Escatologia
Sommario
I - IntroduzioneNon si vuole fare qui un discorso sistematico sull'escatologia cristiana, neppure delinearne brevemente i contenuti e le tensioni attualmente presenti nella riflessione teologica.1 Seguendo l'impostazione generale di questo dizionario, si vuole principalmente cogliere la relazione tra i movimenti spirituali, visti storicamente, e l'escatologia. Questa relazione si configura secondo due direzioni fondamentali: si tratta dapprima di delineare il rapporto tra il carisma religioso-ascetico e la tensione escatologica, e successivamente di vedere come i movimenti religiosi intendono l'escatologia, se hanno cioè un modo specifico proprio di intendere le ultime realtà. Rimane così abbozzato il contenuto del discorso che verrà sviluppato; il metodo invece vuole essere piuttosto deduttivo: si parte cioè dall'esperienza storica dei vari movimenti religiosi e si cerca di lasciare parlare la sua anima inferiore. Il presupposto teorico di questo metodo sta nella convinzione che la mistica possiede un suo proprio e specifico modo di fare teologia; essa ha, accanto ad altre particolarità, un suo "carisma teologico", essa è un luogo teologico nel senso tecnico del termine. Anzi, nella misura in cui la mistica rappresenta l'esperienza storica della fede, il discorso teologico, che intende fare, è un discorso direttamente congiunto con la prassi, e quindi tipicamente moderno, profondamente attuale.2 Mentre infatti la teologia dogmatica si è storicamente sviluppata come riflessione critica sulla fede prevalentemente in dipendenza dal pensiero filosofico dominante in un determinato tempo, la teologia monastico-mistica si è sempre tenuta ancorata all'esperienza interiore del mistico e all'esperienza comunitaria del movimento religioso. Gli scritti dei mistici non sono stati come prima cosa una trattazione teorica di verità di fede, ma prevalentemente una descrizione di ciò che il mistico aveva vissuto dentro di sé; essi sono dunque stati il tentativo di dare voce ad esperienze interiori profonde e indicibili. Rimane così chiarito sia il contenuto del discorso che vorremmo fare, su che cosa vorremmo parlare, sia il metodo, il taglio del discorso, come si dice più frequentemente oggi. Volendo ora anticipare molto sinteticamente la tesi di questo lavoro, conviene dare subito la parola a una delle più grandi autorità nel campo della mistica e nella stessa teologia che ad essa si ispira: a s. Bernardo di Chiaravalle. Questo grande padre della chiesa scrisse la maggior parte dei suoi sermoni sul mistero dell'ascensione di Cristo.3 Nella contemplazione di questo mistero egli trovò la ragione profonda di tutta l'esistenza del monaco. Ma nell'ascensione è appunto la tensione escatologica che viene tematizzata; è la Gerusalemme celeste che viene contemplata come fine al quale tende la vita religiosa. Il ragionamento di Bernardo sulla vita del monaco si sviluppa allora armonicamente nel seguente modo: il monaco lascia il mondo, come ogni cristiano se ne distacca, ma in più per una vocazione particolare lo abbandona. Va nella solitudine, spesso su una montagna, per meglio realizzare il programma che la chiesa, nella festa dell'ascensione, presenta ad ogni fedele: « abitare le regioni celesti, in caelestibus habitemus ». Quando il Signore disparve nella nube della sua gloria, gli apostoli rimasero con gli occhi rivolti al cielo. Due angeli vennero ad avvertirli che non l'avrebbero visto più fino al suo ritorno. Ben presto verrà per loro il tempo di spargersi su tutta la terra per seminarvi il vangelo ed edificare la chiesa. Ma i monaci hanno questo privilegio: di continuare a guardare il cielo. Essi sanno che non vedranno il Signore: vivranno nella fede e tuttavia rimarranno là, sul monte dell'ascensione. La loro croce sarà di amare senza vedere e, tuttavia, di guardare sempre, di fissare lo sguardo esclusivamente in Dio, invisibile e presente. La loro testimonianza di fronte al mondo sarà quella di mostrare, con la loro stessa esistenza, la direzione in cui bisogna guardare. Il loro compito sarà di affrettare, con la preghiera e il desiderio, il compimento del regno di Dio.4 Ho anticipato questi pensieri di s. Bernardo perché in essi viene molto chiaramente descritta la specificità della vocazione monastica in relazione all'escatologia. Secondo l'autorità indiscussa di questo maestro il monaco è lì a ricordare alla chiesa la direzione escatologica, il monaco ripete a tutti che l'uomo non è fatto per la terra. Bernardo riconosce che altri cristiani, in particolare gli apostoli, devono andare per il mondo a predicare, riconosce che la chiesa deve essere impegnata nel mondo, ma riserva al monaco il compito escatologico: il carisma del monaco è la tensione escatologica. Questa è sinteticamente la tesi che vorrei sostenere, provandola dapprima storicamente e vedendo infine che senso potrebbe avere nell'attuale cultura. II - Spiritualità cristiana e tensione escatologicaÈ necessario verificare la tesi di Bernardo nella globalità storica della spiritualità cristiana: vedere se realmente i movimenti religiosi cristiani sono sorti e si sono mossi secondo questa direzione. Ancor prima è necessario cogliere l'originalità della spiritualità cristiana rispetto ad altre spiritualità. Naturalmente questa verifica può essere fatta qui solo in un modo estremamente breve. Più che altro si tratta di uno schema che indica solo la direzione intuitiva della sintesi. 