Francesco Fonti |
La famiglia di Francesco era numerosa, come quelle dei bei tempi andati, e moralmente parlando era anche piuttosto "conservatrice"; apparteneva a quel "vecchio Piemonte" duro e spartano che entrava a testa alta nell'era industriale senza mai perdere di vista i valori della tradizione.
Solo alle novità tecniche venivano riservate le attenzioni degli spiriti moderni e innovatori: per il resto niente "grilli per la testa", ma "andare avanti e lavorare duro".
Luigi Fonti e Domenica Ferino si sposarono nel 1907 ed ebbero quattro figli: Giuseppina ( 1908 ), Francesco ( 1909 ), Giovanni ( 1911 ) e Pietro ( 1913 ).
La loro era una famiglia molto riservata, perfino un po' chiusa nei confronti del vicinato, ma questa era una condizione comune a gran parte della piccola borghesia torinese.
Le relazioni sociali, i rapporti interpersonali … tutto era improntato ad una rigida etichetta.
Il padre di Francesco era un "self made man", come si direbbe oggi, dotato di un grande fiuto per gli affari, ma anche un piemontese di saldi principi al quale Torino, la grande città appena uscita dalla rivoluzione industriale di fine '800, appariva da un lato piena di promesse e dall'altro gravida di oscure "minacce", specie per le nuove generazioni ( massoni e positivisti da anni andavano diffondendo una cultura fortemente laicista ).
La madre Domenica proveniva da Ciriè e anche lei, essendo abituata alla gente schietta di campagna, non sempre si trovava in sintonia con le abitudini della grande metropoli.
I due coniugi erano molto uniti ( il marito, disegnatore e calligrafo provetto fece numerosi ritratti alla moglie, che ancora oggi colpiscono per bellezza e finezza esecutiva ), ma un destino crudele li avrebbe presto separati.
Mio padre era del 1880 e mia madre del 1881: lei è morta praticamente centenaria nel 1981, mancava qualche mese al compimento del secolo.
Mio padre, al contrario, è scomparso in età relativamente giovane, a 56 anni.
Correva l'anno 1936. ( P. Fonti )
Nella casa di corso San Maurizio 75, vicino al Po, vivevano anche i nonni patemi; dunque in tutto si contavano ben 8 persone sotto lo stesso tetto, proprio come accadeva nelle "famiglie patriarcali" dei paesi di campagna.
Giovanni Fonti, il padre di Luigi, veniva dalla Svizzera, era un abile modellatore meccanico e si era guadagnato da vivere lavorando nelle officine del Regio Esercito.
La nonna Adele, colonna spirituale della famiglia, era di origine astigiana e possedeva una solida preparazione religiosa, acquisita in gioventù, quando aveva svolto la mansione di domestica presso un prete anziano.
La sua forte devozione - nutriva una venerazione particolare per il Beato Cafasso - la portava quasi ogni mattina a percorrere, ovviamente a piedi, il tragitto che separava l'appartamento di Corso Maurizio ( a due passi dal Po ) dalla Consolata, dove prendeva Messa chiedendo a Dio di proteggere i cari congiunti, ma in particolare il figlio Luigi sul quale gravava la responsabilità di mantenere l'intera famiglia. .
L'atteggiamento di forte riservatezza rispetto alla città, era compensato dall'intesa affettiva: i rapporti tra i genitori ed i nonni patemi erano pervasi da un grande calore umano che veniva alimentato dal fervore religioso.
Fu la nonna ad insegnare ai nipoti a pregare; tuttavia non era la sola a coltivare la fede.
Secondo quanto la madre avrebbe più tardi riferito ai figli.
Luigi Fonti, nei primi anni del fidanzamento, vedendo la futura moglie accostarsi con regolarità alla comunione domenicale la elogiava con queste parole: "Brava, fai bene … più vogliamo bene al Signore e più ci vorremo bene fra di noi".
In quel tempo, essendoci molti più scrupoli di oggi, la Comunione non era praticata con grande frequenza.
Chi si accostava al Sacramento in modo assiduo, non poteva che provenire da un ambiente moralmente sano.
I valori che si respiravano in famiglia erano genuini, spontanei, privi di qualsiasi innaturale forzatura, anche se esteriormente si palesavano con atteggiamenti di prudenza perfino eccessiva nei confronti dei bambini che avvicinavano i fratelli Fonti.
In questo clima i ragazzi pativano un certo isolamento dai loro coetanei, eppure vivevano un'infanzia assolutamente serena proprio perché in casa regnava l'autentico amore cristiano.
Una situazione opposta a quella di certe famiglie moderne, dalle quali i ragazzi si allontanano per cercare nel "branco" o nella "banda", la comprensione e l'affetto che litigi, separazioni e divorzi sottraggono alla famiglia d'origine.
Noi potevamo osservare i ragazzi, fuori, nel cortile, giocare e ridere in compagnia, ma i nostri genitori non ci permettevano di condividere la loro amicizia.
Però stavamo bene, proprio perché l'ambiente domestico era molto accogliente.
I "quattro scoiattoli" allevati nell'alloggio di corso S. Maurizio si aiutavano a vicenda: in particolare si era creato una specie di "tandem" Giuseppina-Francesco.
Tra loro due e 'era solo un anno di differenza, ma com'è noto, nell'infanzia, le bambine maturano prima e Giuseppina divenne, in un certo senso, la confidente di Francesco.
Io invece andavo molto d'accordo con Giovanni e, malgrado la differenza d'età, quando la gente ci vedeva camminare insieme, ci scambiava per gemelli. ( P. Fonti )
Mamma Domenica, tuttavia, covava in cuore un grave cruccio: la salute di Francesco.
Il bambino, infatti, a differenza di Pietro e Giovanni pieni di forza e vitalità, cresceva gracile, pallido e magro.
Inoltre parlava assai di rado, rasentando il mutismo.
Anche in questa circostanza più della psicologia poté l'affetto.
La sorella Giuseppina, dotata fin dalla più tenera età di un raro equilibrio interiore, aveva intuito la natura del problema ( come solo fratelli e sorelle possono fare ), instaurando con Francesco un saldo legame affettivo che durerà tutta la vita e permetterà al bimbo di uscire con successo dal dedalo delle sue paure.
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