Proviamo a capirci |
Esaminiamo la seguente affermazione: « CUESTA FRASE CONTIENE 3 ERORI ».
Balza immediatamente all'occhio come l'affermazione sia sbagliata.
Di errori infatti ce ne sono solamente 2, contenuti rispettivamente nella parola « cuesta » e nella parola « erori ».
In effetti però, ad un più attento esame, ci si accorge dell'esistenza di un terzo errore: quello che indica inn « 3 » e non in 2 il numero degli errori.
Valutato da quest'ultima prospettiva, il contenuto della frase è corretto.
Nel primo caso si è partiti dalla grammatica e si è arrivati ad una conclusione: l'affermazione è sbagliata; nel secondo caso si è usato un criterio logico più generale e si è arrivati alla conclusione opposta: l'affermazione è giusta ( 2 errori di logica grammaticale + 1 errore di logica generale ).
Questa apparente incongruenza è dovuta al fatto che di primo acchito ci si è posti su un piano di ragionamento circoscritto ( quello della logica grammaticale ) e ciò ha provocato una vera e propria cecità quanto agli elementi appartenenti ad un piano logico più generale.
Da questa cecità è derivato un ragionamento incompleto, che a sua volta ha portato ad una conclusione sbagliata.
Non si pensi che queste forme di cecità rimangano circoscritte esclusivamente nell'ambito di domande-tranello costruite per gli appassionati di enigmistica.
Esse spesso si insinuano nei ragionamenti che guidano i nostri collegamenti vitali, portandoli all'interno di vicoli senza uscita.
Nascono a seguito di confusioni prodotte dalla presenza di più logiche, di più piani di complessità di ragionamento, quando la mente viene abbagliata da quello più semplice e di conseguenza è accecata nel cogliere quelli più complessi o più generali.
Nei rapporti tra le persone, si notano tre categorie di possibili confusioni: quelle tra sintomo e problema, quelle tra mezzo e fine, e quelle tra singolo episodio e regola generale.
( ovvero: quando si sbaglia bersaglio )
L'esempio più semplice per evidenziare questo genere di differenze è rappresentato dalla febbre.
Chi ha la febbre infatti chiama il medico perché ha il problema della febbre.
Quest'ultimo è abituato a ragionare in modo diverso ed a considerare la febbre come un sintomo, cioè come un segnale dell'esistenza di una malattia che provoca la febbre.
Di conseguenza, la sua preoccupazione principale è quella di capire qual è il problema in modo da trovare la cura più adatta, non per far passare la febbre, ma per eliminare il problema stesso e guarire la persona.
Se così non facesse, nel caso di una peritonite, il medico sfebbrerebbe il malato ( scambiando il sintomo con il problema ) e, giudicando così risolto il problema, lo lascerebbe in preda ad un'affezione ( che è il vero problema ) dalle conseguenze fatali.
Come si presentano queste confusioni nelle relazioni interpersonali?
Daniel è un bambino di 7 anni, simpatico, socievole, obbediente, ma che da circa un anno ormai ha un'antipatica abitudine: quella di dire spesso bugie.
Inizialmente, quando se ne sono accorti, i genitori non vi hanno dato molto peso.
Si trattava di cose piccole.
Pensavano ad un periodo transitorio, che sarebbe stato superato con la crescita.
Si sono allora limitati al rimprovero, ma senza esito.
Con il passare del tempo e con il progressivo aumento dell'importanza del contenuto delle bugie, dal rimprovero sono passati alla minaccia di punizioni; ultimamente sono arrivati ai castighi.
Tutto ciò senza ottenere nessun risultato, se non quello di esasperare il rapporto educativo.
Il problema di questi genitori è quello di avere un figlio che dice le bugie.
Tutte le loro energie, tutta la loro attenzione, tutti i loro sforzi sono concentrati sul problema delle bugie.
La nascita di Daniel è stata aspettata a lungo.
Per molti anni sembrava che i genitori non potessero avere figli e, soffrendone molto, guardavano alle altre coppie che man mano diventavano papa e mamme con senso di inferiorità, quasi con invidia.
Indicibile la felicità quando si accorsero dell'attesa di Daniel.
Quanto più a lungo si aspetta l'avverarsi di un sogno, tanto maggiore è la gratificazione quando finalmente si realizza.
Scattò in loro un meccanismo mentale inconscio che faceva loro pensare fosse venuto anche il momento per ripagarsi dell' avvilimento vissuto quando si sentivano perdenti nel confronto con le altre coppie.
Da questa paternità e maternità si aspettavano e si aspettano quindi molte gratificazioni e, naturalmente, tanto maggiori saranno queste soddisfazioni, quanto maggiori saranno le qualità, le doti ed i risultati che Daniel sarà capace di esprimere.
In altre parole, si è sviluppato nei riguardi di questo bambino un livello di aspettative molto elevato.
Da parte sua, egli si sforza di mostrarsi all'altezza, ma non riesce sempre a soddisfare le attese dei genitori, sentendole superiori alle sue capacità.
In questi casi, la sua mente inconscia gli suggerisce di inventare una bugia dietro alla quale nascondere la sua incapacità, sperando così di ottenere anche l'effetto di evitare una delusione ai genitori.
E ovvio che, in questo caso, Daniel smetterà con le bugie ( non avrà più bisogno di dirne ) solamente quando i genitori si accontenteranno di avere un bambino normale e non superlativo.
I tentativi fatti sino ad ora dai genitori per eliminare il comportamento indesiderato non hanno dato frutto perché hanno visto nelle sue bugie il problema, anziché considerarle un sintomo del vero problema rappresentato dal loro bisogno di scaricare sul figlio le passate frustrazioni.
Di qui il suggerimento a preoccuparsi prima di tutto dei propri atteggiamenti, modificati i quali, si modificheranno quelli di Daniel.
Dire bugie non è un modo per cercare di trarsi d'impaccio caratteristico solamente dell'infanzia: molti adulti vi fanno ricorso e, in alcune organizzazioni sociali, è un accorgimento molto utilizzato.
Quegli uffici o quelle officine i cui responsabili sono molto severi, facili al rimprovero ed alla punizione, sono in effetti gli ambienti in cui si ricorre con maggiore frequenza alle bugie ed ai silenzi dissimulatori.
Spesso, quando questi atteggiamenti vengono a galla, ci si lamenta della slealtà dei sottoposti e del difetto di trasparenza delle loro comunicazioni interne.
Si tenta di migliorare questo stato di cose censurando e punendo o cercando di convincere ad una maggiore sincerità.
Nella maggior parte dei casi tutto ciò senza alcun effetto o con risultati temporanei.
Una volta di più si confonde il sintomo con la causa.
Non ci si chiede infatti come mai degli adulti sentano il bisogno di ricorrere in modo sistematico alla bugia o alla dissimulazione.
Ebbene, si tratta del bisogno di difendersi, temendo di dover sottostare alle reazioni punitive e fortemente penalizzanti sistematicamente attivate dai capi in caso di inconvenienti o errori.
Si cerca di nascondere per evitare di finire sulla gogna.
E inutile rammaricarsi di questo stato di cose deplorando il ricorso ad atteggiamenti immaturi da parte di adulti che non si assumono le proprie responsabilità: da che mondo è mondo, qualsiasi essere vivente che si sente attaccato o in pericolo si difende nel modo che gli riesce più agevole, anche con la fuga nel silenzio o nella menzogna, come in questi casi.