1. Religione e fenomeno misticoLa mistica è un fenomeno religioso universale: tutte le religioni propongono all'uomo una o più potenze superiori da amare o da temere, e nella maggior parte dei casi la semplice venerazione di queste potenze non soddisfa tutte le persone, ma alcune aspirano ad una unione più profonda in un incontro più intimo. È generalmente ammesso che questo desiderio di unione con la divinità corrisponde a una vocazione speciale, a una chiamata dall'alto, e che il suo sviluppo presuppone un'ardua preparazione che si incentra nella rinuncia alle gioie del mondo e in austerità corporali molto severe. Nelle religioni "primitive" lo sciamanismo è un classico esempio di mistica arcaica: il veggente, cresciuto alla scuola di un anziano, grazie ad alcune tecniche particolari entra in comunicazione con la divinità e ottiene poteri particolari, come la predizione del futuro e la bilocazione. Il contenuto profondo di questa esperienza consiste, secondo Eliade, in un ritorno al caos primitivo per determinare una nuova creazione che rinvigorisca la forza vitale. Nell' ( v. ) induismo il mistico si propone di cogliere la presenza di Dio in tutte le cose del mondo e all'interno di se stesso: la via per giungere a questo scopo è descritta dalle Upanishads e dalla Bhagavad-Gìta. Il nucleo dell'esperienza mistica sta nella coscienza di una profonda identità dell'assoluto con tutto il reale: il mondo esteriore e tutte le manifestazioni materiali vengono considerate come un velo ambiguo, che copre e nasconde la presenza di Brahman. Ne risulta una mistica dell'identità che elimina il senso del mondo e della storia, poiché anche la storia è una maschera ingannevole. Nel medesimo orizzonte culturale si muove anche la mistica buddhista; il fine che essa si propone è di raggiungere il nirvana che è uno stato di perfetta serenità in cui l'uomo è ugualmente distaccato dal piacere e dal dolore. Occorrono molti anni di pratica ascetica per raggiungere il nirvana, occorre percorrere il sentiero della giusta comprensione, del giusto pensiero, della giusta parola, della giusta azione, dei giusti mezzi di esistenza, del giusto sforzo, della giusta attenzione e della giusta concentrazione [ v. Buddhismo; Yoga/Zen ]. Si noti come lo scopo fondamentale di queste vie mistiche orientali è la dissoluzione del singolo nell'Unico, attraverso la perdita della propria identità individuale. Essendo qui la storia completamente assente, manca ogni tensione escatologica. Una forma particolare di ascetismo si è sviluppata anche nelle correnti neoplatoniche: qui lo sforzo mistico consiste nel liberarsi dalla materia, fonte di ogni male, per permettere all'anima la visione permanente della sua unità con la divinità. La perfetta unità avviene dopo la morte, che libera l'anima dal corpo. In questo caso l'asceta vive una tensione, ma la tensione non è nella direzione della storia, bensì nella contrapposizione di materia e spirito: è una contrapposizione spaziale. 2. La mistica nella tradizione biblicaI grandi uomini dell'AT sono asceti in un senso molto particolare della parola: essi vivono in un atteggiamento di ascolto e di accettazione nei riguardi di Dio, di un Dio che opera nella storia dell'uomo. Non principalmente l'unione mistica viene messa in primo piano, ma la ( v. ) . sequela che chiede disponibilità ad un andare, che trova il suo contenuto materiale in un cammino locale; e il suo significato più profondo in un andare storico nella direzione del futuro. Abramo è l'uomo vicino a Dio, il padre dei credenti: la sua vocazione chiede uno spostamento geografico la cui anima è la speranza in ordine a un popolo futuro. La sua religiosità sta in un continuo errare che rende la ricerca di Dio una ricerca che si configura come attesa di un futuro storico. Mosè è la grande figura religiosa del pentateuco, con lui Jahve parlava faccia a faccia come uno parla con il proprio amico ( Dt 34,10 ). Ma Mosè è il condottiero dell'esodo, colui che segue Dio presente nella nube e guida il popolo verso la terra promessa. La sua chiamata è l'intuizione che l'unione con la divinità non può essere consumata nell'accostamento statico dell'esperienza mistica all'interno del dualismo spaziale profano-sacro ( l'esperienza del roveto ardente ), ma deve essere cercata nella direzione della speranza che assume la dimensione storica. La mistica dell'esodo si definisce chiaramente nella presentazione della sua negazione nel vitello d'oro: ritorna qui la tentazione di localizzare Dio sottraendolo alla storia per porlo nello spazio determinato del culto. In una fase successiva i grandi mistici sono i ( v. ) profeti: i loro scritti descrivono spesso grandi esperienze mistiche, visioni, rapimenti. Attorno ai profeti più importanti sorgono delle vere e proprie scuole, che sono scuole di autentica religiosità e di ricerca di Dio. Ebbene proprio qui assistiamo al fatto straordinario che lo sforzo ascetico-mistico si costituisce come dimensione escatologico-messianica, capace di contestare continuamente l'imborghesimento del popolo ebraico e capace soprattutto di tener viva la direzione dell'attesa [ v. Contestazione profetica ] . Nella direzione profetica si pone decisamente l'opera di Gesù con il suo messaggio escatologico: tutto il suo insegnamento non fa che radicalizzare la tradizione profetica. Nel Dio fatto uomo del NT però inizia anche la seconda anima della mistica cristiana ( la prima è appunto quella che abbiamo identificato con la tensione escatologica ), che consiste in una visione positiva delle realtà terrene, definitivamente assunte dal Cristo. In questa direzione sorge per il mistico cristiano la necessità dell'amore del prossimo, la necessità della comunità, la necessità dell'impegno nel ( v. ) mondo. Tornerò in seguito su questo punto. È qui sufficiente l'avervi accennato. I due grandi mistici del NT sono Paolo e Giovanni. Paolo ha fatto del tema dell'unione con Cristo il tema fondamentale delle sue lettere e l'aspirazione più profonda di tutta la sua vita. Questa unione si consuma nella comunità cristiana, soprattutto nella eucaristia. Rimane però estremamente importante cogliere la tensione escatologica, che anima il pensiero di Paolo: tendere all'unione con Cristo significa per il singolo e per l'intera comunità attendere il suo ritorno. Solo allora si consumerà l'unione di tutti e di tutto in Cristo. La tensione all'unione assume da una parte la realtà storica concreta e dall'altra parte, non potendosi esaurire nella storia, diviene tensione escatologica. Giovanni è considerato da tutti il grande mistico del NT, e questo fatto fornisce il criterio ermeneutico per la comprensione delle sue opere. Due mi sembrano le linee fondamentali della sua impostazione mistica: nel vangelo l'escatologia è anticipata, la vita eterna è già alla portata del credente, e questo fonda la possibilità di un'esistenza