La teologia mistica di San Bernardo |
Guglielmo di Saint-Thierry meriterebbe uno studio dottrinale sviluppato come quello di cui ha beneficiato l'opera di san Bernardo.
È un grandissimo teologo la cui chiarezza di pensiero si unisce a una notevole precisione nell'espressione.
Intimamente legato a san Bernardo, totalmente in accordo con lui sui principi e le conclusioni dei problemi posti dalla vita mistica, ha saputo conservare, insieme a un'ammirazione senza riserve per l'abate di Chiaravalle, una assoluta indipendenza di pensiero.
Le note che seguono non si presentano come l'equivalente del lavoro che desideriamo vedere intrapreso, ma come un invito a intraprenderlo.
Esse si limitano a indicare le idee principali e ad abbozzare, per così dire, il piano della dottrina.
Coloro che, partendo da qui, lavoreranno a presentarla nella sua vita e nella sua bellezza, saranno sorpresi dalle ricchezze da cui dovranno attingere e dall'imbarazzo che li attende quando si vedranno costretti a scegliere.
Guglielmo di Saint-Thierry infatti possiede tutti i requisiti: la forza del pensiero, l'eloquenza dell'oratore, il lirismo del poeta e la seduzione contagiosa della pietà più ardente e più tenera.
Per ritrovarsi nelle questioni connesse ai suoi scritti, la guida più sicura sarà Dom Andre Wilmart, La sèrie e la date des ouvrages de Guillaume de Saint-Thierry, in « Revue Mabillon », 14 (1925), pp. 157-167.
Sulla sua vita: A. Adam, Guillaume de Saint-Thierry, sa vie et ses oeuvres, Bourgen Bresse 1923 ( è la pubblicazione di una tesi, opera utile ).
Sulla sua dottrina oltre al volume di H. Kutter, Wilhelm von St. Thierry, ein Reprdsentant der mittelalterlichen Frommigkeit, Ricker, Giessen 1898 ( che è inutilizzabile ), si consulterà:
L. Malevez, La doctrine de l'ìmage et de la Connaissance mystìque chez Guillaume de Saint-Thierry, in « Recherches de science religieuse », 22 (1932), pp. 178-205, 257-279. Articoli solidi, molto approfonditi e penetranti.
M.M. Davy, Les trois étapes de la vie spirituelle, d'après Guillaume de Saint Thierry, in « Recherches de science religieuse », 23 (1933), pp. 569-588. Analizza 1a Epistola aurea.
1. Epistola ad Frafres de Monte Dei ( detta Epistola aurea ), P.L., 184, 307-354 ( escluso il libro III );
2. Meditativae orationes, P.L., 180, 205-248;
3. De contemplando Deo, P.L., 184, 365-380;
4. De natura et dignitate amoris, P.L., 184, 379-407;
5. Disputatio adversus Abaelardum, P.L., 180, 249-282;
6. Disputatio catholicorum patrum adversus dogmata Vetri Abaelardi, P.L., 180, 283-340 ( non è sua, ma « cujusdam abbatis nigrorum mo-nachorum »: Goffredo d'Auxerre, P.L., 185, 596 );
7. De sacramento altaris, P.L., 180, 341-366;
8. Speculum fidei, P.L., 180, 365-398;
9. Aenigma fidei, P.L., 180, 397-440;
10. Brevis commentatio in priora duo capita Cantici Canticorum, P.L., 184, 407 ( apocrifo );
11. Commentarius in Cantica Canticorum e scriptis S. Ambrosii collectus, P.L., 15, 1947-2060;
12. Excerpta ex librìs S. Gregarii Papae super Cantica Canticorum, P.L., 180, 441-474;
13. Expositio altera super Cantica Canticorum, P.L., 180, 473-546 ( interrotto, per la polemica con Abelardo e la Vita di san Bernardo, a Cant3,3 );
14. Expositio in Epistolam adRomanos, P.L., 180, 547-594 ( compilazione della quale sarebbe importante ritrovare le fonti );
15. De natura corporìs et animae libri duo, P.L., 180, 695-726.
Abbozzo della sua teologia mistica Guglielmo ha costruito una teologia mistica sistemata con molta cura e della quale è indispensabile conoscere la struttura se si vuole comprendere esattamente il significato di una qualunque delle sue parti.
È per aver isolato alcune di queste dall'insieme al quale appartengono che si è giunti ad attribuire loro un significato estraneo al suo pensiero o a deformarle in modo da renderle estremamente pericolose.
Non si tratta qui di trovare una pia interpretatio della sua dottrina, ma semplicemente di mostrarla come essa è; pensiamo che questo basterà a mostrare nello stesso tempo che essa è inattaccabile.
La dottrina mistica di Guglielmo è nata e si è sviluppata interamente nel quadro della vita cenobitica, sia essa quella di un monastero benedettino, cistercense o certosino.
Il chiostro è considerato come una scuola,1 in opposizione alle altre scuole, già così numerose nel XII secolo, dove si insegnano le lettere profane e le varie discipline del Trivium e del Quadrivium.
Le scuole profane insegnano una dottrina dell'amore profano il cui grande maestro è Ovidio e il libro classico il suo De arte amatoria.
I monasteri saranno ugualmente scuole d'amore, ma nelle quali si insegna la carità.
Guglielmo di Saint-Thierry, lo si è detto già da molto tempo con una formula perfetta, ha voluto scrivere un Anti-Nasonem.2
Quale sarà la natura di questo insegnamento?
L'arte d'amare è l'arte delle arti, ma non è Ovidio che ce la insegna, bensì la natura e Dio, autore della natura.
Infatti, l'amore è stato infuso nell'anima dal suo creatore, ma la sua naturale nobiltà è stata degradata da affetti colpevoli, di modo che oggi deve esserci insegnato.3
Bisogna ricordarsi sempre questi elementi se si vuoi mantenere la dottrina di Guglielmo sul suo vero fondamento.
Consideriamoli in successione.
1. L'amore è in noi un sentimento naturale innato.
Creato da Dio, dovrebbe essere ancora oggi così come era al momento della creazione.
Se lo fosse, l'amore non avrebbe bisogno di esserci insegnato; se la nostra natura fosse rimasta come Dio l'ha creata, non dovremmo far altro che consultarla per sapere chi e come dobbiamo amare; impararlo dalla natura sarebbe infatti impararlo da Dio, autore della natura.
Quindi, in linea di principio, l'amore non avrebbe bisogno di essere insegnato.
2. Se non è più così, significa che si è prodotta una deviazione nei nostri sentimenti.
Come insegna sant'Agostino, ogni essere naturale è trascinato dal proprio « peso » verso il luogo che gli è proprio.4
È così anche per l'anima dell'uomo, con la differenza che, essendo libera, ha potuto deviare dalla propria strada.
Ciò è quanto è successo al momento del peccato originale.
Da allora essa tende sempre verso il proprio luogo naturale, che è la beatitudine; il suo « pondus » naturale ve la trascina sempre irresistibilmente, ma essa ha perso la strada e non la ritroverà a meno che non gliela si insegni di nuovo.