Analizzata in questo modo la situazione, si arriva ad una diversa conclusione: l'assenza di trasparenza è un sintomo, che denota l'esistenza del vero problema, costituito dal clima inquisitorio e sanzionatorio dei superiori.
Se si ritiene inaccettabile questo stato di cose, è sul problema rappresentato dall'inadeguatezza dello stile gestionale dei capi che bisogna intervenire e non sul sintomo rappresentato dalle strategie difensive dei sottoposti.
Si noti quanto pericoloso sia per un'organizzazione non riuscire ad affrontare correttamente questo genere di situazioni.
Nelle condizioni appena descritte, i livelli decisionali della struttura organizzativa si trovano ad essere disinformati su molte disfunzioni, taciute per paura; questa disinformazione si riflette inevitabilmente sulla qualità delle decisioni che vengono prese presupponendo un quadro di realtà non corrispondente al vero.
Il ricorso a tanta severità con lo scopo di ottenere il massimo di efficienza finisce per essere il punto di maggiore debolezza e fragilità del sistema organizzativo, un vero e proprio tallone d'Achille.
Alcune coppie incontrano difficoltà che si possono manifestare in uno o in entrambi i partners e che influiscono negativamente sulla serenità della loro vita intima e sulla soddisfazione che ne ricavano.
Ciò è spesso motivo di crisi ed induce i due a cercare di fare di tutto per risolvere al più presto l'inconveniente.
Si sforzano quindi di capire cosa ci sia che non va nel loro modo di avvicinarsi, di valutare con attenzione le loro abitudini sessuali, di suggerire o esigere dal partner nuovi comportamenti per migliorare la loro intimità.
Qualche volta queste analisi vengono fatte dialogando insieme, nella maggior parte dei casi sono elaborazioni individuali fatte per conto proprio.
Il risultato è comunque quello di trasformare il rapporto intimo in una situazione in cui si tenta di fare all'amore solo con la volontà e con il cervello, come se si trattasse di un compito scolastico in cui essere valutati.
Ne consegue per gli interessati la frequente esperienza di blocchi emotivi, che li paralizzano nell'assecondare lo svolgimento del rapporto, con il risultato di un ulteriore scadimento nella qualità della vita intima portato proprio dalla tensione del « fare le cose bene ».
Se si escludono le disfunzioni legate a cause di natura fisica ( malformazioni degli organi genitali, malattie, o uso di farmaci inibenti il desiderio sessuale ) che costituiscono comunque una esigua minoranza statistica, l'origine della difficoltà, il vero problema, va ricercato al di fuori della sfera sessuale.
La prova si ha nel fatto che le terapie più efficaci prevedono il coinvolgimento di entrambi i membri della coppia, non solamente di quello attraverso il quale si manifesta la difficoltà.
Tramite questo coinvolgimento, emergono in modo sistematico elementi relativi al rapporto di coppia inteso nella sua globalità che si insinuano e condizionano la vita intima.
Gli esempi possono essere molti e diversificati: si va dalle coppie in cui uno dei due interiorizza o colpevolizza l'altro nei più svariati campi e quest'ultimo, sentendosi sotto esame anche nell'intimità, ne risulta inibito a quelle in cui si registrano forti e persistenti tensioni di coppia che si trasferiscono anche nel modo di rapportarsi a livello sessuale, a quelle ancora che non trovano un accordo sui metodi da applicare per una procreazione responsabile lasciando in tal modo campo aperto alla presenza di ansie ( più probabilmente da parte femminile ) legate all'eventualità di una maternità indesiderata, a quelle infine in cui, dopo la nascita di un figlio, non si riesce a far convivere il ruolo di madre con quello di moglie o quello di padre con quello di marito, finendo per privilegiare le responsabilità genitoriali a scapito della vita intima.
In tutti questi esempi, che sono i più frequenti tra quelli riscontrabili nella realtà, è evidente come la disfunzione sessuale non rappresenti il problema, ma il sintomo attraverso il quale si manifesta il vero problema rappresentato dalle inadeguatezze presenti nello stile di vita della coppia inteso nel suo insieme.
Se si vuole risolvere l'inconveniente, bisogna indirizzare l'attenzione non a quello che succede nell'intimità, ma a ciò che avviene in tutte le manifestazioni della vita dei due.
Ci sono casi in cui l'origine di una disfunzione sessuale va ricercata nel dizionario mentale, cioè nelle esperienze vissute e registrate in tempi e luoghi lontani dal presente, con persone diverse rispetto al partner attuale.
Si tratta dei casi di violenze subite, di informazioni sbagliate avute a riguardo della sessualità, di esempi traumatici raccolti in ambiente familiare nel corso dell'infanzia o dell'adolescenza ...
Anche in questi casi risulta evidente come la disfunzione sessuale non rappresenti il problema, ma il sintomo che segnala l'esistenza del vero problema, rappresentato dalla natura dei contenuti registrati nel dizionario mentale.
Ed è a questi contenuti che va orientato il tentativo di una soluzione.
I casi di anoressia ( la grave malattia psichica che colpisce prevalentemente le femmine nel periodo adolescenziale e immediatamente successivo e che si manifesta con un rifiuto psicologico del cibo, sino - nei casi più gravi - alla morte per denutrizione ) rappresentano un altro campo in cui si assiste frequentemente a confusioni tra sintomo e problema.
E del tutto logico infatti che, nel momento in cui una ragazza inizia a limitarsi in modo esagerato nel mangiare, i familiari si preoccupino e che la preoccupazione aumenti qualora ciò comporti una forte diminuzione di peso; ancor più quando il dimagrimento diventi evidente nell'aspetto esteriore.
Del tutto comprensibili quindi le pressioni che essi fanno per consigliare, per convincere, per indurre al ritorno alla normalità nell'alimentazione.
Qualche volta provano a prendere la ragazza con le buone, altre volte possono ricorrere all'autoritarismo.
L'unico effetto che ne ricavano è quello di trasformare tutto ciò che ha a che fare con il cibo, ed i momenti dei pasti in particolare, in una specie di incubo carico di nervosismo e di tensione.
Ogni pasto è preceduto dalla speranza ansiosa di un minimo cambiamento, è accompagnato da un attenta osservazione di tutto ciò che viene o non viene mangiato e seguito dalla delusione.
Tutte queste tensioni, di cui l'anoressica viene fatta oggetto, aumentano inevitabilmente la sua ansia e vanno paradossalmente a rinforzare proprio le sensazioni di ripulsa legate al blocco psicologico verso il cibo.
In altre parole, tutto ciò che i familiari tentano per aiutarla a venir fuori dalla difficoltà, rappresenta un ostacolo in vista di un ritorno alla normalità.
Si ricorrerà anche alle cure mediche, spesso alla definizione di un piano alimentare minimo, con una volta in più l'effetto di caricare ulteriormente di ansietà il cibo insieme a tutto ciò che ad esso si collega.
Il punto è che l'anoressia, secondo l'esperienza scientifica più recente ed accreditata, non è il vero problema, ma il sintomo del fatto che la ragazza si percepisce come inadeguata per rapporto agli altri.
