Proviamo a capirci |
Sino a questo momento abbiamo presupposto che i possibili problemi, provocati dalla diversità dei dizionari mentali, si esauriscano nella difficoltà a comprendersi.
L'esperienza ci insegna però che è facile passare dall'incomprensione al conflitto.
Quando due persone sono vincolate in modo tale che possono cercare una risposta a determinati loro bisogni esclusivamente all'interno di un loro collegamento vitale, ma contemporaneamente i loro rispettivi modi di interpretare la realtà sono diversificati, al punto che il modo di cercare risposta al proprio bisogno da parte dell'una impedisce di soddisfare in tutto o in parte il bisogno dell'altra, nasce un conflitto.
Prigioniero del proprio dizionario mentale, ciascuno dei due giudica sbagliato il ragionamento dell'altro e si impegna con tutte le sue forze a far prevalere la propria idea o la propria esigenza.
Così facendo si ostacolano vicendevolmente, creando situazioni senza via d'uscita, accompagnate da disagio, tensione, talvolta aggressività.
Sono le situazioni difficili della vita: conflitti tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra fratelli, tra colleghi, tra allievi ed insegnanti; e l'elenco potrebbe allungarsi.
L'atteggiamento più frequentemente riscontrabile è quello appena citato di cercare di accaparrarsi la maggior parte di vantaggio l'uno a scapito dell'altro.
Detto diversamente, quanta più ragione riesco a conquistarmi, tanto minore è la ragione dell'altro.5
É quanto succede nelle guerre tra gli stati: combattono per invadersi reciprocamente e, quanto più vasto è il territorio conquistato da uno, tanto maggiore è l'estensione di quello perso dall'altro.
Questo è il meccanismo attraverso il quale nasce la competizione e non a caso si è fatto ricorso all'esempio della guerra.
Quando c'è competizione, tutte le energie e le risorse dei contendenti sono impiegate nello sforzo di prevalere, di vincere, di sentirsi riconosciuta la ragione, di arrivare a far ammettere il torto all'altro.
Presa da questo sforzo, è possibile che di tanto in tanto la mente dei concorrenti sposti la percezione del problema dalla difficoltà incontrata alla persona che è di intralcio.
Nel caso di due genitori in conflitto tra di loro sul metodo educativo da usare con i figli può darsi che il problema da loro percepito non sia più quello di non riuscire a trovare il modo migliore per allevare i figli; ma diventi il proprio coniuge che la pensa in un modo diverso.
Egli può diventare il « nemico » da battere: pertanto l'obiettivo cambia e il risultato cui sono destinati gli sforzi diviene quello di costringere l'altro a cambiare idea.
Si noti che far cambiare idea all'altro non significa trovare la miglior soluzione al problema: significa solo averla vinta.
La convinzione su cui si fondano questi tentativi consiste nel ritenere che per venire a capo di un conflitto bisogna per forza che ci sia un vincitore e un vinto, qualcuno a cui sia riconosciuta la ragione e qualcuno che ha torto.
Tale convinzione, oltre ad essere profondamente sbagliata, rappresenta un grande ostacolo nella ricerca delle soluzioni.
Il tentativo di entrambi di prevalere sull'altro li porta infatti il più delle volte a paralizzarsi reciprocamente - ad una situazione di stallo, direbbe l'appassionato di scacchi -, in cui nessuno riesce a fare un passo avanti ed in cui tutti finiscono per essere perdenti.
Un'interessante possibilità per cercare di risolvere i conflitti consiste nel fare in modo che vincano entrambi gli interessati.
A prima vista questa sembra una prospettiva ingenuamente illusoria.
Può apparire meno irrealistica qualora si consideri che vincere non comporta necessariamente prevalere, guadagnare o surclassare.
Possono vincere tutti e due se si accontentano di vincere meno.
Questa impostazione presuppone di evitare di percepirsi come nemici o come antagonisti, ma di usare insieme le rispettive intelligenze, capacità ed esperienze della vita per guardare prima di tutto in faccia il vero nemico: quello reale, rappresentato dalla difficoltà che sta all'origine del conflitto, e per combatterlo con maggiori probabilità di successo potendo far conto sulle risorse di entrambi.
Nel caso dei due genitori che sono in conflitto sul tipo di educazione da dare ai figli, il vero nemico non è il coniuge, ma il fatto che educare è difficile.
In un conflitto di coppia, il vero nemico non è il consorte, ma forse il fatto che ci si vede poco e di corsa a causa degli orari, che non c'è tempo per dialogare e quando lo si trova si è così tesi e stanchi da far fatica a sopportarsi ...