È per questo che ogni uomo ha ora bisogno che un altro uomo lo istruisca su ciò che non può più leggere nella propria natura: cos'è la beatitudine, dov'è, come possiamo raggiungerla?5
3. Quale sarà quindi la funzione di questo maestro umano?
Non sarà quella di insegnare l'amore come se non esistesse già nel cuore dell'uomo, ma di correggerlo.
Il professore d'amore deve procedere a una rieducazione dell'amore.
Insegnerà quindi come si purifica l'amore, come lo si fa crescere, come lo si consolida.6
A questo si limita la sua funzione e non potrebbe aspirare ad un'altra; tutto quanto può fare è istruire le anime a cedere alla carità.
4. Il maestro dei novizi, il priore e l'abate sono questi professori; il monastero è questa scuola; non ci si istruisce argomentando e rispondendo con delle parole, poiché la dottrina che vi si insegna è una vita e le dispute si concludono con delle azioni.
Un monastero in cui si impartisca un tale insegnamento e in cui esso sia ricevuto con questo spirito, è l'unica vera scuola di filosofia che vi sia.
Non solo le anime, ma anche i corpi riflettono la carità di cui sono animate tutte le loro membra, al punto che la comunità monastica diviene una vita sociale, simile, come è possibile sulla terra, a quella dei beati in cielo.7
Ciò che in questa dottrina deve essere sottolineato con maggior forza, è il significato speciale che riceve il termine naturalis.
Il suo equivalente più appropriato sarebbe forse il termine normale.
È naturale, agli occhi di Guglielmo, non ciò che non è soprannaturale, ma ciò che è come deve essere, perché è come Dio l'ha voluto.
Questa terminologia si presta facilmente alla confusione, in quanto, nel naturale così concepito, bisognerebbe ulteriormente distinguere tra il naturale propriamente detto e il soprannaturale, cioè tra ciò che riguarda la natura pura e ciò che riguarda la grazia.
Come sant'Agostino, Guglielmo è subito pronto a fare questa distinzione, ma il piano sul quale solitamente si muove è un altro.
La distinzione tra natura pura e grazia, per quanto sia ben fondata e necessaria, è troppo astratta, troppo teorica, per attirare la sua attenzione.
Ciò che lo interessa è il problema morale e religioso che solleva lo stato attuale dell'uomo.
Questo stato non è più ciò che avrebbe dovuto essere, poiché non è più quello nel quale Dio ha creato la natura, non è quindi più uno stato naturale.
Così, dato ciò che Dio ha voluto fare e fa creando l'uomo, la perdita dei doni soprannaturali, che l'uomo aveva ricevuto dal proprio creatore, lo pone in uno stato che non è il suo stato naturale; perché la natura venga restaurata, bisogna che essa ritrovi questi doni soprannaturali, poiché essi ne facevano parte.
È per questo che Guglielmo non vede nessuna difficoltà nello scrivere che la carità è l'organo della vista, la facoltà naturale del vedere, la luce naturale dell'anima, creata in lei dall'autore della natura8
È quindi sempre in questo senso che è opportuno intendere le formule che altrimenti rischierebbero di falsare il suo vero pensiero: amor ergo, ut dictum est, ab auctore naturae, naturaliter est animae inditus.9
Supponiamo quindi che il novizio sia entrato in una di queste scuole di carità, quale metodo dovrà seguire per mettersi nella condizione di ricevere da Dio la carità perduta?
Il primo precetto del metodo è conoscere se stessi.
Come san Bernardo, Guglielmo di Saint-Thierry ha fortemente insistito su questa necessità fondamentale.
Entrambi non hanno fatto che ispirarsi a sant'Ambrogio e a san Gregorio Magno; ciò è particolarmente sicuro per quanto riguarda Guglielmo, in quanto si è preoccupato di raccogliere nei due commenti al Cantico dei Cantici che lui stesso ha estratto, uno da Ambrogio, l'altro da Gregorio, le loro principali dichiarazioni riguardanti la necessità di conoscere se stessi.10
Confrontate con l'insieme formato da questi testi, le fugaci allusioni di sant'Agostino al Nosce teipsum sono di poca importanza; si può quindi considerare certo che è ad Ambrogio e a Gregorio che si ispira su questo punto.
Seguendo l'esempio di questi due maestri, Guglielmo interpreta immediatamente il precetto di conoscere se stessi come una ingiunzione rivolta all'uomo per conoscere che è fatto a immagine di Dio.
Ma qui il loro influsso si nutre in qualche modo di quello di sant'Agostino.
Per san Bernardo l'uomo che cerca di conoscere se stesso riconosce allo stesso tempo la propria miseria e la propria grandezza; la propria miseria in ciò che in lui è nulla; la propria grandezza in ciò che dalla libertà è fatto a immagine di Dio.
Guglielmo di Saint-Thierry si differenzia su questo punto da san Bernardo per la maggior fedeltà con la quale si ispira a sant'Agostino.
Per l'anima conoscere se stessa significa conoscere la propria grandezza, che è quella di essere fatta a immagine di Dio; ma questa immagine risiede in lei soprattutto in mente, nel pensiero.11
È quindi esplorando il contenuto del pensiero che l'anima si conoscerà come immagine divina e conoscerà così anche il Dio di cui è l'immagine.
In cosa consiste questa immagine?
Continuando a seguire sant'Agostino, Guglielmo la trova in una sorta di trinità creata, la cui struttura ricorda quella della Trinità creatrice.
Fondamentalmente, la somiglianza tra l'uomo e Dio si trova all'interno del pensiero, nella ragione, ma la ragione stessa svolge questo ruolo solo in quanto si collega alla memoria, intesa nel senso agostiniano, cioè alla memoria di Dio.12
Creando l'uomo, Dio gli ha infuso un soffio di vita: spiraculum vìtae.
Il termine spiraculum suggerisce la natura « spirituale » di questo soffio; spirituale, quindi anche intellettuale.
D'altra parte, il termine vitae indica che questo soffio era allo stesso tempo una forza animatrice.
Si può quindi dire che Dio ha creato l'uomo come un essere vivente e animato, dotato di una facoltà intellettuale di conoscere.
Al vertice, per così dire, di questo essere, Dio ha posto la memoria, cioè, secondo il significato dato da sant'Agostino a questo termine, la facoltà di ritrovare in sé in ogni momento la presenza latente di Dio, in modo particolare la sua potenza e la sua bontà.
Non bisogna confondere questa memoria con un ricordo attuale di Dio, che ci permetterebbe di conoscerlo; essa esprime semplicemente il fatto che, per parlare ancora come sant'Agostino, Dio è sempre con noi anche se noi non siamo sempre con lui.
C'è quindi, al vertice del pensiero, un punto segreto nel quale risiede il ricordo latente della sua bontà e della sua potenza; questo è in noi il segno inciso più profondamente della sua immagine, quello che evocherà gli altri e porterà a compimento la nostra somiglianza a lui.
In Dio il Padre genera il Figlio, e lo Spirito Santo procede dall'uno e dall'altro.
Allo stesso modo in noi la memoria genera, immediatamente e senza alcun intervallo di tempo, la ragione, e la volontà procede dall'una e dall'altra.
