Evidenza di un amore |
8 - Secondo una antica leggenda, Abbegar V, re di Edessa dal 15 al 50 dopo Cristo, colpito dalla lebbra, sentì parlare dei prodigi operati da un profeta di nome Gesù.
Allora mandò a Gerusalemme un pittore perché gli facesse un ritratto e gli consegnasse una supplica che diceva: "Abbegar, re di Edessa a Gesù Cristo eccellente medico in Gerusalemme, salute.
Ho saputo di te e delle guarigioni che operi senza medicamenti, raccontano che fai vedere i ciechi, mondi i lebbrosi e persino risusciti i morti.
Io ho pensato che, o tu sei figlio di Dio, che solo può operare queste cose, oppure sei tu stesso Dio.
Perciò, ti prego di venire a mondarmi dalla lebbra e a stabilirti presso di me.
Infatti dicono che i Giudei vogliono farti del male, la mia città è piccola, ma potrà bastare a te e a me per vivere in pace."
Il bravo Anania, così si chiamava il pittore, consegnò la lettera, ma per quanto provasse non riusciva ad eseguire il ritratto.
Gesù, intuendo il disappunto, impresse miracolosamente il suo volto su un asciugatoio e lo inviò al re, che fu battezzato e guarì dalla lebbra quando giunse a Edessa l'apostolo Taddeo.
L'immagine miracolosa fu esposta nel punto più bello della città, venerata da tutto il popolo divenuto cristiano.
La leggenda di Abegar è forse, pur colorata con devota fantasia, la vera storia della Sindone.
È narrata da antichi autori e fa parte del Sinassario, un arcaico testo liturgico che si leggeva per la festa del sacro Mandilion di Edessa.
Il Mandilion era un'immagine miracolosa detta Teoteuktos, che vuoi dire fatta da Dio o Akeropta, cioè non fatta da mano d'uomo, che molti storici ritengono fosse proprio la Sindone.
I primi versi del Sinassario cantavano infatti: Su una Sindone, perché vivente, hai impresso le tue sembianze e perché morto, vestisti ultima la Sindone.
Era forse il carattere misterioso dell'immagine sindonica, con l'inspiegabile incongruenza del negativo a meravigliare i cronisti di allora.
Per questo la leggenda diceva che neppure il pittore del re poteva eseguire un ritratto così, dove le luci sono scure e le ombre diventano chiare.
La storia della Sindone ha origini lontane.
Leggiamo nel Vangelo di Marco: "Venuto mezzogiorno si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, alle tre Gesù gridò con voce forte: Eioì, Eioì, lema sabactani, che significa Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Poi Gesù, dando un forte grido, spirò.
Allora il Centurione, vistolo spirare in quel modo, disse: Veramente quest'uomo era Figlio di Dio.
Sopraggiunta la sera, perché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d'Arimatea, membro autorevole del Sinedrio, che aspettava anche lui il Regno di Dio, andò coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Gesù.
Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il Centurione, lo interrogò da quanto tempo fosse spirato.
Informato dal Centurione, concesse la salma a Giuseppe.
Egli allora calò Gesù dalla Croce e, avvoltolo in un lenzuolo che aveva comprato, lo depose in un sepolcro nuovo scavato nella roccia." ( Mc 15,42-47 )
In greco e in latino, lenzuolo si dice sindone.
L'evangelista Matteo precisa, che si trattava di una sindone bianca, nuova, mai usata prima. ( Mt 27,59 )
Giovanni, l'apostolo prediletto, aggiunge; "C'era anche Nicodemo, quello che in precedenza era andato da Gesù di notte e portò una mistura di mirra ed aloè di circa 100 libbre.
Essi presero il corpo di Gesù e lo avvolsero nelle bende insieme con gli aromi, com'è usanza seppellire presso i Giudei". ( Gv 19,39-40 )
Il rituale funebre dei Giudei al quale accenna l'Evangelista avrebbe richiesto ben più tempo di quanto ne disponessero i pochi fedeli rimasti sul Golgota nel tramonto di quel tragico Venerdì Santo.
Normalmente i morti si ponevano nel sepolcro avvolti semplicemente nella loro veste, con il volto coperto da un piccolo sudario, oppure, per chi poteva disporre, in una sindone o lenzuolo funebre.
Alcune antiche sepolture hanno conservato cadaveri avvolti in varie sindoni sovrapposte, ma, secondo quanto prescriveva la legge del lutto, i giustiziati non potevano essere sepolti con più di una sindone.