In un conflitto con un figlio sedicenne, il vero nemico non è lui, ma la sua adolescenza che scompagina le regole familiari che sono andate bene fino al giorno prima.
Il suggerimento è quello di riunire, una volta capita qual è la difficoltà, tutte le risorse dell'uno e dell'altro alla ricerca della soluzione; che finirà per non essere né quella da cui è partito il primo né quella del secondo.
É l'atteggiamento che, in modo figurato, nel titolo del capitolo indichiamo con l'espressione « sedersi dalla stessa parte del tavolo ».
Quando si discute è facile immaginarci seduti l'uno di fronte all'altro, a cercare di far prevalere la nostra idea.
Si potrebbe quasi pensare che il piano del tavolo rappresenti il campo della discussione e, simbolicamente, diventi lo spazio che ciascuno dei due cerca di conquistare a svantaggio dell'altro.
Chi è seduto di fronte diventa la forza che ostacola queste mire espansionistiche e come tale diventa il nemico da battere.
Se invece ci raffiguriamo seduti fianco a fianco dallo stesso lato del tavolo, cambia completamente la nostra prospettiva, non solo percettiva, ma anche psicologica.
Ciò comporta infatti di collocare davanti ad entrambi, anziché l'interlocutore, il nemico reale, cioè il problema dal quale siamo attanagliati tutti e due, con tutte le complicazioni e tutti gli impedimenti che introduce nelle nostre vite, per trovare, come accennato più sopra, comportamenti alternativi rispetto a quelli abituali, mostratisi insoddisfacenti.
Ne « I promessi sposi », Alessandro Manzoni ci offre un'arguta descrizione di una situazione che possiamo considerare indicativa di quanto può avvenire quando non si identifica il nemico comune e si finisce per combattersi l'un l'altro.
Si tratta dell'episodio in cui si racconta di Renzo che cammina per le strade di Milano per andare a consultare l'avvocato Azzeccagarbugli.
Come ricordiamo, egli reca con sé la parcella in natura destinata all'avvocato, rappresentata da quattro capponi.
Ed ecco come Manzoni descrive e commenta la scena: « Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all'in giù, nella mano di un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente.
Ora stendeva il braccio per collera, ora l'alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura ».
Spesso le cose non vanno altrimenti nelle situazioni conflittuali che viviamo: ci si « becca » reciprocamente senza concludere nulla.
Giacomo e Adelina sono due giovani Sposi.
Il loro bilancio familiare è piuttosto modesto.
Lui, a causa dell'ancor giovane età, è ai primi passi nel lavoro e quindi la retribuzione non è granché.
Lei sta cercando un'occupazione, ma non riesce a sistemarsi nonostante le decine di domande di lavoro e di colloqui di assunzione sostenuti.
La conseguenza di questo stato di cose è che devono essere un po' accorti nelle loro spese.
Siamo al venti del mese e, mettendo insieme tutte le loro disponibilità, arrivano appena appena a centomila lire.
Si impone la necessità di fermarsi e di fare il punto sulla situazione.
Ne nasce una discussione.
Lei rimprovera a lui di essere andato tutte le domeniche alla partita, lui ribatte che è lei a non essere abbastanza attenta nelle compere e nell'amministrazione del bilancio domestico.
Entrambi insistono nella loro convinzione.
Intanto i giorni che separano dalla prossima busta paga continuano ad essere dieci e il denaro disponibile resta sempre centomila lire.
Ciascuno dei due vede nell'altro la causa delle ristrettezze finanziarie, lo percepisce come il nemico che ha provocato la difficoltà e si adopera per sconfiggerlo.
Il nemico reale però è un altro per entrambi: sono i dieci giorni che sono tanti perché le centomila lire di cui dispongono possano bastare.
Se si sedessero dalla stessa parte del tavolo e guardassero in faccia quello che è il loro vero avversario del momento, potrebbero ingegnarsi a trovare il modo di venirne fuori, anziché perdere tempo in sterili accuse reciproche.
Ester e Nunzia insegnano entrambe in una quinta elementare.
Ester ha la responsabilità del modulo di lingua e Nunzia di quello di aritmetica.
Si è circa alla metà dell'anno scolastico: la fine del ciclo elementare è ormai imminente ed entrambe ritengono a questo punto necessario un consolidamento della preparazione degli alunni, tale da metterli nelle condizioni più favorevoli per iniziare le medie.
Di conseguenza finiscono tutte e due per richiedere nello stesso momento un impegno più intenso del solito nei compiti a casa.
