habens in similitudine. Et similitudo quidem periit, verum-tamen in imagine pertransit homo. Imago siquidem in gehenna ipsa uri poterit, non exuri, ardere, sed non deieri. Haec ergo non scinditur, sed forte proveniat. Et quo-cumque perveniat anima, ibi erit simul et ipsa. Nam similitudo non sic, sed aut ma-net in bono, aut, si peccaverit anima, mutatur miserabiliter, iumentis insipientibus similata ", Ann 1, 7, V, 19, 8-20, 2 |
23 | Gra VIII, 24, III, 183-184 |
24 | Gra IV, 11, III, 173-174 |
25 | " De tribus ergo libertatibus quas acceperat, abutendo illa quae dicitur arbitrii, reliquis sese privavit ", Gra VII, 22, in, 182, 20-21. Questi due ultimi sono la somiglianzà: " Puto autem in bis tribus libertatibus ipsam, ad quam conditi sumus, Conditoris imaginem atque similitudinem contineri, et imaginem quidem in liberta-te arbitrii, in reliquis autem duabus bipertitam quamdam consignari similitudinem ", Gra IX, 28, in, 185, 22-25. " Porro in aliis duabus libertatibus, quoniam non solum ex parte minui, sed et ex toto afflitti possunt, accidentalis quaedam magis similitudo sapientiae atque potentiae divinae, imagini superducta cognoscitur ", Gra IX, 28, in, 186, 4-6. Si vede coinè san Bemardo, anche con una nozione imperfetta di " natura ", abbia saputo distinguere tra gli attributi essenziali, inseparabili dell'uomo in quanto tale, quindi inattaccabili anche dal peccato, e i doni gratuiti che il peccato originale poteva corrompere |
26 | Gra VII, 21-22, III, 181-183 |
27 | San Bernardo a questo riguardo tratteggia delle considerazioni metafisiche in cui tradisce l'influsso delle controversie teologiche del suo tempo. Non solo afferma la distinzione della forma e di ciò di cui essa è la forma, ma arriva sino ad affermare che la forma è anche distinta dal proprio soggetto come lo sono le proprietà nei loro vari gradi: " Non igitur sua magnitudo anima, non magis quam sua nigredo corvus, quam suus candor nix, quam sua risibilitas seu rationabilitas homo, cum ta-men nec corvum sine nigredine, nec sine candore nivem, nec hominem qui non et risibilis et rationabilis umquam reperias. Ita et anima, et animae magnitudo, etsi inseparabiles, diversae tamen ab invicem sunt. Quomodo non diversae, cum haec in subiecto, illa subiectum et substantia sit? ", SC 80, 5, il, 280, 23-29. Aggiunge immediatamente che solo Dio è assolutamente semplice, e senza dubbio è questa la chiave del passaggio. La distinzione introdotta da san Bernardo tra l'anima e la sua grandezza, sembra avere come funzione principale quella di riservare alla creatura la composizione metafisica del soggetto e della forma che Gilberto della Porretta era stato accusato di introdurre in Dio; vedi SC 80, 8, li, 282-283 dove Gilberto è espressamente citato |
28 | Sant'Anselmo ha certamente fornito a san Bemardo importanti elementi della sua sintesi. 1°) Distingue due affetti principali della volontà: la volontà dell'utile (commodum) e quella della giustizia; la prima è inseparabile dalla volontà, non la seconda (Sant'Anselmo, De voluntate, P.L., 158, 487 A). 2°) La volontà della giustizia costituisce la rettitudine dell'anima (reclitudo); la giustizia è infatti la volontà stessa di mantenere la rettitudine (De ventate, XII, 482 C-D) e la libertà consiste nel potere che abbiamo di conservarla {De libero arbitrio, in, 493 A, e xin, 505-506). 