Sermoni sul Cantico dei Cantici

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Sermone LXXXII

I. Quale dubbio ancora rimane nelle cose già dette, che bisogna rivelare e delle parole dette a un tale: « Fino a che ti terrai questo, ecc. »

1. Che cosa vi sembra?

Possiamo ormai tornare indietro per esporre l’ordine da dove siamo partiti, poiché è chiara l’affinità del Verbo e dell’anima, per dimostrare la quale abbiamo fatto questa digressione?

Mi pare che potremmo, se non sentissi che resta qualche dubbio sulle cose che sono state dette.

Non voglio defraudarvi di nulla.

Non tralascio volentieri quello che credo a voi utile.

Come oserei farlo, specialmente in quelle cose che io ricevo per voi?

So di un uomo che, talvolta, parlando, si tratteneva qualche cosa di quello che gli suggeriva lo Spirito, riservandolo per avere qualche cosa da dire quando doveva nuovamente parlare, pur non facendolo con animo infedele, ma certo poco fiducioso.

Ed ecco gli parve di udire una voce: « Fino a che ti terrai questo, non riceverai altro ».

Che cosa sarebbe successo se si fosse trattenuto qualche cosa non per provvedere alla sua povertà, ma perché geloso del profitto dei fratelli?

Non gli sarebbe forse stato giustamente tolto anche quello che sembrava avere?

Tenga lontano sempre il Signore questo dal vostro servo, come ha sempre fatto.

Faccia egli che sia sempre così abbondante per me quella perenne fonte di sapienza salutare che vi ho sempre senza invidia comunicato, rifondendo a voi tutto quello che egli fino a ora si è degnato di infondere in me.

Se io vi defraudo, da chi non temerò di essere defraudato? Neppure da Dio.

2. C’è, pertanto, in quello che è stato detto qualche cosa che, come io temo, può costituire un inciampo se non viene spiegato.

E se non sbaglio, tra i qui presenti vi sono di quelli ai quali già mette scrupolo quello che voglio dire.

Quella triplice somiglianza che abbiamo detto esservi tra il Verbo e l’anima, anzi di cui abbiamo detta insignita l’anima, vi ricordate come ci è sembrata anche inseparabile da essa?

Questo sembra andare contro alcune testimonianze della Scrittura, come per esempio quella del Salmo: L’uomo nella prosperità non comprende, viene paragonato agli animali irragionevoli e diviene simile ad essi ( Sal 49,21 ).

E un altro passo: Scambiarono la loro gloria con l’immagine di un toro che mangia fieno ( Sal 106,20 ); e anche ciò che è detto apertamente in persona di Dio: Hai stimato, o iniquo, che io fossi simile a te ( Sal 50,21 ), e parecchi altri passi che sembrano concordemente asserire che la somiglianza con Dio dopo il peccato è stata distrutta.

Che cosa dovremo dire a questo riguardo?

Che quelle tre cose non ci siano in Dio, e così dobbiamo cercarne delle altre nelle quali porre questa somiglianza?

Oppure che esse esistano in Dio, ma non nell’anima, e così neanche in esse si trovi la somiglianza?

Oppure che esse siano nell’anima, ma possano anche non esserci, e per questo non siano inseparabili da essa? No affatto.

Esse esistono in Dio e nell’anima, e vi sono sempre; né ci pentiamo di aver detto qualcosa del genere: così tutto è sostenuto da indubitata e assoluta verità.

II. La somiglianza di Dio nell’uomo, che secondo alcuni passi della Scrittura appare distrutta per il peccato, deve intendersi oscurata e confusa, tanto nella semplicità quanto nell’immortalità e libertà, e in che senso

Ma quello che la Scrittura dice della dissomiglianza avvenuta, non lo dice perché la somiglianza sia stata distrutta, ma perché è sopravvenuta la dissomiglianza.

L’anima non si sveste della sua forma nativa, ma ne riveste una estranea, la quale viene aggiunta senza che la prima sia perduta?