A questa impegnativa richiesta di applicazione hanno saputo rispondere solo pochissimi bambini.
Sempre più spesso infatti molti genitori giustificano i figli per non essere riusciti a fare l'uno o l'altro dei compiti assegnati.
Questo rappresenta un intralcio per gli obiettivi didattici delle maestre.
Dapprima se la prendono con i genitori che sono troppo protettivi.
Poi si accorgono che effettivamente il carico di lavoro complessivamente richiesto non è da poco e decidono di affrontare il problema.
Ester sottolinea l'esigenza che gli alunni facciano molti esercizi di grammatica, avendo notato che parecchi di essi denunciano incertezze e fanno spesso errori di ortografia.
Non si può certo mandarli alle medie senza che sappiano scrivere come si deve e chiede pertanto, se si vuole ridurre i compiti, di non intervenire sulla sua area.
Nunzia per parte sua nota la scarsa familiarità che molti alunni dimostrano con la tavola pitagorica.
Alle medie, si sa, danno per scontate queste conoscenze, per cui bisogna sfruttare il tempo rimanente e colmare la lacuna.
Ridurre l'impegno in quest'area sarebbe veramente controproducente.
Due posizioni incompatibili, in cui Ester vede in Nunzia un ostacolo ai suoi programmi ed alla possibilità di far bene il proprio lavoro e viceversa.
Ciascuna delle due insiste nella propria valutazione, sottolineando i buoni motivi a sostegno del proprio punto di vista.
Quanto più va avanti la discussione, tanto più le posizioni si irrigidiscono.
Anche in questo caso le due maestre sbagliano a fronteggiare la collega come se si trattasse di una concorrente in una competizione.
Il loro avversario reale è un altro: consiste nelle limitate capacità di mantenere a lungo la concentrazione tipiche dei bambini di dieci anni.
Il problema-nemico va allora diversamente formulato: come fare a ottenere il miglior risultato realisticamente possibile nel ricupero contemporaneo delle nozioni di lingua e di aritmetica, tenuto conto che gli alunni hanno dei limiti nelle loro risorse di applicazione allo studio?
Chissà se le due insegnanti vorranno sedersi dalla stessa parte del tavolo e fare un uso congiunto delle rispettive professionalità per sconfiggere il nemico comune!
Dopo i primi tempi di matrimonio, la vita intima di Toni e Franca ha cominciato ad essere insoddisfacente.
Lui si aspetterebbe da lei più iniziativa, più fantasia e creatività.
Lei pensa che Toni abbia sempre in mente « quello » e si sente usata.
È difficile parlare di certi argomenti.
Sulle prime tutti e due si sono tenuti dentro questa loro insoddisfazione, poi le loro reazioni nell'intimità sono state così evidenti da costringerli ad affrontare la situazione.
Franca dice a Toni che lui non la rispetta, non le dimostra attenzioni, non la corteggia, per cui l'atto coniugale le è diventato qualcosa di dovuto, di concesso al desiderio del marito, e da cui ultimamente sempre più spesso non riesce a trarre appagamento.
Lui replica che non si sente incoraggiato a coccolarla perché la vede fare le cose per forza, senza nessun trasporto ne partecipazione.
Mai una volta che lei si lasci andare, per cui anche per lui le occasioni di intimità sono diventate un specie di faccenda da sbrigare senza entusiasmo e senza farsi troppe illusioni.
Lei vede in lui il torto di non curarsi dei suoi sentimenti e delle sue emozioni; lui dice che è lei a sbagliare perché non risponde con naturalezza e con spontaneità quando lui si fa avanti.
Il loro modo di porsi l'uno rispetto all'altra presuppone che o ha ragione Toni o ha ragione Franca; come sempre nel caso delle alternative, l'unico modo di uscirne consiste nel cercare di far pendere il piatto della bilancia dalla propria parte, piegando il comportamento dell'altro all'interno dei propri schemi.
Naturalmente ciascuno dei due punta su questo obiettivo, con il risultato di ostacolarsi a vicenda e di continuare a vivere in modo scadente le loro occasioni di intimità.
Sedersi dalla stessa parte del tavolo significa in questo caso sfuggire alla tirannide dell'alternativa: « o ha ragione l'uno o ha ragione l'altra », per entrare nella diversa logica che: « e ha ragione l'uno e ha ragione l'altra ».
Ha ragione Franca quando sente l'esigenza di essere corteggiata e ha ragione Toni ad aspettarsi una maggiore ricchezza di espressioni dalla loro intimità.