Essa rappresenta anche il drammatico tentativo di rendere accettabile la percezione di sé attraverso il controllo dell'alimentazione.
Partendo da queste premesse, risulta evidente come interventi mirati ad eliminare direttamente il sintomo ( il non-mangiare ) siano destinati a risultare inefficaci: è il problema di accettarsi e di convivere con la percezione della propria persona che va affrontato.
Con questo non si vuole affermare l'inutilità di interventi sintomatici, ad esempio quelli di natura medica, per garantire nei casi più seri il minimo vitale di alimentazione; si vuole però sottolineare che non ci sarà soluzione se non attraverso una corretta distinzione tra sintomo e problema, che permetta di orientare gli sforzi nella giusta direzione.
Tutti gli esempi riportati consigliano quindi di chiedersi, in caso di difficoltà nelle relazioni con gli altri, quali siano i sintomi e quale sia il problema.
Sembra risultare chiaro che intraprendere azioni correttive basandosi esclusivamente sull'evidenza dei sintomi, ha determinato in tutti i casi citati una specie di miopia che è stata di ostacolo nel cogliere aspetti significativi della situazione ad un livello di ragionamento più generale o più complesso.
La conseguenza costante di questa miopia è stato l'indirizzo delle energie in una direzione inadatta ad eliminare le cause da cui originano i sintomi e quindi per ricuperare il benessere.
( ovvero: quando il rimedio è peggiore del male )
Verso la metà dell'Ottocento, in una cittadina piemontese dell'allora Regno di Sardegna si sparse la voce che di lì a qualche tempo vi si sarebbe fermato ospite per una notte re Vittorio Emahuele II.
La cittadinanza, sindaco e notabili in testa, si mobilitò con molto anticipo nei preparativi per garantire all'augusto ospite un soggiorno che, nelle loro dichiarate intenzioni, avrebbe dovuto essere tanto confortevole da renderglielo indimenticabile; con questo intendimento, tutto fu studiato e previsto fin nei più minuti dettagli.
E venne finalmente il gran giorno.
Tra due ali di folla plaudente il corteo regale percorse le strade imbandierate per raggiungere la piazza principale, dove il sindaco diede il benvenuto a nome della città ed il re, a sua volta, ebbe parole di saluto e di apprezzamento per l'accoglienza ricevuta.
La cena di gala, alla quale erano stati invitati tutti i cittadini influenti, era un secondo momento molto atteso.
Sua Maestà aveva fama di buongustaio, per cui ci tenevano a fare bella figura.
Il menu era stato scelto dopo che una delegazione si era recata a Torino per informarsi direttamente a Corte dei gusti gastronomici del re.
Tanta attenzione venne premiata dal compiacimento del sovrano e del suo seguito.
Venuto il momento di accompagnare Vittorio Emanuele II a riposare, la preoccupazione fu quella che nel corso della notte non avesse a soffrire il freddo, dato che la cittadina in questione si trovava ai piedi delle montagne e la stagione non era più tanto favorevole.
Le cose erano andate così bene fino a quel momento che sarebbe stato veramente un peccato rovinare tutto all'ultimo per aver trascurato qualche particolare.
Si decise allora che, non appena il sovrano si fosse ritirato, un messo comunale avrebbe stazionato nel corridoio davanti alla stanza regale con alcune coperte con il compito, tutte le ore, di bussare alla porta per chiedere al re se avesse freddo e, qualora la risposta fosse stata affermativa, di fornire le coperte aggiuntive.
Assicuratesi che il messo avesse capito bene le istruzioni ricevute e dopo avergli severamente raccomandato di rispettarle alla lettera, il sindaco si congedò.
Ed il messo, diligentemente, si comportò nel corso della notte secondo le disposizioni ricevute.
Più attenti ed ospitali di così!
Quale altra cittadina sarebbe stata capace di vegliare con maggiore premura sul sonno dell'augusto ospite?
E molto probabile che per il re quella sia stata veramente una notte indimenticabile ... non proprio nel senso che si ripromettevano i suoi sudditi, però.
Assicurarsi della bontà del sonno del re era l'accorgimento previsto per raggiungere lo scopo.
All'accorgimento venne però attribuita una funzione così predominante da far sì che il vero obiettivo ne fosse scavalcato: quanto fece il messo comunale nel corso della notte finì per soddisfare il piano operativo individuato, ma impedì di raggiungere il risultato voluto.
Un aneddoto che esemplifica quali misfatti si verifichino quando nella mente delle persone le strategie di comportamento si confondono con i loro obiettivi, sostituendosi ad essi.
Il signor Ernesto è un vecchietto ottantacinquenne.
Rimasto vedovo, decise qualche anno fa di ritornare nella sua terra di origine dove ora vive da solo, essendo i figli residenti lontano.
Ha avuto qualche preoccupante acciacco negli anni passati, che però ha superato grazie alle cure appropriate ed alla sua forte fibra.
All'epoca si era lasciato convincere a trasferirsi temporaneamente presso i figli, in modo da poter essere più facilmente assistito, ma appena ristabilito, è ritornato senza indugi a casa sua.
In quell'occasione i medici gli prescrissero alcune importanti medicine, indispensabili per scongiurare il rischio di una ricaduta dall'esito quasi certamente fatale, raccomandandogli di prenderle ogni giorno.
Ma ormai la memoria è diventata piuttosto labile e sono più numerosi i giorni in cui, vivendo da solo, si dimentica di prenderle, di quelli in cui si ricorda.
La memoria gli gioca spesso anche altri tiri mancini: parecchie volte ha dovuto chiamare i vigili del fuoco per farsi aprire la porta di casa, avendo dimenticato le chiavi all'interno, tre o quattro volte ha avuto delle vere e proprie amnesie che lo hanno messo in difficoltà facendogli perdere l'orientamento per le strade del paese.
Fortuna che è conosciuto da tutti ed è stato aiutato a ritrovare la via di casa.
E ancora: gli capita di perdere documenti, denaro.
Ciò che però preoccupa particolarmente i figli è il ricordo di due suoi precedenti malori, quando perse conoscenza e, a causa della solitudine, fu soccorso proprio per caso, grazie a coincidenze che hanno quasi del miracoloso.
Pensano necessario fare in modo che si curi regolarmente, che non corra dei rischi, che sia protetto dai capricci della sua memoria ormai inaffidabile.
In altre parole, vorrebbero garantirgli condizioni di vita adatte per la miglior conservazione della sua salute.
Si fa strada l'idea di ospitarlo in un pensionato per anziani, visto che non vuole lasciare la sua terra di origine.
Ne trovano uno che presenta tutti i requisiti del caso.
Ne parlano al signor Ernesto, ma egli va su tutte le furie: non ha nessuna intenzione di cambiar vita, di rinunciare alla sua indipendenza ed alla sua autonomia.
Il rifiuto è categorico.
I figli stanno pensando come fare per cercare di convincerlo.
Anche in questo caso è in agguato il paradosso rappresentato dall'eccessiva concentrazione sull'idea trovata per far stare bene il signor Ernesto, al punto da farla diventare la preoccupazione principale e da distogliere l'attenzione dal raggiungimento della vera finalità.