La memoria possiede e contiene in sé il fine a cui l'uomo deve tendere; la ragione conosce subito che bisogna tendervi; la volontà vi tende, e queste tre facoltà sono una specie di unità, ma tre azioni, così come nella Trinità divina non vi è che un'unica sostanza, ma tre persone.13
Vi è appena bisogno di sottolineare l'importanza di questa genesi delle facoltà dell'anima, perché essa determina una volta per tutte le condizioni del loro legittimo esercizio.
Una ragione che deriva dalla memoria della bontà di Dio non può aver altro oggetto che Dio.
Nata da ciò che contiene il quo tendendum, essa non ha altro motivo di esistere che quello di constatare il quod tendendum; la sua funzione è inscritta nella sua essenza: essa è la conoscenza del fatto che bisogna tendere verso Dio e tutto il resto è vana curiosità.
Lo stesso per la volontà; originata dalla memoria e dalla ragione, essa non può essere altro che un tendit, cioè la tendenza verso quel fine che la memoria contiene e verso cui la ragione sa che bisogna tendere.
Ecco ciò che Dio ha creato, ecco quindi anche ciò che è lo stato « naturale » dell'uomo: quello di una ragione che conosce solo Dio, di una volontà che tende solo verso Dio, perché la memoria dalla quale esse procedono è colma solo del ricordo di Dio.
Tale era anche l'immagine divina nell'uomo, quando risplendeva in tutto il suo splendore, prima che venisse offuscata dal peccato; è questa somiglianza che abbiamo perso e che l'esperienza dell'amore divino deve condurci a riscoprire.
Conoscere se stessi significa conoscersi come una immagine di Dio offuscata, nella quale l'anima, decaduta dalla sua gloria primitiva, non riconosce più il proprio Creatore.
La restaurazione della somiglianza cancellata non si realizza senza l'uomo, ma sarebbe stata impossibile senza la Redenzione.
Vedendo che l'uomo aveva perso la propria somiglianza e che non avrebbe potuto recuperarla con le sue sole forze, la Trinità divina ha tenuto consiglio per rimediare a questo disordine.
Per colpa propria l'uomo si era perso nella regione della dissomiglianza ( « abiisse in regionem dissimilitudinis » ).
L'angelo decaduto aveva desiderato essere simile a Dio; l'uomo decaduto si era lasciato persuadere dal tentatore che sarebbe diventato « sicut dii ».
Dio non aveva potuto sopportare l'idea che suo Figlio, lo splendore della sua gloria, avesse tanti pari e quali pari.
L'angelo e l'uomo erano quindi stati precipitati nella loro rovina.
Era giusto; ma nondimeno l'opera di Dio era stata distrutta.
Poiché la giustizia non lo impediva, perché non restaurare quest'opera per mezzo della misericordia?
È ciò che Dio decise di fare.
Il Figlio di Dio si è quindi fatto nostro mediatore tra il Padre e noi.
Perché ci fosse una mediazione, bisognava che l'uomo, da parte sua facesse qualcosa; Dio chiese quindi all'uomo la fede, la speranza e il timore.
Quanto al Figlio di Dio, egli decise di morire, innocente, per salvare il colpevole, e di redimere con il castigo della propria innocenza quello della disobbedienza umana.
Per farsi mettere a morte, bisognava eludere la vigilanza del diavolo; è quanto fece il Piglio di Dio dissimulando la propria gloria sotto le apparenze della debolezza umana.
Con la propria umanità nascondeva al demonio la propria divinità; con i propri miracoli, eccitava la sua invidia, ma nello stesso tempo si accattivava la fede dell'uomo che voleva salvare.
Il Figlio di Dio fu quindi messo a morte.
Con questa morte ingiusta, ottenne una nuova giustizia, fondata sul suo sacrificio, e l'uomo colpevole fu assolto.
Se Dio, d'ora in poi, vuole punire il peccato dell'uomo, l'uomo può offrirgli in espiazione il sangue di suo Figlio, versato per amore, per salvarlo.
Questo sacrificio del resto non è terminato.
Con l'istituzione dell'Eucaristia, si perpetua tra noi.
L'uomo può mangiare il corpo di Cristo, cioè diventare il corpo di Cristo e, di conseguenza, il tempio dello Spirito Santo.
Questo tempio, se ornato con le virtù prescritte, è dedicato a Dio e Dio solo vi abita.
L'uomo, così trasformato dall'unione a Dio nell'Eucaristia, gioisce solo di Dio e fa soltanto uso di tutto il resto; ha quindi raggiunto la sapienza che non è altro che l'amore di Dio nella carità.
Davanti ad essa la falsa sapienza di questo mondo e dei suoi filosofi appare solo come malizia e follia; alla scienza che gonfia, essa si oppone come la carità che edifica.
Tutta la vita del novizio, tutto il suo esercizio, consisterà quindi, appoggiandosi al sacrificio di Cristo e alla grazia dell'Eucaristia, nel rifare del proprio amore perverso una carità.14
La rovina è compiuta, ma non bisogna disperare; significherebbe offendere l'opera di Dio il credere che coloro che la corrompono debbano sempre avere la meglio sugli sforzi di coloro che, con l'aiuto della grazia, si sforzano di restaurarla.
Per questo, chiamando Dio dal fondo dell'abisso in cui si trova immerso,15 l'uomo deve proporsi senza timore il fine più alto al quale possa, qui in terra, aspirare: un amore di Dio così ardente che sia una specie di santa follia.
La vita del novizio benedettino è l'iniziazione a questo amore.
Severo con se stesso, si rimette interamente nelle mani dei suoi superiori e rinnega completamente se stesso per lasciare spazio libero alla venuta dell'amore divino.
La possibilità stessa di questa iniziazione non si comprenderebbe se l'immagine di Dio, indistruttibile nell'uomo, non continuasse a sussistere in quella memoria che non se ne ricorda più, ma che potrebbe ancora, con l'aiuto di Dio, ricordarsene.
L'amore umano è diventato cieco, ma anche un cieco può servirsi ancora delle proprie mani.
Bisogna cominciare così, andando, per così dire, a tentoni e piegando il cuore e il corpo a pensare e ad agire come se si amasse veramente Dio.
In tal modo si contrae, progressivamente, un' « abitudine » alla buona volontà.
Il servizio di Dio, che il novizio si era subito imposto come uno sforzo faticoso, diventa poco a poco più facile.
L'anima passa allo stato di servizio Volontario e il corpo si sottomette spontaneamente alla disciplina che l'anima esige da lui.
L'aspetto dell'uomo interiore si rinnova di giorno in giorno; l'anima comincia a essere ricompensata da frequenti e molteplici « teofanie »;16 gli splendori di cui godono i beati nel cielo cominciano a riscaldarla e a illuminarla.
Inizia quindi per lei la vita di unione a Dio, che è la vita di carità, con le sue alternanze di gioie e di abbandoni, di attese dolorose, talvolta premiate.17
Per consentire queste rivelazioni divine, come deve essere l'amore?
Esattamente come Dio l'aveva creato e come lo ricrea in noi con la grazia.
Dio è il luogo di nascita dell'amore, è in lui che è nato, che è stato nutrito e che è cresciuto.
« Là è cittadino; non straniero, ma indigeno. Perché è solo per mezzo di Dio che viene donato l'amore, ed è ancora in lui che resta, perché lo si deve solo a lui e per lui ».18
Se è così, dire che Dio crea in noi l'amore, significa dire che ci ispira il desiderio di amarlo come lui stesso si ama.