E quella che sopravviene ha potuto oscurare quella innata, ma non distruggerla.

Si è oscurato il loro cuore insipiente, dice l’Apostolo ( Rm 1,21 ), e il Profeta: Ah, come si è annerito l’oro, cambiato l’ottimo colore! ( Lam 4,1 ).

Piange l’oro divenuto scuro, oro tuttavia; mutato il suo ottimo colore ma non distrutto il fondamento del colore.

Resta nel fondamento la costante semplicità, ma non apparisce, coperta come è dalla doppiezza dell’umano inganno, dalla simulazione, dalla ipocrisia.

3. Come si mescola malamente la doppiezza con la semplicità!

Come indegnamente si sovrappone tale struttura su tale fondamento!

Di questa doppiezza si era rivestito il serpente quando, allo scopo di ingannare, si era presentato come consigliere, simulandosi amico.

Similmente gli abitanti del paradiso, da lui sedotti, si erano di essa rivestiti quando cercavano di coprire la loro vergognosa nudità e con l’ombra di un albero frondoso, e con cinture di foglie, e con parole di scusa.

Con quale ampiezza da allora in poi il veleno dell’ipocrisia, divenuto ereditario, infettò tutta la loro posterità!

Chi troverai tra i figli di Adamo che non dico voglia, ma sopporti di apparire quello che è?

Ma continua ciò nonostante ad esistere in ogni anima, con l’originale doppiezza, una generale semplicità, per cui al confronto cresce la confusione; rimane ugualmente l’immortalità, ma fosca e tetra, con l’irrompere della tenebrosa caligine della morte, ormai non riesce più ad assicurare il beneficio della vita al suo corpo.

Ciò non stupisce, dal momento che non conserva per sé neppure la sua vita spirituale.

L’anima, infatti, che avrà peccato morirà ( Ez 18,4 ).

Col sopraggiungere di questa duplice morte, quell’immortalità che l’anima conserva non viene forse resa abbastanza tenebrosa e miserella?

Aggiungi che gli appetiti terreni che spingono tutti alla morte, rendono fitte le tenebre, sicché in un’anima così vivente nulla si vede apparire da qualche parte se non la pallida faccia e una certa immagine della morte.

Perché, infatti, essa che è immortale non appetisce cose immortali ed eterne, perché apparisca quello che è e viva secondo il suo essere?

Invece, ha gusti contrari e cerca cose opposte, e conformandosi alle cose mortali con una condotta degenere, tinge il candore dell’immortalità con una specie di colore di pece di una mortifera consuetudine.

Perché l’appetito delle cose mortali non renderebbe essa che è immortale simile a un mortale, rendendola dissimile dall’immortale?

Chi tocca la pece, dice il Saggio, ne rimarrà sporcato ( Sir 31,1 ).

Godendo delle cose mortali si riveste di mortalità, e scolora, senza deporla, la veste dell’immortalità, per il sopravvenire della somiglianza della morte.

4. Pensa ad Eva come la sua anima immortale copri la gloria della sua immortalità con le vernice della mortalità, amando le cose mortali.

Perché mai essendo immortale, non disprezzò le cose mortali e transitorie, contenta di quelle simili a lei immortali ed eterne?

Vide, dice, che l’albero era bello a vedersi e buono da mangiare ( Gen 3,6 ).

Non è tua, o donna, questa soavità, questo diletto, questa bellezza, e se è tua per parte del tuo corpo di fango, non è soltanto tua ma l’hai in comune con tutti gli animali della terra.

Quella che è veramente tua è un’altra ed ha un’altra origine: è, infatti, eterna, ed è dall’eternità.

Perché tu imprimi nell’anima tua un’altra forma, anzi una deformazione che non è tua?

Infatti, ciò che piace avere si teme di perderlo, e il timore è un colore.

Questo, mentre tinge la libertà la ricopre e la rende per questo dissimile a se stessa.