Infatti, i modi pensati dai figli per farlo stare bene comportano, dal suo punto di vista, una limitazione dell'autonomia, una specie di prigione sicura e dorata; dorata certo, ma sempre prigione.
Sicuramente assumerà tutte le medicine, in caso di bisogno sarà tempestivamente soccorso, non si chiuderà più fuori dall'alloggio né si perderà più per le strade.
Probabilmente vivrà più a lungo ... ma in cuor suo sentirà di vivere peggio.
Tutto ciò che i figli stanno progettando per farlo star bene avrà come effetto quello di farlo stare male.
Comincerà a dire che i figli non gli vogliono bene, e non sarà solo l'espressione dei capricci di un vecchietto.
Quanti sguardi, quanti visi di anziani, ospiti di pensionati anche prestigiosi, lasciano trasparire tanta tristezza e tanta insoddisfazione!
Questo dovrebbe far sorgere il dubbio sull'idoneità di certe scelte per farli stare bene.4
Anche nel periodo precedente il matrimonio si riscontra con una certa frequenza una confusione tra strategie di comportamento e finalità cui queste stesse strategie sono indirizzate.
Questa fase ha lo scopo principale di permettere ad entrambi di arrivare in modo responsabile alla promessa matrimoniale, attraverso la verifica della compatibilità dei rispettivi dizionari mentali, delle proprie personalità, dei propri gusti e dei propri indirizzi di vita.
Se così non fosse, una volta avvenuto l'incontro e preso atto dell'attrattiva reciproca, non resterebbe che accasarsi subito.
Si sa che quando due giovani si amano, stanno bene insieme ed ogni occasione è favorevole per cullarsi nel benessere provato.
Per di più, il fatto di essere coppia apre molteplici possibilità da sfruttare da soli o insieme ad altre coppie di amici.
Tutto è così attraente e coinvolgente!
I due rischiano allora di cercarsi con l'unico scopo di star bene insieme, perdendo di vista il vero obiettivo che è quello di conoscersi meglio, in qualche modo anche per mettere alla prova un'intesa a due che sta muovendo i primi passi.
Un tempo dedicato all'impostazione ed alla costruzione di un rapporto affettivo destinato a durare, si può trasformare in un tempo in cui ci si limita a fruire delle opportunità immediate offerte dal fatto di avere il ragazzo o la ragazza.
Viene da chiedersi: in base a che cosa i due giovani potranno considerarsi adatti l'uno per l'altra, al punto da promettersi una vita in comune?
Ci si potrà anche chiedere se il motivo del numero sempre crescente di matrimoni che entrano irrimediabilmente in crisi fin dai primi anni ( o fin dai primi mesi ) non possa essere fatto risalire proprio ad un equivoco tra mezzo e finalità, per cui il mezzo si trova a prevaricare lo scopo di quello che fino a non molto tempo fa veniva chiamato fidanzamento.
Già!, ora non si chiama più così, anzi ora nel linguaggio corrente non ha più nemmeno un nome.
Il che fa sospettare il rischio che se ne vada perdendo anche la funzione.
La famiglia Crabbini è, da generazioni, una famiglia di intellettuali.
Il padre è docente universitario, la madre lavora come curatrice di alcune collane di narrativa per un noto editore.
Inutile dire che la loro è una casa in cui si respira cultura: libri e ri viste dappertutto, qualcuno intento nella lettura in ogni momento.
La nascita del figlio Jacopo rappresentò a suo tempo l'aprirsi della prospettiva di trasmettere alla generazione successiva quanto per loro c'era di più prezioso: l'amore per lo studio e per la cultura.
Jacopo, in realtà, ha sempre dimostrato fin da piccolo di preferire i giochi di costruzione e di movimento ai pastelli per colorare ed ai libri per l'infanzia.
Quando iniziò la scuola, il suo primo impatto con i quaderni e con la scrittura non fu certo un amore a prima vista.
Gli costava molta fatica distogliersi dagli altri interessi per fare i compiti e, successivamente, quando ebbe un po' più di dimestichezza con la lettura, non si dedicava come esigevano i genitori a leggere i tanti bei libri che aveva.
I signori Crabbini erano naturalmente convinti che bisognasse sviluppare nel figlio l'interesse per la lettura, affinché la sua mente si aprisse.
Poco alla volta si venne ad instaurare una specie di braccio di ferro tra i frequenti inviti dei genitori e gli altrettanto frequenti rifiuti del figlio.
Numerosi libri per ragazzi, procurati nel tentativo di interessare Jacopo, giacevano dimenticati in un angolo della sua cameretta.
Si imponeva a questo punto un'azione più incisiva.
I genitori iniziarono allora a essere più sistematici nei loro inviti.
In presenza di richieste del figlio, condizionarono sempre più spesso il loro consenso al fatto che dedicasse qualche tempo a leggere.
Chiesero anche alle insegnanti a scuola di cercare di convincerlo.
Con l'andare del tempo, la tensione familiare legata al rapporto di Jacopo con i libri divenne sempre più accentuata, al punto da influire negativamente sul suo rendimento scolastico, portandolo a terminare le medie con il giudizio minimo.
I genitori, che avevano sempre pensato ovvia per un figlio la frequenza del liceo classico, ora si chiedono quale orientamento dare ai suoi studi.
Tanto hanno fatto senza raccogliere nulla.
Lo schema dei comportamenti mirati ad interessare Jacopo alla lettura è diventato così importante e vincolante da impedire di accorgersi che è proprio esso ad impedire il raggiungimento dell'obiettivo, producendo addirittura l'effetto di rendergli antipatici i libri.
Azioni educative impostate secondo questo metodo e con i medesimi indesiderati risultati si riscontrano spesso quando i genitori ci tengono troppo a che i figli condividano qualche loro indirizzo.
Quanto più gli adulti attribuiscono importanza ad una certa passione o convinzione, da volerla a tutti i costi trasmettere ai figli, tanto più aumenta il rischio che i loro tentativi di condizionamento ottengano una reazione di rifiuto.
Si può citare quel padre che per far innamorare il figlio della montagna lo fa faticare al punto da fargliela odiare.
O quella madre che, ricorrendo ad asfissianti insistenze o a raggiri, orditi con le migliori intenzioni per far in modo che il figlio vada a messa, ottiene il risultato di allontanarlo sempre più dalla pratica religiosa.
La nottata appena trascorsa da Vittorio in una corsia d'ospedale è stata molto difficile: il dolore dovuto alla malattia, il caldo afoso del periodo estivo, il continuo lamento di un vicino di letto appena operato ed il relativo andirivieni degli infermieri, gli hanno impedito di chiudere occhio.
Star sveglio nel letto ha acuito la sua sofferenza.
Brutti pensieri si sono affollati nella sua mente in relazione all'incertezza di un quadro di malattia che i medici stentano a capire.
Per il momento, in attesa di completare le analisi, essi si limitano a somministragli dei sonniferi e dei farmaci per aiutarlo a controllare la sua attuale incontenibile apprensione per quello che gli sta capitando.
Questa notte però le medicine non gli hanno portato beneficio.
Ormai verso l'albeggiare, forse grazie a quel po' di frescura che si fa sentire verso quell'ora, Vittorio è finalmente riuscito a prendere il tanto sospirato sonno.