Amandoci, Dio non prova un affetto che tende verso di noi; non riceve nulla di più dal nostro affetto; in verità.
Dio non ci ama che per lui e poiché il nostro amore è in noi quello che egli ha creato, deve essere anche un amore con il quale noi ci amiamo come egli ci ama, unicamente per lui.
Questa perfetta unione delle volontà tra l'uomo e Dio è possibile solo con una grande grazia, ed essa lo è, e là dove si produce, si produce anche la restaurazione della somiglianza divina nella quale l'uomo fu un tempo creato.
Egli non ama più Dio per se stesso, ne se stesso per se stesso, ma ama Dio e se stesso solo per Dio.19
Diciamo piuttosto, dal momento che il nostro amore per Dio è quindi quello con cui egli ama se stesso, che è lui che ama se stesso in noi: sic nos efficiens tui amatores, imo sic tè ipsum in nobis amans.20
La preghiera di Cristo, in san Giovanni, è ormai esaudita: « Volo ut sicut ego et tu unum sumus, ita et in nobis ipsi unum sint » ( Gv 17,21 ); il fine dell'amore è quindi raggiunto: la pace, la gioia nello Spirito Santo, il silentìum in coelo,21 cioè nell'anima del giusto; ma dura per un tempo troppo breve - sed hora. est dimidia vel quasi dimidia -; la gioia qui prende soltanto forma, riceverà la sua perfezione nella beatitudine.
La natura di queste consolazioni spirituali è abbastanza difficile da definire nella dottrina di Guglielmo.
Da quanto si può giudicare, questa unione di volontà con Dio, che corona l'iniziazione alla carità, si accompagna a un'emozione sensibile che ne è il segno.
Guglielmo si esprime spesso come se sentisse la grazia, e la consolazione interiore che ne riceve è per lui l'indizio più sicuro del fatto che ha appena raggiunto il termine del proprio sforzo.22
Questa dolce gioia sembra essere per lui solo l'effetto e il segno della trasformazione dell'anima per mezzo della grazia e della restaurazione dell'immagine in noi.
È vero che, seguendo la lettera dei testi, questa gioia si accompagnerebbe anche alla conoscenza; essa non sarebbe soltanto una unione di volontà con la gioia che l'accompagna, ma una contemplazione, una visione di Dio.
Cosa dobbiamo pensare di queste espressioni?
L'uomo si trova riformato a immagine del proprio creatore; perché si può dire che in questo modo conosce Dio?
Esaminiamo anzitutto in cosa consista un processo conoscitivo e prendiamo come esempio il caso della conoscenza sensibile.
Perché vi sia percezione di un oggetto sensibile, è necessario che una certa immagine di quell'oggetto sia nel pensiero.
Il pensiero si forma allora una specie di copia di quell'oggetto, conforme sia alla natura del senso che percepisce, sia alla cosa percepita; si dice allora che lo conosce.
La condizione essenziale della conoscenza è quindi questa « similitudo », questo fantasma, la cui presenza nel pensiero, permettendogli di trasformarsi a somiglianza dell'oggetto, gli permette anche di conoscerlo.
A questo processo conoscitivo si aggiunge sempre un processo affettivo che lo completa.
Come sant'Agostino aveva già detto nel De trinitate, non c'è sensazione, né conoscenza, senza un movimento d'amore che applichi i sensi e il pensiero all'oggetto.
Senza questo desiderio di percepire e di conoscere che ci anima, l'oggetto potrebbe anche trovarsi davanti a noi, ma sfuggirebbe continuamente alla nostra presa e non lo vedremmo neppure.
Nel caso in cui l'amore di Dio raggiunga in noi la sua perfezione, cosa accade?
Né le immagini, né i fantasmi possono evidentemente svolgere alcun ruolo, ma l'amore li sostituisce.
Poiché trasforma l'anima a immagine di Dio, opera in lei, in una maniera incomparabilmente più complessa e più profonda di quanto non possano fare le immagini sensibili, quell'assimilazione del pensiero all'oggetto che è la prima condizione di ogni conoscenza.
D'altra parte, dal momento che è solo l'amore che qui opera questa trasformazione, ne consegue che non mancherà l'elemento affettivo richiesto per la conoscenza; non si limita ad accompagnare e a facilitare l'assimilazione del pensiero all'oggetto, come nel caso della conoscenza sensibile, ma la produce.
Non ci si può quindi stupire che l'anima senta Dio, dal momento che l'ama; essa lo sente per lo stesso amore che prova per lui e per la gioia che vi trova; essa conosce quindi Dio.23
È a questo, sembra, che si deve ridurre la famosa dottrina della carità come visione di Dio che ha stimolato la curiosità di alcuni commentatori.
Essa significa quindi, innanzitutto, che in questa vita non c'è visione di Dio accessibile all'uomo, fosse anche nell'estasi.
L'anima coglie Dio ma: amatum plus quam cogitatum, gustatum, quam intellectum.24
In altri termini, se l'amore ci fa conoscere Dio in ciò che ci rende simili a lui, la conoscenza che ci offre si riduce alla somiglianza divina che ci conferisce e alla gioia che ne proviamo.
Essere simile a Dio significa vederlo?
Certo, ma vederlo significa essergli simile25 e sentire la gioia di questa somiglianza infine ritrovata.
Non è poco, ma non è tutto.
È quindi inutile cercare nelle metafore usate da Guglielmo un senso misterioso che esse non hanno.26
Di qualunque immagine si serva, non vuoi mai dire che la carità ci da la conoscenza, la vista o la visione di Dio che qui sulla terra è rifiutata all'intelligenza.
Ciò che l'intelligenza non conosce, la carità lo conosce meno ancora nel senso intellettuale del termine.
Tutto ciò che Guglielmo vuol dire è che, in mancanza di una conoscenza che è e resta impossibile, l'amore la sostituisce, e ciò non significa dire che sia unica.
Non esistono specie o fantasmi che, trasformando il pensiero a somiglianza di Dio, gli permettano in questa vita di conoscerlo; la carità non ha il potere ne di crearli, ne di sostituirli.
Essa però produce, per mezzo dell'amore, nella volontà, quella assimilazione dell'anima a Dio che resta impossibile alla ragione in questa vita.
Questa unione delle volontà è quindi, nell'ordine dell'amore, l'equivalente di ciò che è l'unione del pensiero e dell'oggetto nella similitudine del fantasma.
E come la conoscenza risulta dalla similitudine del pensiero al proprio oggetto, la gioia risulta dalla conformità della volontà a quella del proprio oggetto.
Questa gioia è quindi in noi un certo modo di sentire Dio, una percezione affettiva della sua presenza.
La carità non conosce quindi Dio per una visione propriamente detta, ma lo sente per la gioia che essa le dona, e poiché è l'unico contatto con Dio possibile all'uomo in questa vita, non è del tutto improprio dire che l'unico nostro modo di conoscerlo è quello di sentirlo.
Abbiamo detto e ripetuto, come se la cosa fosse pacifica, che l'unione di volontà con Dio, realizzata dalla carità, si accompagna alla gioia e che questa gioia è anche il segno di quella unione.
