Gesù Crocifisso e Risorto |
B297-A1
Riflessioni di Papa Ratzinger1
L'immagine di Cristo crocifisso, che sta al centro della liturgia del venerdì santo, evidenzia tutta la gravità della condizione umana, della miseria e delle necessità dell'uomo, del peccato.
Ciò nonostante, lungo i secoli della storia della Chiesa, quell'immagine è stata costantemente percepita anche come segno della consolazione e della speranza.
L'Altare di Isenheim di Matthias Grünewald - forse la più emozionante raffigurazione della croce di tutta la cristianità d'ogni tempo2 - si trovava in un convento degli antoniti, nel quale erano assistite le persone colpite dalle più terribili epidemie da cui era stato funestato l'Occidente nel tardo Medioevo.
Il Crocifisso è rappresentato come uno di loro, tormentato dal più oscuro male di quel tempo, da bubboni di peste diffusi su tutto il corpo.
In lui si è compiuta la parola del profeta: egli è coperto della nostre piaghe.
Davanti a questa immagine, i monaci pregavano insieme agli infermi, che trovavano consolazione sapendo che in Cristo Dio soffriva con loro.
Guardando a questo dipinto, i malati si riconoscevano, proprio in virtù della loro infermità, una cosa sola con Cristo crocifisso che, come oppresso, si identificava con tutti gli oppressi della storia; essi sperimentavano la presenza del Crocifisso nella loro croce e si rendevano conto che la loro necessità li aveva condotti a Cristo e così nell'abisso della misericordia divina, sperimentando in questo modo la sua croce come loro redenzione.
Un profondo equivoco oggi ha colto molti uomini a proposito di questa comprensione della redenzione.
Seguendo Marx, essi considerano il conforto celeste, in questa valle di lacrime terrena, come un inganno lusinghiero che non migliora alcunché bensì perpetua la miseria del mondo e, quindi, alla fine, torna a profitto solo di coloro ai quali preme il mantenimento della situazione presente.
Al posto dell'inganno della lusinga, essi esigono quella trasformazione che elimini la sofferenza e perciò redima.
La parola d'ordine è: non redenzione mediante la sofferenza, ma redenzione dalla sofferenza.
Di qui, il compito fondamentale che ci attende non è l'apertura e l'attesa dell'aiuto di Dio, bensì l'umanizzazione dell'uomo ad opera dell'uomo.3
Mi pare che per parte nostra sia necessario imparare nuovamente, e a fondo, il significato di questa centralità religiosa della croce.
Essa può esserci apparsa come qualcosa di eccessivamente « passivo » e di troppo « pessimistico » o « sentimentale »; ma se non facciamo esercizio della croce, come potremo reggerla nel momento in cui ci sarà caricata sulle spalle?
Un amico che per anni è stato costretto alla dialisi renale e che ha potuto sperimentare come, passo per passo, la vita gli è stata sottratta di mano, mi ha raccontato una volta che egli da bambino aveva amato in modo particolare la Via crucis e che poi, anche più in là negli anni, l'aveva pregata di buon grado e con partecipazione sincera.
Quando poi aveva appreso la terribile diagnosi, era rimasto dapprima come stordito, ma poi improvvisamente si era reso conto: ora si faceva « serio » quel « sì », che egli aveva sempre recitato nella preghiera, « ora anche tu potevi davvero incamminarti con Gesù, e esser da lui incorporato alla sua Via crucis ».
In questo modo egli aveva ritrovato quella serenità che fino all'ultimo si è sprigionata da lui e ci ha permesso di contemplare lo spettacolo luminoso della sua fede.4
Ciò che il mistero della notte di Pasqua - la risurrezione del Signore - vuole dire, la Chiesa cerca in questa notte santa di esprimerlo nel suo linguaggio, che è il linguaggio dei simboli.
Tre grandi simboli, in particolare, dominano la liturgia della notte della risurrezione: la luce, l'acqua e il « canto nuovo », l'alleluja.
Mentre attendiamo nella chiesa buia, priva della luce pasquale, la luce ci giungerà come una consolazione: Dio conosce questa notte.
E in essa egli ha già acceso la sua luce: « Lumen Christi. Deo gratias ».
Solo la notte ci permette di capire che cos'è la luce.
Essa è splendore, grazie al quale si vede, è calore, è vita, è profezia della grande festa di luce e anticipazione del divino banchetto nuziale dell'ultimo giorno.
Il secondo elemento pasquale è l'acqua, con la quale la luce, per così dire, si sposa nell'atto della triplice immersione del cero pasquale.
L'acqua personifica la preziosità della terra.
E tutto intero il suo mistero è presente nella celebrazione pasquale, da questa assunto ed elevato a un piano superiore, senza che per questo il primo venga abolito.
La notte di Pasqua, infatti, ci vuol dire che esiste una sorgente molto più preziosa di quella che da sempre scorre sulla terra: è quella sgorgata dal fianco aperto del Signore ( Gv 4,10; Gv 7,37; Gv 19,34 ).
La croce di Cristo non è altro che la rinuncia radicale al proprio io.
Nel battesimo questa sorgente scorre dalla croce di Cristo come corrente che invade tutta la Chiesa e "allieta la città di Dio" ( Sal 45,4 ).
In questo fiume ci laviamo e ne usciamo rigenerati.
Quando poi il cero pasquale viene immerso nella vasca d'acqua e cielo e terra si uniscono in simboliche nozze, un altro pensiero si risveglia in noi.
Si potrebbe dire allora: la scarsa fertilità di questa terra dev'essere resa degna di venire assunta nel grande mistero di vita del regno di Dio [ …].
Il terzo elemento pasquale è il "canto nuovo", l'alleluja.
Certo, il "canto nuovo" nel senso pieno della parola lo canteremo soltanto nel "mondo nuovo", quando Dio ci chiamerà col « nome nuovo » ( Ap 2,17 ), quando tutto sarà fatto nuovo.
Ma ci è possibile pregustare qualcosa già in anticipo, nella grande letizia della notte pasquale.
Il cantare infatti - tanto più il cantare il "canto nuovo" - è, in fondo, proprio il "prender forma" della gioia.
Quando, dei santi in cielo, ci viene detto che essi cantano, ciò vale semplicemente come immagine del fatto che tutto il loro essere è compenetrato di letizia.
Di fatto, l'atto di cantare significa esattamente che l'uomo abbandona i limiti della pura razionalità e accede a una certa qual forma di estasi.
Per esprimere ciò che è puramente razionale egli non ha che il parlare; « cantare » significa qualcosa di più [ …].
L'alleluja è semplicemente l'esplodere traboccante di un canto di gioia che non ha più bisogno di parole perché le trascende tutte, e tutte le comprende.5
1 Riflessioni tratte da "365 giorni con il Papa", ed. San Paolo 2006, originariamente nell'edizione tedesca del 1979 intitolato: "Collaboratori della verità: pensieri per ogni giorno" del card. Joseph Ratzinger.
3 Op. cit. pag. 161 - La caduta delle ideologie è un'ulteriore conferma della fallacia di questa tesi marxista sull'inganno del conforto religioso.
4 Op. cit. pag. 147
5 Op. cit. pag. 163