Proviamo a capirci |
Sir Robert Baden Powell, l'ufficiale inglese che ideò a inizio novecento il metodo educativo dello scoutismo, suggeriva ai giovani - con il linguaggio un po' romantico tipico di quell'epoca - di guardare alla vita come ad un'avventura, ad una grande impresa.
Diceva loro che, come per tutte le avventure o le imprese, anche nella vita bisogna essere preparati a fronteggiare la realtà, i fatti inattesi, le opportunità inaspettate, gli sviluppi sorprendenti, le difficoltà previste come quelle impreviste.
Soggiungeva anche che il modo migliore per affrontare l'avventura della vita consiste nel « guidare da sé la propria canoa », cioè nell'evitare di lasciarsi portare passivamente dal flusso degli avvenimenti, per cercare di essere, ciascuno nella sua condizione quotidiana, artefice e protagonista della propria esistenza.
Si potrebbe pensare allo stesso modo riferendosi alla comunicazione.
Possiamo infatti lasciarci portare dove il caso dell'intreccio delle nostre relazioni interpersonali ci conduce, subirne quasi fatalisticamente le conseguenze e prendere quindi eventualmente atto che con il proprio capo, con il proprio coniuge, con i propri genitori o con i propri figli, con quella persona che occupa un posto importante nella propria vita non ci si capisce, si stenta a trovare un modo soddisfacente di comunicare; mentre con altri tutto fila liscio, si sta bene insieme, ci si intende al volo.
Come mai con alcuni le cose vadano per il meglio e con altri no, non si riesce a proprio a capire.
Bisogna allora rassegnarsi ad un destino capriccioso che ci imprigiona di tanto in tanto in rapporti interpersonali insoddisfacenti e difficoltosi ... c'è la possibilità di applicare i suggerimenti di sir Baden Powell al mondo relazionale ed alla comunicazione che ne è l'ingrediente fondamentale?
In effetti è possibile « guidare da sé la propria canoa » per star bene con gli altri, far sì cioè che quanto avviene tra noi ed i nostri interlocutori sia il frutto dell'essersi preparati all'avventura dell'incontro con l'altro.
Se è vero infatti che con alcuni ed in alcuni momenti l'intesa sboccia da sola, senza sforzi e con soddisfazione per entrambi, con altri o in altri momenti possiamo diventare artefici, protagonisti che vogliono, mettendoci tutto l'impegno che serve, creare quelle condizioni di armonia e di accordo che da sole non si verificherebbero sempre.
Qualcuno potrà storcere il naso dicendo che ha senso coltivare una relazione interpersonale solo nella misura in cui essa è genuinamente e spontaneamente appagante.
Questo è certamente vero, quando tutto fila liscio da se stesso.
Ma quando ciò non si verifica? E se ciò riguarda una relazione per noi vitale?
Consideriamo i nostri rapporti affettivi.
Sono proprio queste le situazioni in cui più impellente sentiamo il bisogno della genuinità e della spontaneità.
Proviamo allora a pensare ad una frase comune, che usiamo con le persone che amiamo.
La frase è « ti voglio bene ».
E una frase abituale, che nel momento in cui viene usata esprime sinceramente sentimenti e lo stato d'animo di chi la pronuncia.
Forse però, un po' trasportati dall'emozione, non ci si accorge fino in fondo del significato e della portata delle parole che si pronunciano.
L'attenzione viene senz'altro attratta dalla parola « bene », che presuppone la promessa e la speranza di felicità per la persona amata.
Anche la parola « ti » si segnala in quanto esprime il desiderio di essere artefici della sua felicità.
La terza parola resta invece un po' nell'ombra, non sfavilla in tutti i colori, ma veste i panni di Cenerentola e, nel confronto, passa inosservata.
Se per una volta però si prova a centrare l'interesse anche su di essa, ci si accorge, forse con sorpresa, che « voglio » è una voce del verbo volere, come ricordiamo dall'analisi grammaticale.
« Ma ... - dirà qualcuno - cosa c'entra il volere con l'amore?
La volontà presuppone impegno, spesso sforzo.
Non roviniamo tutto, non mescoliamo insieme la fatica del volere con l'emozione prorompente dell'amare! ».
Sarà allora frutto di uno spontaneo e traboccante moto dell'animo l'atto di una giovane madre che, svegliata in piena notte dal pianto di un figlio di pochi giorni di vita, la fa scendere dal letto per allattarlo?
O quello di un padre di famiglia che prolunga tutti i giorni il proprio orario di lavoro per non far mancare nulla ai suoi cari grazie allo straordinario guadagnato?
Non è forse il volerebene, a motivare questi comportamenti?
I moti dell'animo, gli slanci enfatici, affascinanti e coinvolgenti, sono, quando la vita ce li regala, straordinarie esperienze che danno il colore alla nostra esistenza, come bagliori improvvisi, abbacinanti nel loro splendore.
Abbiamo però bisogno del senso di solidità e di continuità proveniente da qualcosa che faccia luce e che accompagni i nostri passi di tutti i giorni, non solo nei giorni magici.
E questo consiste nella ricerca, nella tensione, spesso nella fatica che è legata al continuare a « volere » bene, così come a « volere » far andare bene i nostri collegamenti vitali, anche quelli estranei alla sfera dei nostri affetti.
I prossimi capitoli di questa terza parte sono dedicati proprio a coloro che non intendono come una stonatura del proprio vocabolario il verbo « volere » e che decidono quindi di « guidare da sé la propria canoa » della comunicazione, sentendo il bisogno di costruire il benessere relazionale proprio così come quello delle persone che amano o con le quali condividono significative esperienze della vita.
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