Francesco Fonti |
Luigi Fonti pretendeva che i figli si avvicinassero alle responsabilità dell'azienda familiare dopo un'adeguata "gavetta" in officina.
Non ci vedeva bene nel ruolo di operai dipendenti, così come non pensava che i nostri studi sarebbero stati tali da permetterci di sfondare in qualche libera professione.
Questo spiega l'apprendistato ed i corsi serali alla Romi: aldilà della fabbrichetta suddetta, non e 'erano altre prospettive per noi. ( P. Fonti )
Così, al compimento del dodicesimo anno d'età, impose a ciascuno dei tre pargoli un anno di "bassa manovalanza": dovevano trasportare il legname di scarto, aiutare il segantino alla macchina ecc.
L'operaio addetto alla sega a nastro aveva ovviamente il compito di tagliare le tavole, ma da queste, a motivo della lunghezza, sporgeva una "coda" che andava trattenuta e spostata a seconda delle esigenze.
In ciò consisteva il mestiere del "tirapiedi" che, posto alle spalle dell'operaio, a seconda dei segni fatti con la mano dal medesimo, direzionava ora a destra ora sinistra la tavola: quando si era arrivati a metà del taglio, l'aiutante passava dalla parte opposta a ricevere la sezione già lavorata.
I giovani d'oggi non possono capire, ma allora certi lavori erano davvero faticosi.
Fu un anno di apprendistato molto duro: tuttavia questi operai, con cui fummo messi a stretto contatto, non erano così grossolani come si potrebbe credere.
Ci sono certi impiegati assai più intrattabili.
Ogni tanto, nelle pause di lavoro, ci mandavano a comprare i sigari o il prosciutto.
Essendo una ditta a conduzione familiare non si facevano tante questioni.
Dopo il periodo da "tirapiedi" passammo direttamente a manovrare la sega a nastro. ( P. Fonti )
Curiosamente Francesco, dopo l'apprendistato, fu assegnato alla profilatrice, il macchinario più pericoloso, quello che, nell'ambito della carpenteria, contava il maggior numero di feriti sul lavoro.
Poi, le leggi sull'infortunistica disciplinarono l'utilizzo di questo genere di attrezzature, ma allora non si badava ancora alla sicurezza e alle protezioni.
Si trattava di un albero meccanico che usciva dal piano di lavoro roteando a 3000 giri: ad esso era fissata una lama.
Adattando il pezzo di legno, questa lama poteva sagomare cornici e profili di vario genere.
Francesco dette ottima prova di sé e non riportò alcun danno: era sempre molto concentrato sul lavoro.
Di lì a poco, la produzione del laboratorio passò dalla semplice falegnameria alla carpenteria metallica, in quanto molti attrezzi ginnici andavano acquisendo alcune parti in metallo ( gambe, sostegni, telai in alluminio o bronzo ) e le competenze dei giovani eredi furono adattate di conseguenza.
Ma Luigi Fonti già intravedeva nel secondogenito una particolare attitudine al "comando".
Perciò Francesco abbandonò l'apprendistato in fabbrica proprio mentre avveniva il passaggio alla carpenteria metallica e quindi non condivise con Pietro e Giovanni questa nuova esperienza di lavoro.
Delle faccende metallurgiche ci occupavamo io e Giovanni, Francesco badava ai clienti.
Il nostro era un lavoro massacrante: dopo 4 ore di fonderia uscivamo dall'officina distrutti dalla fatica e dalle vampate di calore provenienti sia dai forni che dalle "conchiglie", gli stampi nei quali veniva versato il bronzo.
Questo, a differenza dell'alluminio che fonde a soli 600 gradi, creava grandi difficoltà, considerati i circa 1000 gradi richiesti per la fusione.
Francesco aveva ormai abbandonato i lavori manuali, pur essendo molto versato in alcuni settori tecnici: tutta la parte elettrotecnica del nuovo laboratorio, infatti, l'aveva seguita lui. ( P. Fonti )
Mentre i due fratelli minori venivano "iniziati" ai segreti della saldatura, della fusione ecc., Francesco cominciò ad essere edotto nella parte amministrativa e a trattare coi direttori di banca.
Questo fu un bene, perché quando il padre morì nel '36, la responsabilità finanziaria dell'azienda ricadde sulle sue spalle.
Per dare un'idea dell'educazione al lavoro impartita dal capofamiglia, bisogna tenere a mente che i fratelli Fonti, nella settimana lavorativa ( che allora comprendeva anche il sabato ), univano all'apprendistato diurno i corsi serali seguiti alla Romi.
La fabbrica e la scuola occupavano quasi interamente le loro giornate.
Il "gioco", quando c'era, era basato su esperimenti di chimica ed elettrotecnica che papa Luigi favoriva in ogni modo: Giovanni, il "genio" della famiglia, possedeva un piccolo laboratorio chimico dove praticava la alluminotermia e l'arte saponaria, Francesco armeggiava con radio e trasmittenti, Pietro con le pile di Grenet ed i trasformatori Tesla.
Il materiale scartato dagli operai veniva riciclato per costruire trampoli e monopanini.
In quest'ottica, anche i momenti di svago assumevano una valenza formativa, quasi che il padre, prevedendo i grossi pesi che presto sarebbero gravati sui tre giovani, volesse in qualche modo "indurirli" nel carattere.
Ciò non toglie che, a costo di grandi sacrifici, egli esigesse per i figli uno "stile" ed un'eleganza in linea con quel mondo imprenditoriale di cui avrebbero dovuto far parte.
Per certe cose non badava a spese.
Basti pensare che nel 1927, durante la costruzione del transatlantico Rex, ci portò a visitare i cantieri navali e volendo "dare un tono " alla cosa, affittò una berlina con tanto di autista per gli spostamenti tra Genova e Sestri Levante.
Non fu un viaggio di piacere, ma d'istruzione: abbiamo avuto modo di osservare da vicino le maestranze al lavoro.
Nonostante l'incipiente crisi del '29, mio padre teneva moltissimo al nostro modo di presentarci in pubblico e perciò, congedato uno zio di Ciriè che per anni ci aveva confezionato degli abiti piuttosto modesti, decise di affidarsi ad una sartoria di Piazza Castello.
Questa ci confezionava un abito a testa ogni due anni: erano di ottima fattura. ( P. Fonti )
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