Perché è necessariamente così?
Perché l'unione a Dio si realizza per mezzo dello Spirito Santo, che è il legame interno della Trinità divina, il suo amore, la sua beatitudine.
Ciò che caratterizza la posizione di Guglielmo, su questo punto, è la sua insistenza nel sottolineare l'identità dello Spirito Santo, donatore della grazia unificante, e della grazia, che è il dono dello Spirito Santo.
La distinzione tra il Donatore e il dono è implicata in ognuno dei suoi testi; essa lo è anche nell'antitesi tra donans et donum, due termini che costantemente si oppongono.
Tuttavia non è questa distinzione che lo interessa, ma, al contrario, l'identità costitutiva tra il donatore e il dono che rimane anche all'interno della loro distinzione.
Dispiace che Guglielmo non abbia scritto a questo riguardo un trattato di teologia e che non abbia definito ex professo la grazia creata, la grazia increata, le loro differenze e i loro rapporti; ma questo non era il suo scopo.
Un vero mistico privilegia, nella grazia, ciò che unisce piuttosto che ciò che divide ed è per questo che, pur distinguendo il donans dal donum, pone costantemente l'accento sul fatto che essi sono idem.
È proprio questa identità costitutiva tra la carità, dono di Dio, e lo Spirito Santo, suo donatore, che rende possibile il matrimonio mistico.
Lo Spirito Santo è l'amore comune del Padre e del Figlio, il loro bacio, il loro abbraccio.
Se quindi è presente nell'anima sotto forma di dono, la unisce a Dio con lo stesso bacio, con lo stesso abbraccio, quello che costituisce il matrimonio mistico stesso; ma lo fa solo perché è idem donans, idem donum.27
Ma un amore umano così trasfigurato dal dono dello Spirito Santo non è più semplicemente umano; è l'amore divino che orciai respira in lui; quindi, in qualche modo, è divinizzato.28
Questa unione trasformante conserva tra Dio e l'uomo tutta la distanza che deve separarli, perché, anche se si realizza nell'uomo, rimane l'opera di Dio.
Ciò che in Dio è unità consustanziale di natura, nell'uomo non è che il dono di una grazia; in Dio è un privilegio, nell'uomo è la condiscendenza divina.
Tuttavia è il medesimo, assolutamente il medesimo spirito.29
Si produce quindi, nell'anima dell'uomo, un profondo rinnovamento che la ristabilisce nella somiglianza divina.
Allora regna una vera unità tra la creatura e il creatore, ma una unità di similitudine: unitas similitudinis, che in nessun caso potrebbe diventare una unità di natura.
Essa tuttavia è sufficiente per trascinare con sé l'altra unità di somiglianza che è quella della beatitudine.30
Poiché Dio trova la propria beatitudine nell'amore della propria perfezione, essere uniti a lui per il dono che ci fa dell'amore che ha per se stesso, significa essere uniti a lui per il dono della sua beatitudine: Quid autem est absurdius uniri Deo amore, et non beatitudine.31
È per questo che la restaurazione della similitudine divina si accompagna, in questa vita, alle gioie del matrimonio spirituale, in attesa della beatitudine perfetta che accompagnerà la similitudine perfetta nell'ai di là.
Tutta la dottrina di Guglielmo narra quindi la storia della somiglianzàadivina, donata da Dio, sfigurata dal peccato, restaurata dalla grazia.
Infatti la perfezione dell'uomo consiste nell'assomigliare a Dio: et haec hominis est perfectio, similitudo Dei.
Creati a immagine di Dio, essere simili a Dio è anche il nostro unico fine: propter hoc enim solum creati sumus et vìvimus, ut Dea similes simus, cum ad Del imaginem creati simus.32
Questa è la nostra perfezione e noi abbiamo il dovere di tendervi, perché è un errore quello di non voler essere perfetti.
Si tratta quindi, per ogni uomo, di superare progressivamente tutti i gradi della somiglianza divina, fino al più alto, e questo programma è tutt'uno con quello che abbiamo già tracciato: superare tutti i gradi dell'amore fino al più alto.
Poiché Dio è carità, gli si assomiglierà solo amando.
La restaurazione della somiglianza divina sarebbe impossibile se il peccato originale l'avesse totalmente eliminata.
Ma non è così. Vi è infatti una prima somiglianza a Dio che nessuno può perdere finché vive e che rimane in lui come testimonianza della somiglianza più alta che ha perso.
Essa consiste nel fatto che l'anima è presente ovunque e contemporaneamente nel suo corpo, come Dio è presente ovunque, nella sua totalità e contemporaneamente, in tutto il creato.
E come Dio, senza cessare di essere semplice, opera effetti diversi nella natura, così, senza cessare di essere semplice, l'anima produce il movimento e la vita del proprio corpo, le sensazioni e le conoscenze.
Somiglianza indistruttibile, in quanto inscritta nella natura dell'uomo, ma che non suppone alcuno sforzo da parte nostra e non si accompagna quindi ad alcun merito.
Al di sopra della prima se ne trova una seconda, più vicina a Dio, perché dipende dalla nostra volontà.
Consiste nella virtù.
L'acquisizione della virtù ci rende simili alla perfezione di Dio; la perseveranza nella virtù ci rende simili alla sua eternità.
Al di sopra della seconda, se ne trova una terza, di gran lunga la più alta: « in tantum proprie propria, ut non jam similitudo, sed unitas spiritus nominetur ».
È di questa che Guglielmo ha detto che fa dell'uomo una sola cosa con Dio: « cum fit homo unum cum Deo ».
Da qui il grande scandalo suscitato in alcuni teologi, ma sappiamo che si tratta dell'unitas similitudinis.
Essa stabilisce - egli aggiunge - una « unitas spiritus »; in effetti l'idem spiritus, che è donans et donum, è allo stesso tempo l'amore che Dio ha per sé e quello che noi abbiamo per lui.
Andiamo oltre, con grande scandalo degli stessi teologi: essa non solo ci fa volere ciò che Dio vuole, ma ci rende impossibile volere altre cose.
Infatti, nella misura in cui regna in noi questa somiglianza, come potremmo volere il male, dal momento che la carità, per mezzo della quale noi vogliamo, è in noi il dono dell'amore con il quale il Bene, ama se stesso?
Lo Spirito Santo non fa qui che agire dall'esterno sulla nostra volontà; per mezzo della grazia è proprio la Carità stessa, cioè lo Spirito Santo stesso, che è in noi sotto forma di dono; è quindi proprio lui che è in noi questa unitas spiritus e che lo è tra noi e Dio, così come lo è tra il Figlio e il Padre.
In breve, in virtù di questo dono l'uomo, che è diventato un uomo di Dio, non merita di diventare Dio, ma, in una maniera che noi, d'altra parte, non sapremmo né concepire né esprimere, diviene per grazia ciò che Dio è per natura: quod Deus est ex natura, homo ex grafia.33
Bisogna interpretare questi testi alla luce della distinzione fondamentale tra la Carità increata e il dono della carità.
Anche se Guglielmo non lo ha fatto espressamente, si può attribuirgliela senza timore; un teologo di quella classe non scrive per i bambini del catechismo e non si ritiene obbligato a ricordare in ogni momento i principi più elementari della fede cristiana.