Quanto sarebbe più degno della sua origine che nulla bramasse e quindi nulla temesse, e così difendesse la sua innata libertà da ogni servile timore, conservandole il suo vigore e la sua bellezza!

Ahimè, non è così: Mutato è l’ottimo colore.

Tu fuggi e ti nascondi, senti la voce del Signore Dio e ti nascondi.

Perché questo se non perché temi colui che amavi, e la forma di schiava ha ricoperto la bellezza della libertà?

5. Ma anche quella volontaria necessità e la legge contraria inflitta alle membra, della quale ho parlato nel sermone precedente, incide sulla libertà e, mentre seduce, rende schiava per propria volontà la creatura libera per natura, coprendo la sua faccia di ignominia, sicché serva almeno con la carne alla legge del peccato, anche non volendo.

Poiché, dunque, ha trascurato di difendere con la probità dei costumi la libertà della natura, per giusto giudizio del Creatore avvenne non che fosse spogliata dalla propria libertà, ma che fosse sovravestita di vergogna come di un mantello ( Sal 109,29 ).

E ha detto bene: come di un mantello, doppia veste, il che prova che rimane la libertà per la volontà, e insieme vi è la necessità dimostrata dalla condotta servile.

Questo è da notare riguardo alla semplicità e immortalità dell’anima; e se consideri bene nulla ti apparirà in essa che non sia coperto da questa duplice veste della somiglianza e della dissomiglianza.

Non è forse una veste doppia dove non innata, ma appiccicata e quasi cucita con l’ago del peccato viene sovrapposta la frode alla semplicità, la morte all’immortalità, la necessità alla libertà?

Né la duplicità del cuore porta pregiudizio alla semplicità dell’essenza, né all’immortalità della natura la morte o i volontari peccati, o le necessità del corpo; e neanche la necessità di una volontaria schiavitù pregiudica la libertà dell’arbitrio.

III. Le cose avventizie dell’anima deturpano i beni naturali; quanto alla nascita e alla morte l’uomo è simile al giumento; per la restante parte della somiglianza può tuttavia avvicinarsi al Verbo

Pertanto, quando queste cose avventizie non succedono, ma accadono ai beni della natura, li deturpano, ma non li distruggono.

Quindi, l’anima non è più simile a Dio, non è più simile a se stessa.

Quindi, viene paragonata alle bestie irragionevoli e diventa simile ad esse; di qui ancora quello che si legge, di avere essa scambiato la sua gloria con l’immagine di un toro che mangia fieno.

Quindi gli uomini, come le volpi, hanno la fossa della duplicità e della frode; e siccome si sono fatti simili a volpi avranno parte con loro; quindi, secondo Salomone, è uguale la fine dell’uomo e delle bestie ( Sir 3,19 ).

Perché non avere la medesima fine quando è stata medesima la vita?

Come le bestie l’uomo si è buttato sulle cose terrene, come le bestie lascia la terra.

Senti un’altra cosa: che c’è di strano se abbiamo una medesima fine avendo un simile principio?

Da dove hanno gli uomini se non dalla somiglianza cori le bestie, e l’intemperante ardore sessuale e il dolore così vivo nel parto?

Così l’uomo, nel concepimento e nella nascita, nella vita e nella morte, è paragonato agli animali irragionevoli ed è divenuto simile ad essi.

6. Perché mai una libera creatura non tiene soggetto a sé l’appetito e lo regge da padrone, ma lo segue e obbedisce come una schiava?

Non si accomuna essa anche in questo agli altri animali che la natura non ha chiamati a libertà, ma ha creato schiavi per servire al loro ventre e obbedire all’istinto?

Non si vergogna Dio di mostrarsi o farsi stimare simile a una tale anima?

Per questo dice: Hai stimato iniquamente che io sia simile a te ( Sal 50,21 ), e continua: Ti rimprovero e ti pongo innanzi i tuoi peccati ( Sal 50,21 ).

Non può un’anima che vede se stessa stimare Dio simile a sé, un’anima almeno come la mia, peccatrice e iniqua.