Alle sei, con professionale, ammirevole ed inflessibile puntualità, l'infermiera si avvicina al letto di Vittorio dormiente e lo sveglia per fargli prendere la prima dose del farmaco che gli è stato prescritto per aiutarlo a dar quiete alle sue emozioni.
Una volta di più il mezzo la vince sull'obiettivo e ne impedisce il conseguimento!
Quando stava bene grazie al sonno egli è stato svegliato con lo scopo di fare il necessario per farlo stare bene.
Appena sveglio infatti le sue ansie si sono di nuovo immediatamente scatenate.
In tutti questi casi si potrebbe dire che il rimedio è stato peggiore del male.
Molte volte ci si preoccupa prevalentemente che le decisioni e le azioni siano appropriate alla metodologia che si è decisa, alle regole che ci si è dati, piuttosto che valutarne l'effettiva utilità per il raggiungimento dei risultati voluti.
E opportuno non perdere mai di vista questi risultati, al fine di controllare che le strade scelte per il loro conseguimento siano sempre adatte.
( ovvero: quando una parte vale per il tutto )
La distinzione tra caso e regola ci riporta al cuore stesso del funzionamento dei dizionari mentali.
Si è detto che il meccanismo per la loro formazione e per il loro continuo aggiornamento si basa sull'estensione a nuove situazioni - cioè a nuovi insiemi di informazioni sul mondo esterno, raccolte di volta in volta dai nostri cinque sensi - dei significati emersi in precedenti analoghe circostanze, quando si stabilì un collegamento tra quel certo quadro sensoriale e le reazioni da esso suscitate al nostro interno.
Si tratta di un continuo lavoro di confronto tra presente e passato che il cervello attua incessantemente, il più delle volte senza che ne siamo consapevoli, per permetterci di capire quello che succede in noi ed intorno a noi e quindi per metterci in condizione di comportarci nel modo più appropriato.
La nostra mente è però talmente abituata a servirsi di questo meccanismo da essere qualche volta portata ad abusarne.
Ciò avviene, ad esempio, quando non ammettiamo eccezioni a quanto registrato nel nostro dizionario mentale e lo riteniamo infallibile: si tratta dei nostri pregiudizi, cioè di quelle idee che ci inducono a interpretare fatti o a giudicare persone sulla base di pochi elementi che si impongono a prima vista per la loro evidenza.
Molti luoghi comuni riguardano l'aspetto fisico delle persone.
Ci si aspetta ad esempio che ad una corporatura rotondetta si accompagni un carattere gioviale, mentre alla magrezza corrisponda una personalità seria e riservata.
Si lega il possesso di una capigliatura rossa ad un carattere ribelle; fatto questo che presupporrebbe addirittura un legame a livello genetico tra le due caratteristiche.
Il modo di vestirsi, il modo di acconciarsi i capelli e di truccarsi sono altri elementi che spesso ci inducono a giudicare basandoci su pregiudizi.
Come ci presentiamo nel nostro aspetto esteriore e nel nostro abbigliamento comporta, piaccia o no, un nostro quasi automatico incasellamento da parte di chi incontriamo ( particolarmente se non ci conosce o ci conosce poco ) all'interno di una specifica categoria di esseri umani con la quale, secondo il suo dizionario mentale, dobbiamo per forza avere in comune certe caratteristiche.
E come si trattasse di una specie di « divisa » che si vorrebbe adatta a distinguerci gli uni dagli altri: così come vedendo andare allo stadio qualcuno con la maglia di un certo colore si ha la certezza della sua appartenenza ad una certa tifoseria, cosi si vorrebbe attribuire tutta una serie di caratteristiche psicologiche partendo esclusivamente dall'aspetto esteriore rispetto al quale nulla hanno a che fare.
Esercizio piuttosto pericoloso questo, tant'è che la saggezza popolare ci mette in guardia sottolineando come l'abito non faccia il monaco.
Ne può sapere qualcosa qualche ragazza adolescente che, alle prese con un corpo che si va modellando giorno dopo giorno, si serva in modo marcato del trucco o indossi abiti che ne sottolineino spiccatamente la femminilità; si tratta certamente di ragazze serie che peraltro, ricorrendo a questo stile per curare il proprio aspetto esteriore, cadono più facilmente e senza rendersene conto nel gioco dei pregiudizi altrui, rischiando di finire nella categoria di « quelle che ci stanno », con conseguenze certamente poco piacevoli se dovessero mai imbattersi in qualche giovanotto esaltato.
Un'altra fertile area di pregiudizi è rappresentata dalle provenienze regionali e, da qualche tempo a questa parte, anche da quelle etniche.
Sovviene alla memoria il noto film « Indovina chi viene a cena », che descrive la difficoltà per una coppia di giovani, lui afro-americano, lei di razza bianca, di convincere le rispettive famiglie, entrambe ottime, ad acconsentire alle loro nozze.
Se il lettore ritenesse oziose queste considerazioni e pensasse che, sì, i pregiudizi esistono, ma sono cose da sempliciotti e chi è un po' accorto ed intelligente sa come difendersene, immagini - quanto più realisticamente gli riesce - di sentire suonare il campanello alla porta di casa, di lasciare il libro, alzarsi, andare ad aprire, trovarsi di fronte un extracomunitario ( albanese, o medio-orientale, o africano, o slavo, o altro ) che, fatto entrare, gli dichiara l'intenzione di sposare la figlia ( o la sorella, o la nipote ).
Pensi alle proprie reazioni emotive e le raffronti a quelle che proverebbe se il giovanotto fosse italiano: la differenza qualitativa tra le due eventualità è l'indice dell'azione dei suoi pregiudizi razziali o etnici.
A proposito, come mai non l'ha neppure sfiorato l'idea che si tratti di un ricercatore universitario, in Italia per portare avanti sofisticate sperimentazioni scientifiche?
Come mai il lettore ha scelto proprio quell'interlocutore avente quella specifica origine nazionale o etnica, tra quelle proposte per questo episodio immaginario?
Non pensa che anche questa scelta risenta di qualche elemento collegabile ai suoi pregiudizi?
É normale avere dei pregiudizi: essi sono, per cosi dire, il sottoprodotto derivante dal funzionamento del nostro dizionario mentale quando si dimentica di ammettere l'esistenza di eccezioni.
Avviene allora che la regola generale faccia violenza sul caso singolo ad un punto tale da negare l'eventualità di una sua esistenza.
Esserne consapevoli serve prima di tutto a mettere in guardia circa la costante presenza dei pregiudizi e secondariamente a suggerire di andare al di là delle apparenze e della prima impressione.
Un'altra forma di possibile confusione tra caso singolo e regola generale si verifica quando, fatta un'esperienza relazionale, ci si aspetta che si ripeta in futuro esattamente alla stesso modo, secondo un copione che, una volta stabilito, non possa se non essere replicato pari pari.
Ivan è ancora fresco di patente e non ha ancora una propria auto.
Rendendosi conto di essere alle prime armi, è prudente e non si lascia prendere dalla smania della velocità.
É sabato ed ha chiesto al padre l'uso dell'auto di famiglia per la sera, ottenendone l'assenso.
Giunta l'ora, caricati gli amici, parte per andare al concerto di un cantautore famoso.
C'è una gran ressa, il parcheggio è quasi esaurito ma con qualche fatica riesce trovare un posticino in cui la macchina entra di misura.