Ma in effetti si constata che Guglielmo ha posto e ricordato questa distinzione a più riprese; è proprio l'idem spiritus che è Dio e che è nell'uomo, ma in Dio è il Donatore, nell'uomo è solo il dono.
È opportuno inoltre ricordarsi, criticando questi testi, che la terza similitudine divina corrisponde a uno stato estatico.
Taluni si sono inquietati nel sentire Guglielmo dire che una tale similitudine rende l'uomo incapace di peccare.34
Sarebbe ancora più sorprendente dire che, nell'unione mistica, l'uomo può volere cose diverse da Dio.
Tuttavia è quanto bisognerebbe dire per contraddire Guglielmo su questo punto.
Infatti la suprema somiglianza dell'uomo a Dio non si produce se non quando la coscienza beata si trova, per così dire, presa nel bacio, nella stretta comune, nell'abbraccio del Figlio e del Padre, che è lo Spirito Santo: « cum in amplexu et osculo Patris et Filii, mediana quodam modo se invenit beata conscientia ».35
I censori di Guglielmo si sono quindi impauriti solo della propria esitazione.
Non avendo capito che la somiglianza perfetta, che egli descrive, è la stessa della visione beatifica o della breve estasi che porta l'anima al di sopra della propria condizione semplicemente umana, non hanno visto che ciò che essi consideravano panteismo non era altro che la descrizione di una unione mistica e beatificante dell'anima a Dio.
Nell'attesa del giorno della piena visione divina, più l'anima lavora a scoprire ciò che Dio è, meglio vede ciò che le manca e più si sforza di avvicinarsi, nella somiglianza, a colui da cui si è allontanata con la dissomiglianza.
La visione di Dio e la somiglianza a Dio procedono di pari passo, perché la visione di Dio è la somiglianza stessa nella carità: et sic expressiorem visionem expressior semper similitudo comitatur.36
E la somiglianza divina procede di pari passo con la beatitudine poiché al termine della propria perfezione essa ci fa essere non Dio, ma ciò che Dio è e ciò che la Beatitudine è: Quibus enìm potestas data est filios Dei fieri, data est potestas, non quidem ut sint Deus, sed sint tamen quod Deus est; sint sancii, futuri piane beati, quod Deus est, nec aliunde hic sancii, nec ibi futuri beati, quam ex Deo, qui eorum et sanciitas et beatitudo est.37
Indice |
1 | Vedi sopra, cap. III Schola caritatis |
2 | Sul secolo XII come aetas Ovidiana, vedi le pagine suggestive di C.H. Haskins, Thè Renaissance of thè Twelfth Century, Harvard University Press, Cambridge 1927, pp. 107-110 (tr. it. La rinascita del xii secolo. II Mulino, Bologna 1972, pp. 96-99). Il posto che allora occupava Ovidio è ben sottolineato da Giovanni di Salisbury, Metalogicon, in, 8, ed. C.C.J. Webb, Clarendon Press, Oxford 1929, p. 147: " Naso carmina. Cicero causas feliciter agit ". D'altra parte Ovidio stesso si è presentato, almeno due volte, come il maestro per eccellenza nell'arte di amare: Ars amatoria, II, 741-744; in, 809-812, ed. H. Bornecque, p. 59 e p. 89. Si vedrà, p. vili di quella edizione, che il manoscritto più autorevole è il Regius di Parigi, del x secolo, corretto successivamente nei secoli xi e xn. Ovidio è indicato da Guglielmo in termini assai chiari: " Nam et foedus amor carnalis foeditatis suae olim habuit magistros, ut ab ipsius foeditatis amatoribus et sociis, doctor artis amatoriae recantare cogere-tur, quod intemperantius cantaverat; et de amoris scribere remedio, qui de amoris carnalis scripserat incendio ", De natura et dignitate amoris. I, 2, P.L., 184, 381 A. L'allusione all'Aw amatoria e ai Remedia amoris è trasparente. È il De natura et dignitate amoris che è stato definito un " Anti- Nasonem": P.L., 184, 363-364. |
3 | De natura et dignitate amoris, i, 1, P.L., 184, 379 C. Ecco la formula: " Ars est artium ars amoris, cujus magisterium ipsa sibi retinuit natura, et Deus auctor naturae. Ipse enim amor a Creatore inditus, nisi naturalis ejus ingenuitas adulterinis aliquibus affectibus praepedita fuerit, ipse, inquam, se docet, sed docibiles sui, doci-biles Dei ( Gv 6,45 ) ". |
4 | Vedi E. Gilson, Introduction a l'elude de saint Augustin, Vrin, Paris 1929, pp. 165-166 (tr. it.. Introduzione allo studio di Sant'Agostino, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 157). |
5 | " Ideoque amissa doctrina sua naturali, opus jam habet doctore nomine, qui de beatitudine, quae naturaliter quaeritur amando, doceat admonendo, ubi, et quo, in qua regione, qua via quaeratur", De natura et dignitate amoris, I, 1, P.L., 184, 380-381. |
6 | " Amor ergo, ut dietimi est, ab auctore naturae naturaliter est animae humanae inditus; sed postquam legem Dei amisit, ab homine est docendus. Non est autem docendus, ut sit tanquam qui non sit; sed ut purgetur, et quomodo purgetur; et ut proficiat, et quomodo proficiat; ut solidetur, et quomodo solidetur, docendus est ", De natura et dignitate amoris, I, 2, P.L., 184, 381. L'allusione a Ovidio segue immediatamente: abbiamo bisogno di professori dell'amore divino, come l'amore carnale ha avuto i suoi. |
7 | Sulla vanità della filosofia: De natura et dignitate amoris, XIV, 41, P.L., 184, 404, Sugli uomini che vivono la vita di carità e che sono i veri saggi, op. cit., XIV, 42. P.L., 184, 405 B-C. Sulla società spirituale che formano tra di loro: op. cit., XIV, 43. P.L., 184, 405-406. |
8 | " Visus ergo ad videndum Deum naturale lumen animae, ab auctore naturae creatus, caritas est. Sunt autem duo oculi in hoc visu, ad lumen quod Deus est videndum naturali quadam intentione semper palpitantes, amor et rado ", De natura et dignitate amoris, VIII, 21, P.L., 184, 393 A. |
9 | Vedi sopra, nota 6. |
10 | Ricordiamo che questo metodo era suggerito ai commentatori dal testo di Cant 1,7: "Nisi cognoveris tè, o pulchra inter mulieres, egredere, et abi post vestigia gregum, et pasce haedos tuos ". Gregorio Magno vi lesse immediatamente un invito rivolto da Dio all'anima per conoscersi come fatta a sua immagine (Moralia, XVI, 21). Guglielmo ha inserito questo testo nel suo commentario ricavato da Gregorio: P.L., 180, 444-445. Per i testi ricavati da sant'Ambrogio, vedi sopra, cap. III, nota 27. Cfr. S. Agostino, De Trinitene, x, 9, 12. |