permeata profondamente dall'agape, dove il divino si dona in uno con il rapporto conviviale-eucaristico; nell'Apocalisse la tensione mistica guarda oltre il tempo presente e diviene attesa impaziente della consumazione finale, sospiro innalzato costantemente che balbetta: « Vieni » ( Ap 22,17.20 ). I due aspetti non sono contrapposti, ma costituiscono piuttosto le due facce di una stessa realtà: con Gesù e con il dono dello Spirito la comunione con Dio si è fatta presente nella vita storica dell'uomo che viene trasfigurato da questa presenza, ma questa comunione attende la sua manifestazione globale cosmica, attende il suo compimento, che avverrà alla fine dei tempi. « Carissimi, già adesso siamo figli di Dio, e ancora non si è manifestato quel che saremo. Sappiamo che quando si manifesterà, saremo somiglianti a lui, poiché lo vedremo qual è » ( 1 Gv 3,2 ). Mi sembra dunque che la specificità della mistica biblico-cristiana, rispetto a quella delle altre religioni, stia proprio in queste due caratteristiche: da una parte, secondo l'impostazione profetica dell'AT, che continua e si approfondisce anche nel NT, la tensione alla comunione con Dio si identifica con la tensione escatologica, è la stessa attesa escatologica; da un'altra parte, secondo la lezione fondamentale del NT che si incentra sull'incarnazione del Verbo, la tensione mistica non lascia le realtà terrene dietro di sé, ma le assume come segni di una presenza del divino. La fuga verso il futuro, per esprimermi in questo modo, non viene frenata dal secondo aspetto, ma diviene una fuga di tutto il mondo e di tutta la storia, che sono sposati dalla tensione mistico-escatologica. Qui il mistico non va verso il futuro da solo, ma ci va con tutta la realtà, che è la carne del Verbo. Mentre la tensione escatologica sottolinea la trascendenza di Dio, il suo essere altro rispetto al mondo e alla storia dell'uomo, l'assunzione della realtà sottolinea l'immanenza di Dio, la sua presenza nella profondità di tutte le cose. III - Monachesimo ed escatologiaA iniziare dal III sec. il fenomeno mistico cristiano ha preso uno sviluppo considerevole dando luogo a forme organizzate che hanno poi accompagnato costantemente la vita della chiesa e che costituiscono i movimenti religiosi cristiani. Non posso qui fare la sia pur minima analisi di questi movimenti: voglio solo verificare il rapporto tra il carisma mistico di questi gruppi e l'escatologia, tenendo come punto di riferimento la tesi esposta dall'autorità di s. Bernardo. 1. L'origine del monachesimoIl monachesimo come fenomeno organizzato è attestato a partire dal III sec. All'inizio del VI sec. ci sono i testi relativi a s. Benedetto. Certamente anche prima del III sec. esistevano singole persone che si davano alla vita contemplativa: abbiamo visto che il fenomeno mistico accompagna sempre il fenomeno religioso. Ma questo non toglie la particolarità che a un certo punto della storia della chiesa comincino a sorgere dei movimenti di monaci organizzati. È sicuramente vero che la causa del sorgere di questi movimenti è la grazia di Dio, da una parte, e dall'altra il desiderio di alcuni uomini di seguire Cristo più da vicino. Secondo alcuni l'origine del monachesimo si troverebbe già nel vangelo, in tutti quei passi che sembrano porre una sequela più particolare, riservata a un gruppo speciale di persone.5 Ora, a parte il problema esegetico di quei passi sinottici, che oggi vengono letti come rivolti indistintamente a tutti i cristiani [ v. Consigli evangelici I ], non sembra sufficiente spiegare il sorgere del monachesimo in questo modo. Soprattutto dal punto di vista storico rimane essenziale chiarire perché il monachesimo ha cominciato ad esistere in modo organizzato in un determinato periodo e non prima. Appoggiandoci alla tesi generale che vede nell'eremita, nel monaco ( più precisamente: nel confessore ) il successore del ( v. ) martire, una volta che la nuova situazione sociale della chiesa aveva reso il martirio sempre più raro, si tratta di cogliere il contenuto di questa affermazione nella sua portata più profonda. È chiaro che l'essere martire è una forma mistica: gli atti dei martiri non lasciano dubbi su questo punto.6 Bisogna invece riflettere sul fatto che il martirio dei primi tempi del cristianesimo è direttamente legato alla tensione escatologica e all'attesa di un irrompere del regno di Dio in un tempo più o meno prossimo. Il cristianesimo primitivo si pose in urto con il mondo che lo circondava per il suo messaggio di novità, ma questo messaggio di novità trovava il suo fondamento in una speranza che avvenisse un evento nuovo e trovava la sua forza nella fede escatologica. Il martire è il testimone della speranza, egli accetta il sacrificio della vita perché attende con impazienza di unirsi a Cristo ( 1 Pt 3,13-16 ). Nella mutata situazione sociale del III sec., situazione che raggiunge il culmine nell'editto del 313, il testimone dell'escatologia non è più il martire, ma il monaco eremita del deserto. Questi cristiani, che si ritirano a vivere assieme una vita di privazioni corporali, che si danno con maggiore assiduità alla preghiera e alla contemplazione, intendono sottolineare per la chiesa e per la società che l'essenziale per la visione cristiana è tener fisso lo sguardo sulle realtà future. Con il trionfo della chiesa il regno dei cieli poteva essere inteso come già esistente sulla terra, e in un certo senso il vecchio mondo appariva già distrutto. La chiesa, insediandosi nelle alte sfere dell'impero romano, aveva accettato il mondo come era, sforzandosi di rendere l'esistenza umana un po' meno infelice di quanto fosse durante le grandi crisi storiche. Fu proprio per combattere queste ambiguità che sorse il monachesimo, come esigenza di riaffermare con la propria vita la trascendenza del regno di Dio rispetto alla storia umana. In questo senso il monachesimo è il carisma escatologico per la chiesa stessa, prima di esserlo per l'intera società: ciò che i primi cristiani furono per l'intera società, gli eremiti lo furono in un tempo successivo per la comunità cristiana. Se questa spiegazione dell'origine storica del monachesimo è vera, dobbiamo