A una tale anima Dio, infatti, rivolge il rimprovero: Hai pensato iniquamente, non semplicemente; hai pensato che io sia simile a te.

Ma se si pone l’iniquo davanti alla sua faccia, e si fermi davanti al volto malato e fetido del suo uomo interiore, di modo che gli sia impossibile distogliere lo sguardo o dissimulare l’impurità della sua coscienza, ma veda anche suo malgrado l’immondezza dei suoi peccati, e scorga la deformità dei suoi vizi, certamente non potrà pensare che Dio sia simile a sé; ma quasi scoraggiato per tanta dissomiglianza penso che esclamerà: Signore, chi mai è simile a te? ( Sal 35,10 ).

Il che va detto per quella volontaria e recente dissomiglianza.

Resta, infatti, la primitiva somiglianza; e perciò il fatto che questa resta fa sì che l’altra dispiaccia maggiormente.

Oh, che gran bene è questa e che gran male è quella!

Mettendole a confronto ciascuna delle due risalta di più nel suo genere.

7. Quando, dunque, l’anima scorge in sé sola tanta distanza di cose non può fare a meno di gridare tra la speranza e la disperazione: Signore, chi è simile a te?

È trascinata alla disperazione per un così gran male,ma è richiamata alla speranza da tanto bene.

Ne viene che più prova dispiacere per il male che vede in sé, tanto più ardentemente è attratta verso il bene che parimenti scorge in sé e brama di diventare quello per cui è stata fatta, semplice e retta, timorata di Dio e aliena dal male.

Certamente essa può distaccarsi da ciò a cui ha potuto aderire.

Certamente può ritornare là da dove si era allontanata.

Questo, però, dico che può farlo con l’aiuto della grazia, non con la sola natura e neppure con la sua industria.

Infatti la sapienza vince la malizia ( Sap 7,30 ), non l’industria o la natura.

Né manca l’occasione di sperarlo: essa si rivolge al Verbo.

La generosa affinità dell’anima con il Verbo non rimane senza effetto.

Di essa abbiamo già trattato, e ne rende testimonianza la perseverante somiglianza.

Egli si degna di ammettere alla comunione dello Spirito quella che gli è simile per natura.

E certamente, per ragione di natura il simile cerca il simile.

Voce di uno che cerca: Ritorna, Shulammita, ritorna, perché ti vediamo ( Ct 7,1 ).

Sarà veduta simile colei che non vedeva più colui che non le era simile; ma si farà vedere anche lui.

Sappiamo che quando apparirà saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è ( 1 Gv 3,2 ).

Pensa, dunque, che quella domanda: Signore chi è simile a te? più che da impossibilità, è motivata dalla difficoltà.

8. O se meglio ti piace, è una espressione di ammirazione.

Ammirabile veramente e stupenda è quella somiglianza che accompagna la visione di Dio, anzi che è la visione di Dio, io lo dico nella carità.

La carità è quella visione, è quella somiglianza.

Chi non sarà stupito vedendo Dio disprezzato che richiama?

Giustamente è tacciato come iniquo colui di cui sopra si è parlato, il quale pretende di essere simile a Dio, mentre, amando; l’iniquità non può amare né se stesso, né Dio.

Così, infatti, sta scritto: Chi ama l’iniquità odia la sua anima ( Sal 11,6 ).

Tolta, pertanto, di mezzo l’iniquità, che costituisce la parziale dissomiglianza, vi sarà l’unione dello spirito, vi sarà la mutua visione e la mutua dilezione.

Venendo cioè quello che è perfetto, scomparirà quello che è imperfetto; e vi sarà una vicendevole casta e consumata dilezione, piena cognizione, visione manifesta, ferma unione, società inseparabile, somiglianza perfetta.

Allora l’anima conoscerà come è conosciuta; allora amerà com’è amata, e godrà lo Sposo per la sposa, conoscitore e conosciuto, amante e amato, Gesù Cristo Signore nostro, che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli.

Amen.

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