11 | " "Si", inquit, "ignoras tè, egredere", hoc est ideo a temetipsa egrederis, quia ignoras tè. Sed cognosce tè, quia imago mea es, et sic poteris nosse me, cujus imago es, et penes tè invenies me. In mente tua, si fueris mecum, ibi cubabo tecum, et inde pascam tè ", Guglielmo di Saint-Thierry, In Cantica Canficorum, I, P.L., 180. 494 A. " O imago Dei, recognosce dignitatem tuam; refulgeat in tè auctoris effigies. Tu tibi vilis es, sed pretiosa res es. Quantum ab eo defecisti cujus imago es, tan-tum alienis imaginibus infecta es … Adesto ergo tota tibi, et tota tè utere ad cogno-scendum tè, et cujus imago sis, ad discernendum et intelligendum quid sis, quid possis in eo cujus imago es ", ibid., 494 C-D. Guglielmo stesso all'inizio di uno dei suoi più importanti scritti, ha riallacciato il Nosce teipsum cristiano al suo antico precursore: " Pertur celebre apud Graecos Ddphici Apollinis responsum: "Homo, scito teipsum". Hoc et Salomon, imo Christus in Canticis: "Si non, inquit, cognoveris tè, egredere" ( Ct 1,7 ). Qui enim non immoratur in eis quae sua sunt, pur sapientiae contemplationem, ingreditur necessario in aliena per curiositatis vanitatem ", De natura corporis et animae, prologo, P.L., 180, 695-696. Sul Scito teipsum come contrario alla curiositas, vedi sopra. Appendice i. |
12 | "Et haec est imago et similitudo Dei in homine; talis vel tanta, qualis vel quanta esse potest in tam dissimili materia. Similitudo quippe ista ratio est, qua distat homo a pecore. Dei enim non reminisci, pecoris est; reminisci, non ad intelligendum, plus aliquid pecore, sed minus homine est; reminisci ad intelligendum, hominis est; intelligere usque ad amandum, vel amando fruendum, jam hominis perfectae rationis est, siquidem pia memoria cito clarescit in quemdam intellectum de Deo, vel rationalem cogitationem: purus intellectus, seu cogitatio rationabilis, statim calescit in amorem, amor vero per affectum boni continuo summi boni induit imaginem, talem vel tantam, qualis vel quantus ipse est ", Guglielmo di Saint-Thierry. In C antica Canticorum, i, P.L., 180, 503 C-D. |
13 | " Etenim cum in faciem novi hominis spiraculum vitae, spiritualem vim, Ìd est intellectualem, quod sonat spirano et spiraculum; et vitalem, id est animalem, quod sonat nomen vitae, infudit, et infundendo creavit; in ejus quasi quadam arce vini memorialem collocavit, ut Creatoris semper potentiam et bonitatem memoraret: sta-timque et sine aliquo morae interstitio, memoria de se genuit rationem, et memoria et ratio de se protulerunt voluntatem. Memoria quippe habet et contine! quo ten-dendum sit; ratio, quod tendendum sit; voluntas tendit: et haec tria unum quiddam sunt, sed tres efficaciae, sicut in illa summa Trinitate una est substantia, tres perso-nae ", Guglielmo di Saint-Thierry, De natura et dignitate amoris, n, 3, P.L., 184, 382 C-D. |
14 | De natura et dignitate amwis, XII, 35-37, P.L., 184, 401-403. |
15 | La più bella espressione di questo sentimento che io conosca nell'opera di Guglielmo si trova nel De contemplando Deo, proemio, P.L., 184, 365-367. Queste pagine contengono, in un'ammirevole forma lirica, un riassunto quasi completo della sua dottrina. Lette queste, non è necessario leggere nient'altro di Guglielmo. In nessun altro luogo sono stati riletti misticamente e con maggior successo i più familiari temi agostiniani. |
16 | " …jam frequentes et improvisae theophaniae et sanctorum splendores animam continuo laborantem desiderio incipunt refocillare, et illustrare ", De natura et dignitate amoris, iv, 10, P.L., 184, 386 C. Questa espressione è una di quelle, molto rare, che tradiscono un influsso diretto di Dionigi su Guglielmo. Si confronterà anche: In Cantica Canticorum, il, P.L., 180, 528 C, con l'etimologia della parola Deus proposta da Giovanni Scoto Eriugena, De divisione naturae, i, 12, P.L., 122, 452 C. È d'altra parte esatto che il testo della Epistola aurea, il, 3, 16, P.L., 184, 348 &D, lasci intravedere delle risonanze chiaramente dionisiane; diciamo pure, con P. Pourrat, La spiritualité chrétìenne, n, Gabalda, Paris 1928, pp. 194-195, eriugeniane. Tuttavia non sono riuscito a ritrovare la fonte ne in Dionigi ne in Eriugena. Pourrat sembra esser stato più fortunato e speriamo che, in una nuova edizione del suo libro, voglia indicarle. |
17 | La più completa esposizione della iniziazione alla carità che ci abbia lasciato Guglielmo si trova nell'Epistola aurea, della quale in realtà costituisce l'oggetto. Se ne troverà il riassunto dettagliato in M.M. Day, art. cit. |
18 | De natura et dignitate amoris, n, 3, P.L., 180, 382 B. |
19 | De contemplando Deo, IV, 9, P.L., 184, 372. |
20 | Op. cit., VII, 14, P.L., 184, 375 A |
21 | Cfr. sopra, cap. i, nota 20 |
22 | In Cantica Canticorum, i, P.L., 180, 496 D, 498 C. In Romanos, V, P.L., 180, 638 A-B. Speculum fidei, P.L., 180, 392 B-C. |
23 | " Cumque efficitur ad similitudinem facientis fit homo "Deo affectus", hoc est cum Deo unus spiritus, pulcher in pulchro, bonus in bono: idque suo modo, secundum virtutem fidei, et lumen intellectus et mensuran amoris, existens in Deo per gratiam quod ille est per naturam. Nam et cum nonnunquam superabundat gra-tia usque ad certam de Deo, et manifestala experientiam rei, fit repente sensui illuminati amoris modo quodam novo sensibile, quod nulli sensui corporis sperabile, nulli rationi cogitabile, nulli intellectui extra intellectum illuminati amoris fit capa-bile, ubi homini illi Dei non est aliud de Deo sentire quam per bonae experientiae affectum similitudinem ejus contrahere, secundum qualitatem et sensae speciei et sentientis amoris. Sicut enim, in rebus per corpus sensibilibus, sensus est sentiendo per quamdam mentis phantasiam in ipsam mentem contrada quaedam sensae rei similitudo, secundum qualitatem sensus sentientis et rei sensibilis, ut, verbi grada, si ad sensum pertinet videndi quod sentitur, videri omnino non possit a vidente, si non prius visibile ejus per similitudinem cujusdam phantasmatis formetur in anima videntis, per quam transformetur sentiens in id quod sentitur, sic et multo magis idem ope-ratur visio Dei in sensu amoris quo videtur Deus: siquidem et in ilio corporearum sensu rerum, nisi cum sensu pariter etiam amor operetur, sensus ipse vix ad ali-quem pervenit effectum, quia refugit continuo sentiens, si non aliquo amoris appe-titu adhaereat rei quae sentitur. In visione vero Dei, ubi solus amor operatur, nullo alio sensu cooperante, incomparabiliter dignius ac subtilius omni sensuum imagina-tione: idem agit puritas amoris ac divinus affectus, suavius afficiens, fortiusque at-trahens, et dulcius contìnens sentientem, totumque et mente et actu in Deum tran-sfundens fideliter amantem, et confortans et conformans, et vivificans ad fruendum ", GugUelmo di Saint-Thierry, In Cantica Canticorum, i, P.L., 180 505 C-506 A. Un'esposizione molto simile a quella del commento In Cantica Canticorum si legge nelle Meditativae orationes, in, P.L., 184, 213. Cfr. Speculum fidei, P.L., 180. 390D-391 A. |