Il vero nemico va allora individuato nella difficoltà a far convivere queste diverse esigenze, tutte e due degne di attenzione e di rispetto ed entrambe meritevoli di sforzo in vista della loro soddisfazione.
L'ultimo caso citato aiuta a cogliere con chiarezza il meccanismo che permette di coordinare le risorse possedute dai due interlocutori in questione: passare dalla logica dell'alternativa tra le rispettive posizioni alla logica della loro conciliabilità, in altre parole da « o l'una o l'altra » a « e l'una e l'altra ».6
Si noti che non si sta suggerendo di mercanteggiare una possibile soluzione, cioè di arrivarvi attraverso reciproche concessioni, cedendo su qualcosa pur di ottenerne qualche altra in cambio, o di aprire un negoziato per raggiungere un compromesso.
Questi accorgimenti hanno la caratteristica di continuare a vedere il proprio interlocutore come un contendente.
Si tratta di una visione limitante.
Negoziare e cercare il compromesso sono certamente atteggiamenti di utilità corrente e non si vuole metterli in discussione.
Ma sedersi dalla stessa parte del tavolo comporta un'attitudine diversa.
La sua originalità sta nel fatto che, così facendo, si riconosce a pieno titolo al proprio interlocutore la facoltà di aspettarsi qualcosa di diverso rispetto a ciò che rientra nella nostra prospettiva.
Pertanto, egli perde ai nostri occhi l'immagine di chi non capisce ( e quindi sbaglia per ignoranza ), o di chi non è all'altezza ( e quindi sbaglia per incapacità o per negligenza ), o di chi si cura solo del proprio tornaconto ( e quindi sbaglia per egoismo se non addirittura per disonestà, tentando di strumentalizzarci e di asservirci ai suoi capricci ).
Al contrario, gli riconosciamo di essere una persona intelligente, competente ed onesta che, partendo dal suo dizionario mentale, ha elaborato una giusta aspettativa, non immediatamente armonizzabile con la nostra aspettativa altrettanto giusta per intelligenza, competenza ed onestà, ma degna di essere perseguita.
Essendo poi coinvolti nello stesso collegamento vitale, non possiamo risolvere la nostra esigenza se non risolvendo anche la sua. Così ragionando, conviene a tutti e due dare fiducia all'altro, cercando di aiutarlo nel dar risposta alla sua aspettativa per aspettarci a nostra volta una corrispondente prova di fiducia da parte sua nell'agevolare la soluzione al nostro bisogno.
Come si nota, è una visione diametralmente opposta rispetto a quella di chi cerca puramente e semplicemente di massimizzare il proprio tornaconto con l'atteggiamento tipico di chi tira l'acqua al suo mulino.
Saremmo ingenui idealisti, fors'anche un po' superficiali, se pensassimo in questo modo di aver trovato la chiave per risolvere tutti i conflitti, il rimedio per ogni male.
Si è parlato di fiducia ( ci riferiamo a quella autentica, non a quella che sarebbe più opportuno chiamare ingenuo candore ) e ben sappiamo quanto delicato sia chiedere e concedere fiducia.
Non si può perciò pensare di adoperare la strategia descritta sempre e con chiunque; possiamo tuttavia tenerla presente in un grande numero di casi come un'efficace ed interessante alternativa rispetto all'abituale modo di affrontare situazioni conflittuali.
Quando ci si trova in una situazione di conflitto, è facile considerare chi ci sta di fronte come un avversario.
Ne deriva la tendenza a rivaleggiare per ottenere il maggior vantaggio possibile.
Essendo questo atteggiamento presente in entrambe le parti in gioco, spesso esse si paralizzano a vicenda e non riescono a venir fuori dal conflitto.
E possibile guardare ad un conflitto come ad una situazione in cui c'è un nemico comune rappresentato dalle condizioni che ne rendono difficile la soluzione e delle vittime, cioè tutte le persone coinvolte che ne patiscono le conseguenze.
Secondo questa prospettiva è possibile pensare di « sedersi dalla stessa parte del tavolo », cioè di riunire le forze di tutti per creare cosi condizioni più favorevoli per abbattere il nemico comune.
Indice |
5 | Questo tipo di situazione viene definito dagli studiosi a sommatoria zero nel senso che il vantaggio conseguito da un eventuale vincitore corrisponde esattamente allo svantaggio del perdente ( somma algebrica tra vantaggio e perdita = 0 ) |
6 | Si tratta di una situazione definita a sommatoria non uguale a zero in quanto produce un vantaggio per entrambi gli interlocutori ( la somma dei rispettivi vantaggi porta ad un risultato positivo e quindi diverso da zero ) |