trovare nel dinamismo interno di questi gruppi mistici quella tensione escatologica che andiamo descrivendo; è appunto quanto dobbiamo ora cercare di fare. 2. Spiritualità monastica ed escatologiaVi sono dei tratti comuni a tutti i movimenti spirituali cristiani: sono quei tratti che giudico essenziali e costitutivi del misticismo cristiano e che ne costituiscono l'anima e il senso interiore. Questi punti comuni confluiscono nella dimensione escatologica. a. Separazione dal mondoIl monaco, all'inizio della sua vocazione, si ritira dal mondo e va a vivere in solitudine, nel deserto, su una montagna, in un luogo appartato. Anche quando i monaci cominciarono a vivere assieme in piccole comunità, abitavano in luoghi piuttosto isolati, lontano dalla gente. Questo appartarsi vuole essere per il monaco un separarsi dal mondo, un essere libero dal mondo e coinvolge un giudizio preciso su tutte le cose di questo mondo nel loro rapporto ai beni eterni. Esiste a questo proposito una abbondante letteratura. Cassiano, morto nella prima metà del sec. V, paragona la vocazione del monaco a quella di Abramo, e commentando il testo della genesi « exi de terra tua et de cognatione tua et de domo patris fui », parla delle tre rinunce del monaco che si riducono ad un abbandono totale del mondo.7 Sempre nel sec. V s. Eucherio compone due operette che esaltano lo spirito ascetico del monaco e ne rendono già nel loro titolo il contenuto: Elogio della solitudine e Del disprezzo del mondo e della filosofia del tempo.8 Eucherio sottolinea molto fortemente che la solitudine e l'abbandono del mondo hanno senso solo per l'amore di Dio: si tratta cioè di abbandonare il mondo per darsi totalmente a Dio. S. Gregorio Magno, parlando nei Dialoghi dei tre ordini di persone esistenti nella chiesa, definisce i monaci e le monache come "separati", coloro che vivono extra mundum. Essi sono nella solitudine per darsi totalmente a Dio, ed è questo il loro stato specifico nella chiesa.9 Il separarsi dal mondo viene anche inteso come un essere qui sulla terra senza patria; la solitudine indica allora che si pone altrove il fine della propria vita, che diventa un'attesa e una testimonianza escatologica. b. La peregrinazioneFin dalle origini il monachesimo fu considerato da alcuni suoi rappresentanti come una forma di esilio, fino al punto che il monaco non poteva essere monaco nella sua patria. Il vero monaco doveva essere uno straniero sulla terra, non solamente in senso spirituale, ma nel senso letterale del termine: il monaco abbandona la sua patria e va in una regione dove nessuno lo conosce, dove è uno straniero. Si vuole in tale maniera ricuperare il senso biblico dell'esilio, che è evidentemente un tema escatologico. A partire dal IV sec. si diffonde anche il monaco peregrinante, un monaco che non ha una stabile dimora, ma è continuamente in viaggio e vive di elemosina. Sembra che questo stato ascetico derivi dall'uso apostolico descritto nel NT, secondo il quale gli apostoli andavano sempre in giro a predicare e a visitare le comunità. Ci sarebbe allora un passaggio dall'apostolo-asceta all'asceta-apostolo. Questo modo di essere monaco non è mai completamente scomparso nella vita della chiesa, anche se è passato attraverso forme e regolamentazioni molto diverse. L'idea di essere esiliati a causa della fede si impose nella tradizione monastica sia come dimensione spirituale sia anche come fatto concreto. La cella, per es., nella sua piccolezza vuole ricordare al cenobita che egli è uno straniero e non possiede un suo spazio. Non si tratta dunque, nella peregrinazione, di una manifestazione accidentale che appare solo in alcune epoche. Non si tratta di un fenomeno bizzarro, ma di un'espressione ascetica che rende totale la donazione, vista come sradicamento totale dal proprio ambiente. Proprio perché il monaco testimonia di attendere un'altra patria, è disposto a vivere quaggiù senza patria.10 Sia l'abbandono del mondo sia la peregrinazione indicano la tensione escatologica solo negativamente: ossia sono modi e forme di dire che il monaco non si comprende come appartenente a questo mondo. Questa formulazione negativa dell'attesa escatologica trova il suo corrispondente positivo in quello che è l'obiettivo primo ed essenziale della vita religiosa: la ( v. ) . contemplazione. c. La contemplazioneL'esperienza mistica è la percezione sperimentale, diretta, dell'essere di Dio e della sua presenza: in essa consiste ciò che in modi diversi i vari mistici descrivono come il culmine della loro esperienza. La contemplazione è allora lo scopo stesso della vita mistica, poiché è proprio nella contemplazione che il mistico sperimenta la presenza di Dio. I grandi mistici sono concordi nell'affermare che la contemplazione è una realtà escatologica, nel senso che la presenza di Dio diventerà totalmente attuale solo alla fine dei tempi. In questo senso il monaco-mistico vive ora in attesa di questo evento finale, anela, nell'esercizio stesso della mistica, alla unione con Dio, ma questa unione gli sarà concessa solo nell'eternità. Tutta la vita contemplativa diviene allora un esercizio di attesa, un modo di vivere costantemente la speranza, una maniera di ripetere incessantemente il "vieni" dell'Apocalisse. È pur vero che la tradizione mistica è anche concorde nel sostenere che la contemplazione viene in parte anticipata già in questa vita, ma questa anticipazione non spegne l'attesa esaurendo il desiderio, ma al contrario essendo un'anticipazione parziale aumenta sempre più il desiderio. L'asceta non ha allora qui in terra una patria, non si trova a casa sua in questo mondo perché tiene continuamente fisso lo sguardo a questo scopo finale che è il congiungersi con Dio. Non il disprezzo del mondo lo guida nelle sue scelte cosi austere, ma l'amore verso il bene sommo. Credo che in tal modo il dinamismo interno dell'ascetismo cristiano si mostri intrinsecamente unito alla tensione escatologica, tanto da poter affermare che il carisma ascetico è lo stesso carisma escatologico. Ci rimane, per chiudere il rapporto tra vita spirituale ed escatologia, di considerare alcune ulteriori determinazioni che, come