Alla fine del concerto, un po' preoccupato di guidare in mezzo a tanta confusione, aspetta che la maggior parte della gente sfolli, in modo da correre meno rischi.
Quando si avvicina alla macchina, la sorpresa: qualcuno ha urtato lo specchietto esterno danneggiandolo in modo vistoso.
Tutta la soddisfazione per la piacevole serata trascorsa sino a quel momento si dissolve in un attimo per lasciar posto alla preoccupazione delle reazioni paterne.
Dice però tra sé e sé che l'accaduto è del tutto casuale: come avrebbe potuto immaginare una cosa del genere?
Chiunque al posto suo non potrebbe far null'altro se non dispiacersi per l'accaduto.
D'altra parte, non era certamente il caso di rimanere lì tutta la sera a fare la guardia.
L'indomani mattina, da un lato esitante, dall'altro con la sensazione di avere la coscienza a posto, informa il genitore dell'accaduto.
« Lo sapevo! Di tè non ci si può fidare. Per una volta che ti lascio la macchina me la riporti indietro danneggiata. Da ora in poi non se ne paria più » è la replica severa del padre.
Reagendo in questo modo, il padre ha trasformato un episodio, spiacevole fin che si vuole, in una regola.
Ciò lo indurrà a ragionare sul presupposto che tutte le volte future in cui dovesse concedere al figlio l'uso della macchina, gli verrebbe restituita danneggiata.
E possibile che, sbollita la reazione a caldo, egli ritorni su questa decisione.
Tuttavia, quando nelle prossime settimane Ivan avrà a disposizione l'auto, il padre non sarà tranquillo, nella prospettiva di vedere confermata la regola ricavata dall'esito del primo episodio.
Olga è stata molto preoccupata nel corso dei primi anni di vita della figlia Lorella a causa di una polmonite di cui la bimba soffrì quando aveva poco più di un anno.
Era stata una forma virale piuttosto seria, che si era manifestata dapprima con una tosse insistente, poi con la febbre.
Si dovette ricorrere al ricovero in ospedale.
Le cure furono molto efficaci, l'organismo di Lorella reagì molto bene e, alle visite di controllo cui venne sottoposta periodicamente negli anni successivi, il pediatra segnalò la sua completa guarigione, negando la necessità di cautele o prudenze particolari.
Olga però ha sempre tenuto in casa medicine per la cura dell'apparato respiratorio e, al minimo accenno di tosse, le somministra a Lorella.
Si può ben capire, con tutto quello che avevano passato quando era più piccola!
Meglio prevenire che dover poi curare.
Ora Lorella è cresciuta, ha otto anni, e chiede insistentemente di partecipare con le amiche ad un corso di nuoto.
Olga è preoccupata: è inverno e l'idea che, finita la lezione, la figlia passi dal caldo della piscina al freddo esterno, forse senza essere riuscita ad asciugare come si deve i suoi lunghi capelli, la indurrebbe a rifiutare il permesso alla figlia nel timore di vederla cadere ammalata.
Olga ha ragione ad immaginare che la figlia possa ammalarsi se non fa attenzione a ripararsi adeguatamente dal freddo dopo l'ora in piscina.
E l'idea che Lorella corra più rischi delle sue coetanee e che quindi nel suo caso sia necessario negare ciò che alle compagne è normale accordare che va messa in discussione.
L'errore, che rischia di limitare le opportunità per la bambina di fare esperienze sportive e relazionali, nasce dalla trasformazione in regola di un episodio singolo ( la polmonite ) che ne rende agli occhi della madre inevitabile la replica se solo si cali per un attimo la guardia.
Analoghe forme di trasformazione in regola generale di episodi singoli si riscontrano in ambito scolastico.
Una considerazione molto diffusa tra universitari rileva come, se i primi voti registrati sul libretto sono buoni, sarà più facile continuare ad averne di buoni anche negli esami successivi.
E probabile che ciò avvenga perché chi sa applicarsi ed ha i mezzi intellettivi per superare con successo un primo esame potrà usare queste sue risorse per ottenere una buona votazione anche in quelli successivi.
D'altra parte, non stupirebbe se l'esaminatore, consultato il libretto dello studente ancor prima di averlo interrogato e preso atto della votazione registrata dai colleghi di altre discipline, ne ricavasse la previsione di una analoga buona preparazione.
Questa previsione potrebbe influire sia sulla scelta del grado di difficoltà dei quesiti che verranno posti, sia sulla valutazione complessiva.
Certamente questo meccanismo non permette ad uno studente impreparato di superare un esame, ma di spuntare qualche trentesimo in più, forse sì.
Analogamente, sempre in ambito scolastico e con riferimento alle medie ed alle superiori, la votazione ottenuta da uno studente nella prima prova di verifica o nella prima interrogazione quando incontra una nuova materia o un nuovo professore ha qualche possibilità di influire, positivamente o negativamente a seconda dei casi, sulle votazioni ottenute in successive occasioni.
Anche in questi casi, il singolo episodio può essere interpretato come regola e influire al di là della sua specifica portata.
Alfredo e Caterina dopo otto anni di matrimonio si sono separati.
Ultimamente la loro convivenza era diventata veramente pesante: lunghi mutismi, provocazioni, ripicche.
É stato duro per entrambi arrivare alla decisione di separarsi.
Sembrava impossibile che il loro progetto matrimoniale dovesse andare in fumo: ci avevano creduto entrambi.
Gli inizi erano anche stati promettenti e sembravano confermare tutte le loro speranze.
Poi con il passare del tempo, non si capisce bene come - forse la stanchezza, forse la routine - ad un certo punto si sono trovati lontani ed è diventato sempre più difficile ricucire un'intesa.
Preso atto che non volevano più sopportare questo matrimonio diventato per loro una fatica, sono andati dall'avvocato ed hanno fatto quanto serve nella circostanza.
Dalle loro incomprensioni, stranamente e fortunatamente, era rimasto estraneo il loro figlio Enzo di sei anni, per il quale entrambi nutrono un grande amore.
Certo, egli ha assistito alle scenate ed ai bisticci; ma questi non hanno mai avuto spunto da qualcosa che lo riguardasse e non vi è quindi mai stato coinvolto.
Con la separazione di solito si spera di far finire la guerra, ma in alcuni casi la guerra continua anche dopo.
Quello di Alfredo e Caterina è un caso di questi.
Prima di separarsi avevano finito per giudicarsi rispettivamente un pessimo marito ed una pessima moglie, ma avevano sempre pensato che ciascuno dei due fosse un buon genitore.
Enzo è stato affidato alla madre, con la clausola di poter incontrare il padre due volte alla settimana e per la durata del week-end ogni quindici giorni.
Forse anche a causa dei conti rimasti aperti sul piano psicologico, si è insinuato in entrambi i genitori il dubbio sulla adeguatezza dei sistemi educativi dell'altro.
Non avendo più nulla di condiviso su cui scontrarsi, rimane loro una sola possibilità: combattersi attraverso l'unica realtà che hanno ancora in comune, cioè il figlio.
In questa prospettiva, un buon modo può essere quello di tentare di accaparrarsi Enzo per un tempo maggiore ed assumere così un ruolo educativo più influente.