3°) La libertà è quindi distinta dalla sua giustizia: " alium autem est voluntas, et aliud rectitudo, qua recta est " (De concardia praescientiae et praedestinationis nec non gratiae Dei cum libero arbitrio, vi, 516 C); la perdita della rettitudine dell'anima non comporta quella del libero arbitrio, che sussiste e può ancora recuperarla se Dio gliela rende (Dialogus de libero arbitrio, in, 493 C). Tutti questi elementi sono passati nella dottrina di san Bernardo, dove d'altra parte acquisiscono un nuovo aspetto, adattandosi alla soluzione di nuovi problemi, meno speculativi di quelli di cui si occupa Sant'Anselmo e immediatamente legati a quelli sollevati dalla pratica della vita cistercense |
29 | Essa ha un ruolo importante nella dottrina di san Bonaventura (E. Gilson, La philosophie de saint Bonaventure, Vrin, Paris 1924, p. 416) |
30 | Cant 81, 1, II, 284, 23-24 |
31 | " Quia ergo naturae ingenuitatem morum probitate defensare neglexit, iusto Auctoris iudicio factum est, non quidem ut liberiate propria nudaretur, sed tamen superindueretur, sicut diploide, confusione sua (Sai 108, 29). Et bene dixit sicut diploide, ubi veste veluti duplicata, manente liberiate propter voluntatem, servilis nihilominus conversatio necessitatem probat ", SC 82, 5, n, 295, 12-16. " Ita bonis naturae adventitia, dum non succedunt, sed accedunt, turpant utique ea, non exter-minant; conturbant, non deturbant ", ibid., n, 295, 24-25 |
32 | " Porro communis voluntas caritas est. Veruni facile est nosse quam sint aliena a propria voluntate, quae propria sunt caritads, cui illa recta fronte contratiam s& constituit ", Pose 2, 8, V, 98, 21-22, 99, 3-5 |
33 | " Voluntatem dico propriam, quae non est communis cum Deo et hominibus, sed nostra tantum, quando quod volumus, non ad honorem Dei, non ad utilitatem fratrum, sed propter nosipsos facimus, non intendentes piacere Deo et prodesse fra-tribus, sed satisfacere propriis motibus animorum. Huic contraria est recta fronte-caritas, quae est Deus ", Fase 3, 3, v, 105, 9-14 |
34 | Pasc 3, 3, V, 106, 15-20 |
35 | Pasc 3, 4, V, 106, 22-107, 6. Non ci si può non domandare se san Bernardo" qui non pensi ad Abelardo o a Gilberto della Porretta |
36 | Cant 82, 5, II, 295, 25-26 |
37 | Cant 82, 6, II, 296, 26-27 |
38 | Pre XIV, 36, III, 279, 14-15 |
39 | Pre XIV, 37, III 279. Si vede qui chiaramente che la dottrina della libertà è un elemento integrante della teologia mistica di san Bernardo e che entrambe sono funzioni del suo ideale monastico, perché esso ne è la condizione necessaria. Il contrario della miseria presente è la beatitudine celeste; i beati posseggono pienamente la libertas a miseria; solo i contemplativi giungono a liberarsene, parzialmente e per pochi istanti, in questa vita. Si potrebbe quindi definire l'estasi come una liberazione imperfetta e breve dalla " miseria ". Essa appare quindi come una restaurazione della " libertas complaciti " che il peccato ci ha fatto perdere. Vedere, a questo proposito, il testo capitale del Gru v, 15, m, 177, in particolare " Itaque in hac vita 'soli contemplativi possunt utcumque frui liberiate complaciti, et hoc ex parte, et parte satis modica, viceque rarissima ", ibid., ni, 177, 13-15. E più sopra: " Hi piane, quod negandum non est, edam in hac carne, raro licet raptimque, complaciti liberiate fruuntur, qui cum Maria optiman partem elegerunt… ", ibid., ni, 177, 7-9. Il fatto che questi evidenti riferimenti agli stati mistici si ritrovino in Gra è sufficiente per collegare questo scritto all'opera mistica di san Bernardo. |