Il corpo del defunto doveva essere accuratamente lavato e rasato prima della sepoltura, nel caso di Gesù però mancò il tempo, infatti, dice il Vangelo di Luca: Già brillavano le prime stelle che annunziavano l'inizio del grande riposo del sabato, e perdipiù una discussa prescrizione legale vietava di lavare e rasare il corpo degli uccisi e dei giustiziati.
Giuseppe di Arimatea ottenne in fretta l'autorizzazione di dare onorata sepoltura al Maestro di Nazareth per sottrarlo alla fossa dei malfattori, considerata ultima dimora dei maledetti.
Gesù venne pertanto deposto dalla croce, portato al sepolcro nuovo che Giuseppe si era, fatto scavare proprio lì vicino e, essendo privo di vestiti, tirati a sorte dai soldati, avvolto nella sindone nuova, insieme ad una notevole quantità di mirra e di aloè, quasi trenta chili, portati da Nicodemo quali profumo e antisettico.
Il volto fu sicuramente deterso e un piccolo sudario fu legato intorno al capo per tener chiusa la bocca.
L'affrettata sepoltura fu completata con alcune semplici legature, forse attorno ai piedi e alle ginocchia, intorno alla vita e intorno al collo, perché non si disperdesse la mirra e l'aloè sparse con abbondanza intorno alla salma.
L'uso ebraico infatti non imponeva le strette fasciature delle sepolture egizie, alcune salme riportate alla luce nel cimitero degli Essemi, ad esempio, hanno le braccia incrociate e i gomiti liberi, non legati strettamente lungo il corpo al modo delle mummie.
Il pietoso trasporto della salma al sepolcro, attraverso una piccola entrata scavata, nella roccia, era normalmente compiuto dagli u mini.
Una foto recente lascia intravvedere sulla pianta del piede sinistro dell'Uomo della Sindone l'impronta di una mano; è forse quella di Nicodemo, o di Giuseppe d'Arimatea, o di Giovanni, l'unico discepolo rimasto presso la croce?
I Vangeli annotano che le donne stavano a distanza, a osservare dove Gesù veniva deposto, rimandando il completamento della toeletta funebre al mattino del primo giorno dopo il sabato.
Così quel terribile Venerdì di morte si concluse quando una grossa pietra fu fatta rotolare davanti all'ingresso del Sepolcro.
Nell'oscurità di quella piccola grotta scavata vicino al Golgota, il bianco lenzuolo di Giuseppe d'Arimatea doveva, trasformarsi in una impressionante fotografia di sangue, in quella che Enrico Medi poté salutare come la più stupenda pagina sanguiscritta, autoracconto fedele e dinamico della Passione e Morte di Gesù Cristo.
I discepoli, dispersi dalla terribile esperienza di quella Parasceve, non avevano ancora compreso che Gesù doveva risorgere da morte, secondo le Scritture, come dice il Vangelo di Giovanni.
Infatti avevano cosparso il corpo con sostanze aromatiche per ritardarne la corruzione e si preparavano a completare con le donne i riti della sepoltura appena trascorso il sabato.
Ma qui cominciano gli sconvolgenti eventi della Pasqua di Risurrezione.
Giovanni, il discepolo che era stato testimone della sepoltura, annota alcuni particolari interessanti.
"Nel giorno dopo il sabato Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro.
Corse allora e andò da Simon Pietro e all'altro Discepolo, quello che Gesù amava e disse loro: Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto.
Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo e si recarono al Sepolcro, correvano insieme, tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al Sepolcro.
Chinatesi, l'ingresso era scavato in basso, vide le bende per terra, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel Sepolcro e vide le bende per terra e il Sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra, con le bende, ma ripiegato al suo posto.
Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al Sepolcro, e vide e credette". ( Gv 20,1-8 )
Giovanni infatti sapeva bene come era disposta la sepoltura del Signore e vedendo la Sindone vuota stesa per terra, con il Sudario ancora arrotolato e ripiegato al suo posto, capì che il corpo non poteva essere stato rapito, ma doveva essersi liberato miracolosamente dai lini funerari, senza scomporne la disposizione.
Perciò, vide e credette finalmente che cosa significava che Gesù doveva risorgere dai morti.
Un antico Messale mozarabico, di probabile derivazione bizantina, nella liturgia di Pasqua canta così: Pietro e Giovanni corsero al Sepolcro e videro nella Sindone le recenti impronte del morto che era risuscitato.