Ed ecco che cominciano a giocare sugli orari: Alfredo cerca di anticiparne l'inizio e ritardarne la fine; Caterina trova sempre qualche buon motivo per telefonare all'ultimo momento che c'è qualche imprevisto e non potrà essere puntuale.
Lui ancora cerca di ricuperare chiedendo delle eccezioni per tenere il figlio anche in momenti non previsti dagli accordi; lei tiene duro ...
Si instaura in questo modo un clima di tensione e di sospetto, fatto di telefonate, discussioni, rivendicazioni e ritorsioni, che ha come unico risultato ... quello di mettere in difficoltà Enzo, il quale, volendo bene ad entrambi i genitori, si sente stiracchiato da una parte e dall'altra.
E come se implicitamente ciascuno dei due gli chiedesse di dargli il primo posto nel suo cuore e ciò lo fa stare male perché lui, come ogni bambino, ha bisogno di mantenere uno spazio per tutti e due.
Ecco poste le premesse perché queste tre persone vivano male i loro collegamenti vitali per i prossimi anni, almeno sino a quando Enzo sarà abbastanza grande per poter avere più iniziativa nell'organizzare il suo rapporto con ciascun genitore.
In questo modo, lasciandola fare quasi si trattasse di una piovra, si permette ad una regola generale ( « non siamo capaci ad andare d'accordo » ), di inglobare nei suoi tentacoli un'area ( quella educativa ) che sino ad un certo punto veniva organizzata secondo una diversa impostazione ed era rimasta proprio per questo fortunatamente salvaguardata.
Come dire: « Visto che hai dimostrato di non saper essere un buon coniuge, non puoi essere neppure un buon genitore ».
A proposito di confusioni, se ne riscontra frequentemente una proprio nei casi di separazione coniugale di coppie con figli.
Si sa che il provvedimento di separazione in queste occasioni prevede tempi e modi di affidamento dei figli all'uno e all'altro genitore.
Questi spazi di tempo sono spesso interpretati e vissuti dall'adulto come un suo diritto a godere della vicinanza dei figli.
Il concetto di diritto comporta l'idea di qualcosa da godere a proprio vantaggio cosicché uno dei due si sente privilegiato quando ne fruisce e ritiene privilegiato l'altro quando è lui a beneficiarne.
E così che prende corpo la possibilità di cercare di danneggiare l'ex partner, con l'intenzione forse di sistemare vecchi conti in sospeso, proprio mettendolo in difficoltà nel godere del privilegio di avere con sé i figli in determinati momenti.
Di qui il possibile ricorso a tutta una serie di azioni di sabotaggio, come ritardi, contrattempi costruiti ad arte, malattie dei bambini inventate ... sino a giungere ad una vera e propria pressione psicologica sui figli per demolire al loro cospetto la figura dell'altro genitore, affinché creino essi stessi problemi nel momento in cui devono incontrarlo.
La confusione risiede nel fatto che i periodi di affidamento rispettivamente a padre e madre non sono loro diritti, ma sono diritti dei bambini: sono infatti tempi che devono servire ai figli per usufruire di un rapporto educativo con entrambi i genitori, anche se separati.
La legge pensa in questo caso a tutelare il bisogno dei più piccoli di avere un papa ed una mamma, anche se a tempo parziale, affinché da ciascuno dei due abbiano l'appoggio affettivo e psicologico necessario per crescere.
Non c'è esitazione a definire irresponsabile chi, ricorrendo a espedienti pretestuosi, cerca di sottrarre un genitore ad un bambino ( e non, al contrario, un bambino ad un genitore ) che ha bisogno di sentirlo presente nella sua vita, stargli insieme, rispettarlo, obbedirlo, andarne fiero, amarlo.
Le lotte tra adulti, i dispetti che si fanno tra di loro strumentalizzando i figli, mentre secondo le loro intenzioni creano problemi all'ex coniuge, danneggiano sempre i bambini, che si trovano a fare le spese di incomprensibili beghe tra grandi.
Si dia allora a Cesare quel che è di Cesare: prima viene il diritto di un figlio a godere del rapporto educativo con entrambi i genitori, poi eventualmente la gratificazione dell'adulto quando ha con sé il figlio.
Il più diffuso modo di confondere il particolare con il generale nelle relazioni tra le persone consiste nel considerare un comportamento osservato in un individuo e su questa base cucirgli addosso un certo quadro di caratteristiche personali.
Incontriamo per la strada una coppia di amici con la loro figlioletta, una bambina di tre anni.
É una bambina buona e obbediente, ma in questo momento sta facendo, e con molto impegno è il caso di dire, uno dei suoi rari capricci.
Il commento che facciamo dopo esserci congedati e mentre continuiamo per la nostra strada è: « Però, come è capricciosa questa bambina! ».
Si noti, diciamo che la bambina « e capricciosa », non che la bambina « in questo momento sta facendo un capriccio ».
Qualcuno potrà dire che si tratta di un gioco di parole che non modifica la sostanza.
La sostanza ne è modificata, e come!
Dicendo infatti che una bambina capricciosa, si definisce una sua caratteristica e ciò fa supporre, qualora la si incontri in altri momenti, di continuare a vederla pestare i piedi.
Diversamente, dire che una bambina sta facendo i capricci, si limita a descrivere una circostanza momentanea, che lascia libera la nostra mente - e soprattutto la bambina - da previsioni comportamentali.
Si noti che questa differenza condiziona i nostri futuri modi di rapportarci con la bambina.
Secondo la prima modalità, potremmo evitare di invitarla a giocare con i nostri figli, affinché essi non imparino a fare i capricci; nel secondo caso saremmo liberi di decidere di farli divertire con lei.
É grande la differenza esistente tra qualificare qualcuno con un aggettivo e, diversamente, descrivere un suo comportamento.
Un comportamento si può cambiare, una caratteristica personale no!
Eppure tutte le volte in cui usiamo un aggettivo cadiamo in questo tranello in cui restano imprigionati i nostri interlocutori e noi con essi.
Quel certo parente è « ingrato », quel marito è « disattento », quel figlio è « ribelle », quel collega è « incompetente », quel professore è « incomprensibile », quell'amico è « piacevole » e così via: in questo modo andiamo costruendoci un mondo statico, prevedibile, fatto di persone che portano cucite addosso queste caratteristiche e rispetto alle quali ci comportiamo in modo immutabile, in coerenza con ciò che le contraddistingue.
Così eviteremo il parente « ingrato »; non chiederemo nessun aiuto, pur avendone bisogno, da un marito che sappiamo « disattento »; ci premuniremo nel caso dovessimo discutere con un figlio « ribelle »; anche se subissati di lavoro eviteremo di cercare collaborazione da un collega « incompetente »; non presteremo attenzione ad un professore « incomprensibile »; organizzeremo il nostro tempo libero con l'amico « piacevole ».
Soprattutto quando nascono difficoltà, questi aggettivi si irrigidiscono e finiscono per escludere la flessibilità necessaria a trovare le vie d'uscita.
Laura è la seconda di tre sorelle.
É sempre stata considerata la saggia di famiglia.
Fin da piccola ha saputo far fronte alle situazioni con molta efficacia.
La madre, una donna semplice e piena di problemi, non sempre riusciva ad affrontare gli imprevisti, ed allora si rivolgeva a Laura e Laura trovava il modo di sistemare tutto.