24 | In Cantica Canticorum, i, P.L. 184, 507 C. |
25 | " Domine, Deus noster, qui ad imaginem et similitudinem tuam creasti nos, scilicet ad tè contemplandum teque fruendum; quem nemo usque ad fruendum con-templatur, nisi in quantum similis tibi efficitur; summi boni species, quae rapis omnem animam rationalem desiderio tui, tanto ad tè ardentiorem quanto in se mun-diorem, tanto autem mundiorem quanto a corporalibus ad spiritualia liberiorem, libera a servitute corruptionis id quod tibi soli deservire debet in nobis, amorem nostrum. Amor enim est qui, cum liber est, similes nos tibi efficit in tantum, in quantum nos tibi afficit sensus vitae, quo tè sentit ", Guglielmo di Saint-Thierry, In Cantica Canticorum, praefatio, P.L., 180, 473 C. Cfr. P.L., 180, 479 D-480 A. " Videre namque ibi seu cognoscere Deum, similem est esse Deo; et similem ei esse, videre seu cognoscere eum est. Haec cognitio perfecta, vita erit aeterna, gaudium quod nemo tollet habenti ", Speculum fidei, P.L., 180, 393 C. |
26 | Si troverà un'abbondante raccolta di queste metafore in P. Rousselot, Pour l'histoire du problème de l'amour au moyen àge, appendice il, Aschendorff, Munster 1908, pp. 96-102. |
27 | " In hoc siquidem fit conjunctio illa mirabilis, et mutua fruitio suavitatis, gau-diique incomprehensibilis, incogitabilis illis etiam in quibus fit, hominis ad Deum, creati spiritus ad increatum. Qui Sponsa dicuntur ac Sponsus, dum verba quaerun-tur quibus lingua hominis utcumque exprimi possit dulcedo et suavitas conjunctio-nis illius, quae non est alia quam unitas Patris et Filii Dei, ipsum eorum osculum, ipse amplexus, ipse amor, ipsa bonitas, et quidquid in unitate illa simplicissima commune est amborum. Quod totum est Spiritus sanctus, Deus, charitas, idem donans, idem et donum. Ibi etenim comparai se sibi ille amplexus, et illud osculum, quo cognoscere incipit Sponsa sicut et cognita est ", In Cantica Canticorum, i, P.L., 180,506B-Q |
28 | " Sed amoris dilatatus sinus, secundum magnitudinem tuam se extendens, dum àmat tè, vel amare affectat quantus es, incapabilem capit, incomprehensibilem com-prehendit. Quid vero dicimus: capit? Quin potius amor ipse, hoc est quod tu es; Spiritus Sanctus tuus, o Pater, qui a tè procedit et Filio, cuna quo tu et Filius unus es. Cui cum meretur affici spiritus hominis, spiritus spiritui, amor amori, amor huma-nus divinus quodammodo efficitur; et jam m amando Deum homo quidem est in opere, sed Deus est qui operatur. Non enim Paulus, "sed gratia Dei" secum ( 1 Cor 15, 10 ) ", In Cantica Canlicorum, i, P.L., 180, 508 A-B. |
29 | " Amplexus iste circa hominem agitur, sed supra hominem est. Amplexus ete-nim hic Spiritus Sanctus est. Qui enim Pattis et Filii Dei communio, qui charitas, qui amicitia, qui amplexus est; ipse in amore Spensi ac Sponsae ipsa omnia est. Sed ibi majestas est consubstantialis naturae, hic autem donum gratiae; ibi dignitas, hic autem dignatio; idem tamen, idem piane Spiritus ", In Cantica Canticorum, n, P.L., 180, 520 B. |
30 | " Qui autem scrutatur corda, scit quid desiderai Spiritus… Estque in eo quae-dam docta ignorantia, docta a Spirita Dei, qui adjuvat infirmitatem nostram, exer-cendo humilians, et humiliando formans et conformans hominem vultui quem re-quirit, donec renovatus ad hnaginem ejus qui creavit eum, per unitatem similitudi-nis incipiat esse filius, qui semper sit cum patre, cujus sint omnia quae patris, sunt… ", In Epistola ad Romanos, v, P.L., 180, 638 C-D. Cfr. Speculum fidei, P.L." 180,393A-B. |
31 | De contemplando Deo, vm, 16, P.L., 184, 375 D. Vedi i numeri 16-17 per in tero. |
32 | Epistola aurea, n, 3, 16, P.L., 184, 348 C. |
33 | Epistola aurea, II, 3, 16, per intero, P.L., 184, 348-349. Saremmo sufficientemente autorizzati a interpretare la divinizzazione dell'uomo come una unitas simili-tudinis dai testi citati in precedenza (nota 30); ma la stessa Epistola aurea lo dichiara con termini propri: "Unde bene dicitur, quod tunc piene videbimus eum siculi est, cum similes ei erimus ( 1 Gv 3,2 ); hoc est erimus quod ipse est ", Op. cit., II, 15, P.L., 184, 348 B. È possibile interpretare nel medesimo senso le analoghe espressioni del continuatore di san Bernardo, Gilberto di Hoyland, In Cantica Canticorum, III, 4, P.L.,. 184, 19. L'espressione: " ipsa (anima)… non est nisi ipse " deve essere spiegata con l'" in similem absorbetur qualitatem " che precede; è ancora un'identità di somiglianzà. E questa espressione risale, a sua volta, a san Bernardo: Dil TX, 28, in, 143. Segnalo il testo di Gilberto perché A. Combes mi ha detto che esso aveva una storia, cioè che gli erano state " fatte delle storie ". Semplice riflesso di quelli di san Bernardo e di Guglielmo, non meritava ne questo onore ne questi rimproveri. |
34 | P. Pourrat, La spiritualité chrétienne, n, Gabalda, Paris 1928, p. 194: " Cett& explication de l'unite de l'homme parfait avec Dieu a une saveur panthéiste, que l'incertitude du texte de la Lettre, remarne sans doute, ne parvient pas a lui eniever tout a fait ". Non conosco nulla che giustifichi l'ipotesi di questo rimaneggiamento. Inoltre, se si coglie un sapore panteista nella formula: "dò che Dio è per natura, l'uomo lo è per grazia ", si renderà difficile trovare testi mistici soddisfacenti. Forse non si confonde qui essere " ciò che Dio è " con " essere Dio "? Guglielmo li ha accuratamente distinti; essere ciò che Dio è, è essere Dio a modo di somiglianza. |
35 | Epistola aurea, n, 3, 16, P.L., 184, 349 B |
36 | Epistola aurea, n, 3, 18, P.L., 184, 350 B. |
37 | Epìstola aurea, u, 3, 15, P.L., 184, 348 B |