Fu verosimilmente Giovanni, colui che sotto la Croce aveva accettato di essere il nuovo figlio della Madre di Gesù, il naturale erede e quindi il custode della preziosa tela della Resurrezione.
Ma la Sindone non poteva venire esposta come trofeo, anzitutto perché ricordava troppo violentemente la tragedia della Passione e soprattutto per che la legge imponeva di distruggere con il fuoco tutto ciò che aveva avuto contatto con i morti.
Eventuali oggetti raccolti in un sepolcro macchiavano l'incolumità legale e venivano considerati compromettenti corpi del reato di profanazione.
La nascente comunità cristiana fu presto perseguitata e i suoi uomini ripetutamente dispersi.
Gerusalemme fu distrutta dai soldati di Vespasiano e di Tito nel 70 d.C. e anche la Sindone dovette conoscere i duri tempi delle peregrinazioni e del nascondimento.
Solo un antico scritto apocrifo, fiorito dalla pietà popolare del 2° secolo la ricorda come un noto oggetto di venerazione, poi per i primi secoli cristiani la Sindone è avvolta nel silenzio.
Forse in riferimento alla Sindone candida Papa S. Silvestro, appena cessate le persecuzioni, ordinò che la Messa venisse celebrata non su tovaglie di seta o dipinte, ma su un lino bianco, in ricordo di quello in cui fu avvolto il Signore.
Cirillo di Gerusalemme ricorda, intorno al 740, i testimoni della Risurrezione, la rupe rossa venata di bianco e la Sindone.
La leggenda di Abbegar, che abbiamo già ricordato, è forse la spiegazione fantasiosa di come la Sindone raggiunse Edessa, l'attuale Urfa in Turchia, la città celebre appunto per il santo Mandilion o Volto santo, venerato come immagine acheropita, cioè non fatta da mano di uomo.
Negli antichi documenti si parla sempre di Volto Santo perché probabilmente la Sindone era stata ripiegata, in otto e si mostrava ai fedeli solo il Volto del Signore, per non documentare troppo crudamente la sua terribile Passione in quei secoli di fede popolare entusiasta, ma ancora insicura.
Difatti il Santo Mandilion è sempre rappresentato come un'ampia tavola, rettangolare sulla quale è steso un ritratto centrale trattenuto da un ricamo di corde con chiodi e un antico testo lo qualifica tetradiplon, cioè piegato due volte in quattro.
Significativo è anche il fatto che le antiche copie del Mandilion riportano un Volto monocromo, color sepia, su tela bianca, proprio come la Sindone.
Il Sacro Mandilion scomparve quando il successore di Abbegar tornò all'idolatria.
Forse inseguiti dai soldati del nuovo re i cristiani riuscirono a nascondere il prezioso simulacro murandolo in una nicchia, appena prima di essere sopraffatti, forse uccisi.
Del Sacro Volto rimase vivo il ricordo, ma si perse ogni traccia, finché nel 525, durante occasionali lavori di restauro alle mura della città, esso riapparve fortunatamente intatto.
La devozione della miracolosa immagine acheropita del Salvatore, con quel suo fascino misterioso e inspiegabile si diffuse presto per tutto l'Oriente e condizionò tutta l'arte cristiana.
Nei primi secoli, superando persino le ben note proibizioni bibliche, i Cristiani delle Catacombe tentarono di raffigurarsi le sembianze mortali del Cristo e si ispirarono, in mancanza di documenti e per i rischi delle persecuzioni ricorrenti, all'arte imperiale.
Così abbiamo il Buon Pastore e altre raffigurazioni di Gesù che ricalcano variamente Apollo giovane e imberbe o un filosofo o un medico in toga.
Nel secolo IV si impone dappertutto un'immagine nuova del Cristo, che diventa ufficiale, rigorosamente fissa e dovunque viene imitata come originale, assolutamente credibile.
Costantino non voleva essere adorato come gli Imperatori prima di lui, che si facevano erigere statue e altari, per questo nel nuovo Impero, divenuto cristiano, si diffuse un'immagine canonica di Colui che solo doveva essere adorato e questa immagine sembra esplicitamente ispirata alla Sindone.
Infatti solamente un documento straordinario, riconosciuto come autentico e indiscutibile, di origine misteriosa e inspiegabile come la Sindone poteva imporre una tale svolta all'arte cristiana su tutto l'impero.
Le più antiche testimonianze in proposito sono concordi.