D'estate, ad esempio, le tre sorelle venivano mandate insieme in una colonia estiva al mare ed era a Laura che veniva affidata la gestione del trio, anche della sorella maggiore di due anni.
A tutti i bambini, quando sono lontani dal loro ambiente, viene la nostalgia, ma Laura doveva scacciarla in fretta, perché doveva consolare le sorelle.
Qualche volta arrivava a rinunciare al gelato perché non mancasse alle altre.
Non c'è che dire, una vera donnina saggia e responsabile.
Inizia per Laura l'adolescenza ed è per lei un momento molto difficile: piange spesso, è depressa, passa molto tempo chiusa nella sua stanza.
Sente che sta lasciando l'infanzia, che quelle coccole della madre, da lei sempre sperate e ricevute distrattamente e con il contagocce, ormai non verranno più e non sa rassegnarsi.
I genitori e le sorelle non possono capire questo cambiamento di Laura e continuano ad aspettarsi da lei l'efficienza abituale.
Più la ragazza è depressa, più i familiari la sollecitano con richieste di servizi che riesce a soddisfare con sempre maggiore fatica.
I risultati scolastici, sino a quel momento eccellenti, scadono vistosamente.
Anche i nonni e gli zii sono stupiti.
Da lei non se lo sarebbero mai aspettato.
Quante volte l'avevano lodata senza riserve!
Questa non è la Laura che conoscono e apprezzano: Laura la saggia, Laura l'efficiente.
Laura è rimasta prigioniera delle caratteristiche che le sono state attribuite in famiglia e nessuno si sogna che una ragazzina dimostratasi sempre matura e con i piedi per terra si perda dietro al bisogno di un po' di calore, di qualche carezza e di comprensione che la aiutino ad uscire dalle sue difficoltà e ritrovare il suo sorriso.
I comportamenti saggi, maturi, efficienti di Laura sono stati confusi con Laura.
L'effetto negativo derivante dalla confusione tra comportamenti e caratteristiche delle persone si amplifica notevolmente quando è uno specialista, una autorità in materia, a pronunciarsi: in questi casi l'etichetta attribuita rimane incollata addosso alle persone, talvolta a dispetto di qualsiasi evidenza contraria.
Circa otto anni fa, Claudio, nel corso del suo servizio militare, venne assalito da strani disturbi che lo allarmarono molto.
Gli capitava improvvisamente di sentirsi mancare, di avvertire sudori freddi, formicolio alle mani ed il cuore che batteva all'impazzata.
La prima volta si era spaventato, ma pensava si trattasse di un episodio isolato, forse attribuibile a difficoltà di digestione.
Invece la cosa si ripeté più volte e ciò lo indusse a richiedere l'intervento dell'ufficiale medico che lo inviò all'ospedale militare.
Dopo essere stato visitato dagli specialisti, gli venne detto che risultava perfettamente sano e che il suo disturbo era di origine nervosa.
Gli fu comunicata in quell'occasione la diagnosi di nevrosi d'ansia e gli furono prescritte alcune medicine.
Gli episodi problematici si diradarono, senza però scomparire del tutto.
Tornato alla vita civile, Claudio volle informarsi sulla natura della sua difficoltà che di tanto in tanto continuava a rifarsi viva ed il medico di famiglia gli spiegò che si trattava di una specie di fragilità del suo sistema nervoso, che aveva più probabilità di presentarsi in occasioni stressanti.
Forte di questa spiegazione, Claudio cercò di organizzare la sua vita in modo da contenere nei limiti del possibile le tensioni ( senza peraltro che ciò comportasse grandi rinunce ) e, dopo qualche anno, l'incidenza delle sue crisi si era ridotta ad una ogni sette o otto mesi.
Nel frattempo si è sposato ed ha avuto una figlia.
A Claudio è stata offerta in questi giorni una favorevole occasione lavorativa, che gli permetterebbe di migliorare professionalmente e di ricoprire un ruolo di maggiore responsabilità.
È intenzionato ad accettare, ma la moglie insiste per cercare di dissuaderlo, in questo appoggiata anche dai suoceri, in quanto pensa che il nuovo ruolo comporti maggiori preoccupazioni e che queste non siano tollerabili dalla nevrosi d'ansia del marito.
Conclude dicendogli di decidere pure come meglio ritiene, ma, se decidesse affermativamente, sappia che a lei la vita futura risulterebbe difficile perché non si sentirebbe mai tranquilla.
Otto anni sono passati dalla diagnosi.
Da allora la vita di Claudio è stata del tutto normale.
Da molto tempo non assume più farmaci.
Ha superato senza problemi lo stress di adattamento iniziale alla vita matrimoniale e si è lasciato dietro le spalle senza grandi affanni anche il difficile periodo passato alla nascita della figlia per le sue problematiche condizioni di salute, poi fortunatamente risolte.
In sostanza, pur in presenza di situazioni comportanti tensione, l'incidenza del suo disturbo è stata trascurabile.
Eppure, malgrado tutto, quella diagnosi è ancora fonte di inquietudine e rischia di condizionare la serenità della sua famiglia e dei suoi collegamenti vitali.
La diagnosi sembra non doverlo più abbandonare ed ha finito per essere più forte dei fatti e dei dati dell'esperienza.
Si potrebbe suggerire, quando ci si trova in una situazione relazionale che crei qualche difficoltà, di provare a rivolgersi ai propri interlocutori badando esclusivamente a come ce li troviamo di fronte in quel momento, cercando di lasciar da parte gli aggettivi che abitualmente usiamo per descriverli e che rischiarne di appiccicare loro addosso.
Far uso di questo accorgimento ci offre molte più scelte nell'organizzare i nostri collegamenti vitali che si liberano in questo modo dalla rigidità di valutazioni scorrettamente definitive sulle persone.
É necessario tenere conto dei molti livelli di complessità che presenta ciascun collegamento vitale.
Non considerare questa complessità può portare a conclusioni sbagliate che a loro volta comportano decisioni sbagliate.
Ci si può preoccupare esclusivamente di un sintomo che segnala l'esistenza di un problema e perdere di vista il problema stesso.
Ci si preoccupa così solamente di eliminare il fastidio rappresentato dal sintomo senza accorgersi del persistere del problema.
Ci si può concentrare sul metodo pensato per raggiungere uno scopo e, nel corso della sua applicazione, farne una questione di coerenza al punto da non accorgersi quando non da i risultati voluti e continuare così ad usarlo indipendentemente dalla sua utilità.
Tenere sotto continuo controllo i mezzi usati per raggiungere lo scopo di un collegamento vitale permette di decidere di cambiarli quando essi non si dimostrino efficaci.
Ci si può lasciar impressionare da una singola caratteristica di una persona o di una situazione e fare coincidere questa stessa caratteristica con la nostra considerazione di quella situazione o di quella persona intese nella loro globalità.
Si tratta di tenere sotto controllo i propri pregiudizi e soprattutto di evitare di imprigionare chi incontriamo negli aggettivi che usiamo per descrivere i suoi comportamenti.
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4 | Naturalmente meritano ben altre considerazioni le situazioni in cui i figli sono esclusivamente preoccupati di «scaricare» i loro anziani genitori |