manifestazioni, scaturiscono dal carisma ascetico e portano il segno della tensione escatologica. d. L'attesa escatologica nella tradizione dei votiIl rapporto tra i voti religiosi e l'escatologia è tanto tradizionale e tanto frequente, che sembra perfino inutile richiamarlo. Lo farò perciò molto brevemente. I santi sono i testimoni per eccellenza della città di Dio e la santità reale è il valore escatologico primordiale. Tutte le motivazioni che animano la vita dei santi, che giustificano le loro rinunce e le loro scelte ( comprese quelle dei voti ), si riducono all'asserto escatologico « propter regnum caelorum ». Per proclamare nel modo più radicale possibile la superiorità incomparabile dell'unione definitiva con Cristo, se ne testimonia la grandezza accettando di perdere la vita terrena: il martire è il primo testimone dell'escatologia e quindi è il santo per eccellenza. Coloro che non possono essere martiri nel senso materiale del termine, lo diventano nel senso spirituale attraverso i voti. L'asceta abbandona tutti i beni della terra per sottolineare con la massima forza possibile la superiorità dei beni del regno di Dio. Per proclamare l'infinita grandezza dell'amore di Dio, abbandona i beni autentici della vita matrimoniale. Infine, per esprimere la necessità di cercare al di sopra di tutto la volontà di Dio, accetta di far controllare la sua libertà da un intermediario umano autorizzato. Tutti questi gesti sono segni che testimoniano la grandezza del regno di Dio, e sono valori autenticamente escatologici, in quanto anticipano su questa terra certe condizioni di esistenza della vita eterna. Senza il riferimento escatologico i voti non solo perdono ogni valore, ma divengono perfino ,una "incomprensibile anomalia". Il santo ha un senso e un valore unicamente in quanto vive fino in fondo il primato di Dio, ma vivere il primato di Dio significa vivere la superiorità del mondo che deve venire alla fine dei tempi. Jean Leclercq, che è un grande studioso della spiritualità occidentale, definisce l'intera teologia monastica come escatologia: i padri di questa teologia sono infatti i dottori del "desiderio" e non fanno altro che scrivere il loro anelito di congiungersi a Dio. « Il contenuto della cultura monastica è apparso come simbolizzato, sintetizzato da queste due parole: grammatica ed escatologia. Da una parte è necessaria la conoscenza delle lettere per avvicinarsi a Dio ed esprimere quel che si intuisce della sua realtà; dall'altra bisogna incessantemente superare la letteratura per tendere alla vita eterna. Ora l'espressione più forte e più frequente di questo superamento si ritrova a proposito della vita eterna ».11 IV - Le ultime realtà secondo la tradizione misticaHo cercato di cogliere la tensione escatologica come fulcro animatore di tutta la tradizione spirituale cristiana: questa tensione escatologica è stata vista esclusivamente come elemento formale che mantiene in unità l'intero mondo ascetico. Mi sembra fuori luogo fare ora un completo discorso sui contenuti materiali di questa tensione, parlare cioè dettagliatamente delle ultime realtà così come sono state intese nella spiritualità cristiana: a mio avviso questo ci porterebbe troppo lontano e richiederebbe troppo spazio. Qui invece intendo sottolineare una particolarità propria dell'ascetica: trattando delle ultime realtà la teologia monastica, pur facendo un ampio discorso in parte uguale a quello della teologia dogmatica, ha costantemente sottolineato l'aspetto gioioso delle ultime realtà. Senza dubbio gli uomini ascetici hanno parlato anche dell'inferno; lo hanno descritto in quelle visioni in cui si riflettono le idee che essi hanno dell'al di là. Ma i loro viaggi immaginari d'oltre tomba si concludono quasi tutti in paradiso. Nei loro testi di preghiera la meditazione sul paradiso è molto più frequente di quella sull'inferno. Esistono non soltanto capitoli delle loro opere spirituali, ma interi trattati che hanno titoli di questo genere: Del desiderio celeste. Per la contemplazione e l'amore della patria celeste accessibile solo a coloro che disprezzano il mondo. Lode della Gerusalemme celeste, Della felicità della patria celeste, e si potrebbe continuare con un lungo elenco.12 Così la letteratura monastica, che si occupa della Gerusalemme celeste, è pressoché infinita. Per s. Bernardo il monaco è un abitante di Gerusalemme, naturalmente non nel senso letterale, perché Gerusalemme è ovunque si mantiene l'animo proteso al cielo. Nei monasteri antichi si faceva l'esercizio della Gerusalemme, un esercizio simile a quello ancora in uso fra noi della buona morte ma con tonalità completamente diverse: si rifletteva sul cielo, si ravvivava il desiderio di potervi un giorno salire e se ne chiedeva la grazia. Moltissime opere tentano di descrivere con estrema libertà poetica la realtà futura del cielo: basti pensare al poema tanto citato di s. Pier Damiani Sulla gloria del paradiso.13 Tutta la vita del monaco intende essere una pregustazione del cielo, una partecipazione anticipata alla visione di Dio: proprio per questo la contemplazione è l'attività fondamentale del mistico. La preghiera stessa esprime quasi sempre il sospiro del desiderio della patria celeste. Allora, se la tradizione spirituale ha qualcosa di specifico da dire sulle realtà escatologiche, questo consiste nella priorità assoluta che essa da alla felicità eterna del paradiso.14 Questo avviene non solo perché il monaco si occupa nelle sue riflessioni più del paradiso che dell'inferno, ma per lo stesso concetto di Dio che il mistico si fa: egli intende Dio come l'amore assoluto e vede le ultime realtà alla luce di questo amore; una visione diversa risulta pressoché impossibile per il contemplativo. La fine sarà appunto il trionfo dell'amore di Dio, la fine della sofferenza dell'esilio, la fine del male per una pace e una felicità infinite. La tradizione mistica è così essenzialmente ottimistica sulla conclusione della storia umana, perché essa sottolinea continuamente la grandezza della misericordia di Dio e la grandezza del suo amore. Non a caso molti santi padri, come Didimo, Clemente, Gregorio di Nissa, Gregorio Nazianzeno, Gerolamo e Ambrogio, hanno sostenuto in diversi modi il trionfo completo e totale dell'amore di Dio alla conclusione della Storia umana.15 V - Dimensione escatologica e impegno nel mondoTrattando l'escatologia biblica abbiamo visto che una dimensione essenziale dell'ascetica cristiana è l'assunzione della realtà umana, realtà che a seguito dell'incarnazione è diventata il "corpo" della divinità. La tensione escatologica, carisma della vita religiosa, non è allora una fuga dalla realtà, un disimpegno dalla storia o un'evasione dalla solidarietà con i problemi umano-terrestri; ma è piuttosto una presenza nel cuore della realtà alla luce del regno di Dio che deve venire. Si tratta qui di analizzare questo secondo aspetto del carisma escatologico. 