I sarcofaghi di S. Sebastiano e del Museo Lateranense in Roma, come quelli di Arie e di Sant'Ambrogio a Milano, databili intorno al 380, 400 d. C., così come gli antichissimi pantocratori di Santa Sofia a Costantinopoli, di Santa Caterina al Sinai, del mosaico oggi al Bargello, del Monastero di Dafni vicino ad Atene e innumerevoli icone, rilievi, dipinti, riproducono un volto dai capelli fluenti e avvolgenti divisi sulla fronte, con i baffi, la barba a due punte, i grandi occhi ineguali, gli zigomi accentuati in modo diverso, l'ampia fronte segnata da una linea trasversale.
Attenti studiosi di storia dell'arte hanno riscontrato almeno 20 particolari ricorrenti nell'arte cristiana antica che si ispirano alla Sindone.
Persino un piccolo ricciolo che spesso appare in mezzo alla fronte del Pantocrator richiama il Volto Sindonico, con il suo caratteristico epsilon di sangue interpretato erroneamente come una ciocca di capelli.
Questa nuova iconografia del Cristo è forse il documento più evidete della, conoscenza della Sindone in quei primi secoli.
Sant'Epifanie, in un sermone della fine del 500, qualifica questa nuova immagine come strana e non comune, burlandosi anzi della sua bruttezza che pur riesce ad imporsi ovunque.
Anche gli antichi, splendidi pantocratori, che campeggiano nelle ispirate absidi bizantine erano detti "apomasso", cioè "impronta", perché si ritenevano derivati dal Mandllion e riproducono un volto canonico, che sembra, ispirato alla Sindone.
Quando nel 639 gli Arabi occuparono Edessa, per non provocare sollevazione del popolo, tollerarono la venerazione del Sacro Volto, la cui festa si celebrava solennemente in tutto l'Oriente.
La venerazione della miracolosa immagine acheropita del Salvatore si diffuse anche a Costantinopoli e in Occidente.
L'eco di fatti miracolosi, come la liberazione dalle peste o l'allontanamento dei nemici provocò anzi un proliferare di copie di tale immagine che i pellegrini portavano come ricordo dei luoghi santi e che si esponevano nelle chiese per solennizzare la Liturgia della Passione.
Così nel Medio Evo si esponevano per devozione non meno di quaranta copie della Sindone, in ogni parte d'Europa e d'Oriente.
Forse era una copia del Volto Santo anche l'immagine di Cristo che S. Agostino di Canterbury portò a re come dono di Papa Gregorio, che a sua volta l'aveva portata con sé da Costantinopoli, ove era stato Legato Pontificio per alcuni anni.
A Costantinopoli la Sindone fu venerata per circa tre secoli, come risulta da cronisti, storici e pellegrini.
Nel 1092 l'Imperatore Alessio I invita Roberto di Fiandra a occupare Costantinopoli per evitare che le preziose reliquie della Passione cadano in mano agli infedeli.
Nel 1147 il re Luigi VII di Francia si reca a venerare la Sindone in occasione di un suo pellegrinaggio nei Luoghi Santi.
Roberto di Clary, cavaliere francese alla IV Crociata e testimone del sacco di Costantinopoli annoterà successivamente: "Tra gli antichi Monasteri c'era quello di Santa Maria di Blacherne, dove era conservata la Sindone in cui fu avvolto Nostro Signore.
Essa veniva esposta ogni venerdì, pendente e diritta, sicché si poteva vedere bene la figura del Signore.
Nessuno però sa, né greco né francese, dove essa sia andata a finire quando la città fu presa."
Nel 1202 infatti Costantinopoli era stata messa a ferro e fuoco e anche la Cappella imperiale fu profanata e saccheggiata.
La Sindone scomparve dalla chiesa di Santa Maria, nel quartiere occupato dai soldati francesi di Ottone De Laroche.
In quella stessa occasione i veneziani trafugarono i celebri cavalli di bronzo che l'Imperatore Augusto aveva trasferito da Alessandria a Roma, che Costantino aveva portato nella sua capitale sul Bosforo e che ornavano la facciata di S. Marco a Venezia.
Inutilmente il Vescovo Garnier, custode della Cappella Imperiale, esortò tutti i Crociati a restituire le reliquie saccheggiate.
Un cronista della Crociata annota: "Solo alcuni ricevettero bene l'esortazione, quello che nobili e villani tennero nascosto per sé fu molto e nessuno venne a saperlo".