1. Contemplazione e vita attivaI termini tradizionali in cui il rapporto tra tensione escatologica e impegno nel mondo viene vissuto dalla riflessione monastica, fin dai primissimi tempi, sono quelli di contemplazione e vita attiva. Le immagini bibliche più usuali utilizzate per esprimere questo rapporto sono quelle delle due mogli di Giacobbe, Lia e Rachele, e naturalmente l'immagine neotestamentaria che fa perno sul rapporto tra Marta e Maria. S. Agostino è il primo ad affrontare in modo sistematico questo problema, e da lui in diversi modi dipende tutta la tradizione mistica occidentale. Nel libro 19° del De Civitate Dei egli scrive: « Ne alcuno deve essere tanto contemplativo da non pensare nella sua stessa contemplazione all'utilità del prossimo, ne tanto attivo da non cercare la contemplazione di Dio. Nella contemplazione non lo deve dilettare un riposo inerte, ma la ricerca o la scoperta della verità, per progredire in essa e per conservare ciò che ha scoperto senza invidiare gli altri. Nell'azione invece non si deve amare in questa vita ne l'onore ne il potere…, ma si deve amare l'opera stessa che si fa per l'onore e per il potere, dato che si compia con rettitudine ed utilità, cioè, perché giovi a quella salvezza dei sudditi ». Qualche riga dopo egli sintetizza il suo pensiero nel seguente modo: « La carità della verità vuole una quiete santa ( contemplazione = otium ): la necessità della carità un giusto lavoro ( negotium ). Se nessuno impone questo peso, si deve attendere alla ricerca e all'acquisto della verità. Se poi viene imposto, lo si deve ricevere per il dovere della carità ».16 Il rapporto ancora un po' estrinseco illustrato da Agostino viene inteso da s. Gregorio Magno come intrinseca necessità fondata sulla natura stessa dell'uomo. « Quando, scrive questo maestro, dalla vita attiva ci eleviamo a quella contemplativa, poiché la nostra mente non è capace di stare a lungo in contemplazione… allora per la sua miseria è respinta dalla sublimità di quella altezza, e ricade in sé. È necessario allora che ritorni alla vita attiva, che continuamente si eserciti nella pratica delle buone opere… Avviene così che, sostenuta dalle sue stesse buone opere, s'eleva nuovamente alla contemplazione, e riceve nutrimento d'amore dal pascolo della verità contemplata ».17 Questo vicendevole sostentamento delle due vie viene sintetizzato molto bene in un altro passo: « L'attiva si fa tanto più solida e duratura quanto più si stende a fare del bene al prossimo, che è a portata di mano; la contemplativa tanto più presto viene meno, quanto più si sforza di oltrepassare i limiti della carne ed elevarsi sopra di sé. L'una cammina in pianura e così lavora piantando saldo il piede; l'altra vuoi salire sopra di sé, ma presto si stanca e discende ».18 S. Bernardo mette in guardia contro le insidie di un falso misticismo, di una contemplazione non adeguatamente preparata dalla pratica delle buone opere. Sviluppando ulteriormente l'impostazione precedente egli vede nella vita attiva il frutto necessario e indispensabile della vita contemplativa. Il concetto di nozze spirituali ha il suo necessario completamento in quello della fecondità spirituale, dove lo zelo con cui l'anima si appresta al bene degli altri mediante l'opera non rientra in un semplice processo di necessario riposo dalla contemplazione e di ricupero delle forze spirituali, ma è esso stesso l'effetto della più alta forma di contemplazione.19 Queste discussioni dottrinali, presenti in tutta la tradizione mistica, hanno avuto un risvolto concreto molto preciso: gli ordini contemplativi hanno sempre cercato di congiungere la ricerca di Dio ad un'azione concreta animata dalla carità per i fratelli e per i bisognosi. Soprattutto la mistica cristiana non conosce un puro e semplice abbandono del mondo, quasi fosse un peso morto che impedisce l'elevazione spirituale ( come avviene nella visione neoplatonica ), perché il suo stare a contemplare il Signore che ascende ( s. Bernardo ) è una funzione ecclesiale-sociale. Anche per questo la mistica cristiana non è la mistica della solitudine: il fatto che gli asceti cristiani vivano in comunità non è secondario, ma risponde direttamente alla loro coscienza ecclesiale. 2. Abbandono o accettazione del mondo?Nell'autentica esperienza mistica cristiana l'abbandono del mondo è solo una prima fase negativa, che si propone di disporre il religioso ad un'accettazione diversa e più profonda della realtà. A ben vedere la fase di distacco è sempre seguita da una assunzione più libera e più umana di tutte le cose. Se l'abbandono rappresenta lo sforzo di essere liberi dal mondo per il regno di Dio, la successiva accettazione rappresenta la libertà per il mondo. Il vero religioso cristiano vive in mezzo alla realtà terrestre divenuta magnifica ai suoi occhi, poiché comprende che Dio è il cuore inesprimibile di tutta la realtà. Non solo quindi la realtà terrestre viene ricuperata, ma essa viene intesa e vissuta in un modo completamente nuovo, essa viene completamente rivalutata, tanto che il religioso diviene colui che meglio di tutti vive un rapporto sentito con tutte le cose. L'esempio di s. Francesco è sintomatico a questo proposito: dopo la rottura con il mondo lussuoso che lo circonda egli giunge a vivere un'estrema povertà che rasenta la miseria; ma dopo questa fase e proprio perché egli è passato attraverso questa esperienza diventa il poeta sublime della natura. Il suo cantico delle creature esprime in modo grandioso la sua capacità di vivere un rapporto nuovo e più profondo con tutte le cose, da quelle più grandi come il sole a quelle più piccole come i fiori. Siccome la realtà viene ricuperata alla luce della tensione escatologica, quindi alla luce positiva della conclusione finale della storia umana, essa acquista un particolare significato, che è ben superiore al comune senso di accettazione della realtà. Il mistico testimonia perciò una particolare visione del reale proprio a causa del suo carisma escatologico: egli vede il mondo alla luce della risurrezione di Cristo, egli crede alla potenza della veniente nuova creazione. Quello che nella realtà non funziona, egli lo intende come dolore che preannuncia un nuovo parto e come gemito di attesa ( Gv 16,20-22; Rm 8,18-22 ). 