La Sindone riapparirà qualche tempo dopo in Francia, proprio nelle terre dei De Laroche, presso una famiglia imparentata, con un inserviente del Vescovo Garnier.
Siccome era troppo pericoloso trattenerla privatamente, venne affidata al Vescovo di Besançon.
Scomparve nuovamente nel 1349, durante un furioso incendio che distrusse la Cattedrale e fu sostituita con una copia eseguita in modo maldestro, che sarà distrutta durante la Rivoluzione Francese.
La Sindone vera riappare a Lirey, presso Troyes, dove il Vescovo Pietro d'Arcis, nel 1389, ne proibì l'Ostensione, preoccupato sembra delle basse speculazioni operate ai danni dei pellegrini.
Clemente VII, Antipapa in Avignone, se ne occupa in due documenti, autorizzando l'Ostesione ai fedeli per scopo devozionale.
Nel 1453 la Sindone passò da Margherita di Charny, ultima erede di quella casata, ad Anna di Lusignano, moglie del Duca di Savoia Ludovico I, e da allora la preziosa reliquia appartiene alla Dinastia Sabauda, che la custodì a Chambery, capitale del Ducato, nella Sainte Chapelle, eretta appositamente nel 1502.
Solo occasionalmente, per ragioni di sicurezza in tempo di guerra, o per celebrare importanti eventi della Casa Savoia, la Sindone lascierà Chambery.
Si possono ricordare alcuni viaggi a Rivoli, a Pinerolo, a Nizza, a Vercelli, a Genova, a Milano, finché, nel 1578, Emanuele Filiberto deciderà di portarla a Torino, sua nuova capitale, per abbreviare il viaggio di S. Carlo Borromeo, Arcivescovo di Milano, che voleva venerarla per adempiere un voto.
Così Torino diventerà definitivamente la città della Sindone, che nel 1694 sarà riposta nel monumentale altare marmoreo sotto la cupola eretta da Guarino Guarini in una cappella del Palazzo reale adiacente al Duomo.
Da allora le estensioni si susseguirono con frequenza trentennale, per celebrazioni giubilari o per i matrimoni di Casa Savoia.
Nel 1698 la prima fotografia rivelerà l'insospettabile caratteristica negativa di quell'immagine evanescente e misteriosa.
Dal 1939 al 1946, per proteggerla dai rischi della guerra, la Sindone sarà nascosta a Montevergine, presso Avellino.
Nel 1969 verranno scattate le prime foto a colori, nel 1975 apparirà in diretta sulle televisioni di tutto il mondo e nel 1978 una estensione straordinaria per il 4° centenario della Sindone a Torino richiamerà quasi quattro milioni di visitatori e un'imponente équipe di studiosi d'ogni parte del mondo.
Così, attraverso persecuzioni e ruberie, incendi e saccheggi, incuria e devozione, rispetto e incoscienza forse è giunta sino a noi la più straordinaria delle reliquie, rivelata come eloquente testimonianza di sangue proprio in questo nostro secolo dell'immagine e della scienza.
Dopo aver parlato col mistero del suo silenzio a Gerusalemme, a Edessa, Costantinopoli, Lirey, Chambery e chissà in quante altre chiese cristiane rimaste ignote.
Una insperata conferma delle peregrinazioni della Sindone è data recentemente dalla palinologia o scienza dei pollini.
Max Frei, esperto medico legale svizzero, chiamato a Torino nel 1975 per autenticare le foto a colori scattate nel 1969, raccolse per curiosità su appositi adesivi sterili un po' di polvere della Sindone per esaminarla, come era solito fare, con i reperti di casi criminosi o polizieschi.
La sua meraviglia fu grande quando cominciò a classificare i microscopici pollini contenuti in quella polvere.
Ogni varietà di pianta infatti contiene uno spettro cromosonico individuale, differente per ogni specie, e da quelle piccolissime testimonianze si può leggere la provenienza di un reperto.
Vi trovò pollini e spore tipici della Palestina, della zona del Mar Morto, vicino a Gerusalemme, piante della costa mediterranea, dell'Anatolia e dell'attuale Turchia, dove sorge Edessa, di Costantinopoli, della Francia e dell'Italia.
Max Frei non era cattolico e non si preoccupava della Sindone come reliquia, ma piuttosto come importante documento medico legale della sofferenza e della morte del Giusto.
Entusiasta dei risultati di questa analisi del tutto casuale l'attento ricercatore svizzero ha ripreso l'esperimento dopo l'Ostensione del 1978, raccogliendo campioni di polvere da diversi punti della Sindone e l'analisi ha confermato i precedenti risultati.