3. Anticipazione del sabato escatologicoSempre per il suo carisma escatologico il religioso anticipa, con la sua vita contemplativa, il sabato finale della perenne festa tra Dio, gli uomini e la natura. La contemplazione è stata vista nella tradizione come otium, riposo gioioso della creatura di fronte al suo creatore, tempo di ricreazione dove è dato spazio al libero intrattenersi. A causa del suo rapporto con la natura, a causa della sua visione ottimistica della storia e a causa della sua attività contemplativa, il religioso anticipa la realtà escatologica del sabato finale.20 La sua libertà dalle cure secolari gli permette un rapporto ludico con le cose. La piccola fraternità in cui vive vuole essere un segno del banchetto finale, che Dio preparerà per tutti gli uomini. Il suo celibato intende essere segno delle nozze finali che Dio concluderà con l'intera umanità. La serenità in cui vive e in cui muore è la speranza in una festa finale, che egli testimonia come destinata a tutti. Ma questa anticipazione del sabato escatologico diviene di nuovo un criterio cristiano per leggere la realtà, diviene cioè un modo in cui il religioso si rapporta al mondo che lo circonda. Diviene anche la testimonianza di una possibile diversa lettura del mondo, proprio in rapporto alla sua destinazione finale. In questa direzione la spiritualità cristiana avrebbe qualcosa da dire al sempre più emergente problema ecologico [ v. Ecologia II ], avrebbe un suo apporto per il problema del ( v. ) tempo libero e anche per la nuova educazione al gioco, tanto sentita dalle generazioni attuali. VI - L'escatologia nella spiritualità del laicoIl nostro discorso assume accenti diversi se passiamo a considerare sinteticamente la spiritualità del cristiano che vive nel mondo [ v. Laico ]. La tensione escatologica, che costituisce il proprium della vocazione religiosa, non è presente in misura minore nella vita del laico, ma vi è presente in modo diverso. Il cristiano che vive nel mondo è ugualmente determinato in quanto credente dall'attesa del regno, ugualmente è animato dalla speranza, ugualmente è rivolto con tutta la sua esistenza verso il Cristo risorto che si deve manifestare come il Signore di tutta la storia umana. Ma la vita concreta di questo cristiano è più direttamente chiamata a trasformare il mondo e a rendere « testimonianza della speranza » nella costruzione e per la costruzione della città terrena. Per un verso si può dire che il carisma escatologico del religioso si completa e si matura nella globalità della vita cristiana, che mette la tensione escatologica a confronto con l'impegno nel mondo. Per un altro verso si può anche dire che la tensione della vita cristiana, vissuta nel mondo, si manifesta più chiaramente nella testimonianza del religioso. Il laico e il religioso stanno l'uno per l'altro, e l'uno ha bisogno dell'altro: il laico "rimprovera" fraternamente il religioso con le stesse parole della scrittura: « Perché rimanete a guardare il cielo? » ( At 1,11 ). E il religioso ugualmente ammonisce il laico con l'altra interrogazione della scrittura: « Perché cercate tra i morti colui che vive? Non è qui, ma è risorto » ( Lc 24,5-6 ). In altri termini: se il nostro essere cristiani si riduce oggi a due cose: « pregare e operare tra gli uomini secondo giustizia »,21 il religioso fa della preghiera la realtà totale della sua vita, nel senso che la preghiera diviene per lui il cardine coordinatore e animatore di tutta la sua persona; il laico invece assume per sé l'impegno di operare secondo giustizia. Nessuno dei due vive un aspetto solo delle due realtà: l'esistenza cristiana postula la loro esistenza simultanea, ma ognuno, a motivo della sua limitatezza, orienta la sua esistenza più all'uno che all'altro aspetto. In termini teologici si tratta appunto di "carismi", in termini più diffusi nel mondo industriale di oggi si tratta di "specializzazioni". 1. Le penultime coseNella terminologia di Bonhoeffer le penultime cose sono le realtà dell'uomo, il suo operare nel mondo, il suo impegnarsi in questa vita, e anche il suo essere religioso, inteso come la sua partecipazione all'opera che Dio compie nel mondo e nella storia. Noi assumiamo questa terminologia per indicare lo stare del cristiano nella storia, per indicare la seconda polarità della vita cristiana ( operare tra gli uomini secondo giustizia ), in rapporto al carisma escatologico dell'uomo religioso ( pregare ). Secondo questa impostazione bisogna dire che il cristiano si deve impegnare nelle penultime cose dandovi tutto se stesso: per l'impegno della sua dedizione le penultime cose sono come le "ultime". La "riserva" che le cose ultime, intese come giudizio e azione di Dio, esercitano sulle penultime, non riguarda - propriamente parlando - l'impegno, la dedizione, e in genere l'azione concreta del cristiano, bensì l'intenzionalità ultima dell'azione e il suo valore di fronte a Dio. Il cristiano deve stare nelle penultime cose e si deve sacrificare per esse fino in fondo: questo principio trova la sua motivazione sia nell'autonomia dell'uomo alle prese con il mondo da costruire, sia in un corretto rapporto tra cose penultime e cose ultime. Bonhoeffer enuncia nel seguente modo una simile impostazione: « Non si può ne si deve dire l'ultima parola prima della