"Lo spettro palinologico, scriveva Max Frei, comprende ora 57 nomi e permette di provare statisticamente il passato della Sindone.
Gli storici moderni ne hanno ricostruito i viaggi da Gerusalemme a Edes sa, a Costantinopoli, a Cipro, in Francia e in Italia, la palinologia è in grado di confermare questo itinerario.
Non ho trovato però pollini di piante che crescono esclusivamente a Cipro, quindi, o il Lenzuolo non ha mai fatto scalo in questa isola, durante il ritiro dei Crociati da Costantinopoli, oppure è rimasto chiuso nel suo scrigno e non fu esposto all'aria libera.
Due esempi molto belli di varietà botanica caratteristica sono la Onasma Siriacum e il Ioscriamus Aureus, specializzati nella vita sulle rupi e sui muri e le rovine.
Il loro polline si trova sulla Sindone e le stesse piante crescono ancora oggi sulle mura della vecchia Gerusalemme.
Siccome il Sacro Lenzuolo è sotto controllo da almeno cinque secoli, un eventuale falso avrebbe dovuto essere perpetuato nel Medio Evo e probabilmente in Francia.
In quell'epoca lo studio dei pollini non era conosciuto, come poteva un falsario procurarsi una tela di lino della Palestina già con indubbie difficoltà e impolverarlo oltre che in questa zona anche con polveri dell'Anatolia e di Costantinopoli?
Lo spettro pollinico quindi permette di escludere una falsificazione.
Posso affermare che sulla Sindone non ho trovato alcun elemento che debba valutarsi come controprova di un'età di circa 2000 anni.
Un polline molto bello, a suo dire, non ha ancora trovato una classificazione, nonostante Max Frei abbia consultato gli archivi scientifici di tutto il mondo.
Forse si tratta di una pianta antica oggi scomparsa, che potrebbe offrire nuovi elementi per datare scientificamente la Sindone.
Un'autorevole conferma è venuta dal Prof. Ettore Morano, libero docente e Primario di Anatomia Patologica.
Analizzando al microscopio elettronico a scansione alcuni fili prelevati da mummie del Museo Egizio abbiamo rilevato, scrive nel suo reperto, un quadro ultrastrutturale di superficie che usiamo definire assolutamente sovrapponibile a quello del filo della Sindone.
La straordinaria somiglianza con tele egizie, sicuramente databili a più di 2000 anni fa, pone una seria ipoteca sull'antichità del tessuto Sindonico.
Come si vede, l'indagine storica, la ricerca scientifica, gli esami di laboratorio, perfino la polvere depositata dal tempo, confermano la probabilità che la Sindone di Torino sia quella che avvolse il corpo di Gesù Cristo il tragico Venerdì Santo dell'anno 30 a Gerusalemme.
Ma una storia così complessa e problematica, l'incostante memoria dei secoli e la difficile concordanza di testimonianze e di dati impongono al credenti di affrontare il fenomeno Sindone con serietà, senza sentimentalismi preconcetti.
La Sindone può essere, e probabilmente è, quella di Gesù, i Cristiani la venerano come prezioso documento della sua Passione e Morte, ma non si può farne una questione di Fede.
Come già di fronte a Cristo, di fronte alla Sindone che, autentica o no, comunque lo ricorda, non è facile prendere posizione.
L'uomo moderno, maestro del sospetto, a tutto impone la teoria del sospetto, piuttosto che il vero, ricerca il verificabile, il sempre più verificabile, il mai abbastanza verificabile.
È fatale, e forse per decisioni che dovrebbero sconvolgere l'esistenza è giusto che sia così.
Da quasi un secolo, da quando cioè la fotografia rivelò per caso il mistero di quella "bruttezza che innamora", la scienza ha sottoposto la Sindone ad ogni genere di esami, di misurazioni, di prove per quelle conferme che la fede dei semplici non esige.
Forse per confortare questa fede dei semplici, un innocente pruneto selvatico continua a fiorire fuori stagione a Bra, nel Cuneese, ogni volta che la Sindone viene esposta in pubblico.
È il biancospino detto della Madonna dei fiori, un fenomeno inspiegabile che fiorisce a dicembre, secondo un calendario che potremmo definire liturgico, sfidando le leggi della natura.
Chi non crede afferma che si tratta di un caso; può darsi, ma quando un caso ai ripete in modo così puntuale, è ancora un caso?
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