penultima. Noi viviamo nelle penultime cose e crediamo nelle ultime ».22 Siccome le ultime cose sono le realtà stesse di Dio: il suo giudizio su questo mondo, la sua opera creatrice che instaura il regno e anche la sua opera giustificatrice nei confronti, dell'uomo, le cose penultime sono le ultime possibilità dell'uomo e l'uomo vi si deve giocare radicalmente, perché sono tutto quello che egli può e deve fare. Pretendere di darsi anzitempo alle ultime cose significa allora illudersi di poter fare ciò che solo Dio può fare, e quindi evadere dalle proprie possibilità umane riguardanti lo spazio mondano e il tempo della storia. Sempre Bonhoeffer scrive a questo riguardo: « Soltanto quando si ama a tal punto la vita e la terra da pensare che con la loro fine tutto è perduto, si può credere alla risurrezione dei morti e a un mondo nuovo ».23 Chi non ha esaurito tutte le possibilità umane e non si è consegnato ad esse con tutta la propria potenza di uomo, non sa nulla delle possibilità ultime di Dio, non è in grado di comprenderle, non le può capire come possibilità uniche di Dio perché non sa quali sono le possibilità ultime dell'uomo. « Penso - scrive sempre su questa linea Bonhoeffer - che Dio sia meglio onorato se noi riconosciamo in tutti i suoi valori la vita che egli ci ha dato, se la viviamo e l'amiamo sino all'esaurimento, soffrendo quindi profondamente e sinceramente quando vediamo i valori esistenziali menomati e perduti; … piuttosto che dall'ottusità verso i valori della vita ».24 La conclusione è che soltanto nel pieno essere in questo mondo, nell'impegnarsi fino in fondo nelle possibilità umane, si impara a credere nelle cose ultime di Dio. 2. Di fronte alle cose ultimeLe penultime cose richiedono tutta la dedizione del cristiano, sono la sua vita e la sua morte, sono le sue ultime possibilità, ma rimangono possibilità umane unicamente alla luce delle cose ultime di Dio. Quando si eliminano le cose ultime di Dio allora le penultime diventano necessariamente le ultime: allora un qualche progetto umano pretende assolutezza, una tappa storica si pone come il fine stesso della storia, la chiesa si confonde con il regno di Dio, la religione non si distingue dalla fede, in breve l'uomo si confonde troppo in fretta con Dio stesso, facendo se stesso una divinità, più che accettando di essere accolto da Dio. Il rapporto tra cose penultime e cose ultime può avere due false soluzioni estreme: una radicale e una di compromesso. La soluzione radicale vede solo le realtà ultime e, in esse, scorge soltanto la frattura che le separa da quelle penultime: tra le une e le altre vi è assoluto contrasto. In questa soluzione il cristiano non si deve occupare del mondo, poiché tutta la realtà del mondo è una realtà di peccato e di morte. L'altra soluzione è quella del compromesso, dove le realtà ultime costituiscono una eterna giustificazione di tutto ciò che esiste e giustificano le realtà penultime. Nel primo caso si ha una separazione troppo netta, nella seconda ipotesi si ha una congiunzione troppo affrettata. In entrambe le soluzioni c'è una contrapposizione tra realtà ultime e penultime che le rende mutuamente esclusive: in tal modo creazione e redenzione, tempo ed eternità si affrontano in un conflitto insolubile. A questo riguardo scrive ancora Bonhoeffer: « La vita cristiana non è dunque fatta ne di radicalismo ne di compromesso… Il radicalismo nasce sempre da odio conscio o inconscio per ciò che esiste… Il compromesso nasce sempre dall'odio per le realtà ultime… Il radicalismo odia il tempo, il compromesso odia l'eternità; il radicalismo odia la pazienza, il compromesso odia la decisione; il radicalismo odia la prudenza, il compromesso la semplicità; il radicalismo odia la misura, il compromesso l'immensurabile; il radicalismo odia la realtà, il compromesso la Parola ».25 E poche righe dopo Bonhoeffer indica la linea di una soluzione: « Il problema della vita cristiana non trova una risposta decisiva ne nel radicalismo ne nel compromesso, ma solo in Gesù Cristo. In lui soltanto si risolve il rapporto tra le realtà ultime e penultime ».26 Questo vuoi dire: non separazione radicale, come nel Cristo non vi è separazione tra uomo e Dio, ma non confusione tra i due ordini di cose. Detto in modo più positivo: occorre vivere con impegno le penultime cose avendo fede nelle ultime realtà. Conclude infatti Bonhoeffer: « La serietà della vita cristiana risiede esclusivamente nelle realtà ultime, e tuttavia anche quelle penultime hanno una loro serietà; e questa consiste nel non confondere mai i due ordini di realtà… Cose ultime e penultime sono intimamente legate le une alle altre. Bisogna dunque rafforzare le penultime annunziando con più forza le ultime, e parimenti proteggere le ultime salvaguardando le penultime ».27 È proprio in questa tensione dialettica che l'escatologia si fa presente nella vita quotidiana del laico animando il suo impegno nel mondo, affinché sia totale e sia continuamente storico, consapevole cioè della propria relatività in riferimento al regno di Dio. L'escatologia, carisma della vita religiosa propriamente detta, diviene per il laico la direzione che mantiene lo sguardo del credente proteso oltre l'orizzonte, ma non è questa una distrazione che impedisce l'impegno nella storia, ma è piuttosto l'unica possibilità di essere continuamente presenti alle vicende storiche, l'unica possibilità di essere continuamente "rivoluzionari", poiché questo sguardo proteso oltre il confine storico denuncia il carattere storico dell'impegno, come la trattazione di Bonhoeffer sulle cose ultime e penultime ha mostrato. Vorrei ora ritornare al carisma religioso, per cogliere il valore della sua testimonianza nella cultura attuale. VII - Il carisma escatologico nell'attuale culturaPer gli uomini del nostro tempo la testimonianza religiosa si riduce praticamente alla possibilità di testimoniare autenticamente la speranza: il problema di Dio si riduce oggi per la nostra cultura al problema del futuro.28 Se una simile testimonianza è il problema di tutti i credenti presi nel loro insieme, esiste all'interno di questa speranza una specifica vocazione del religioso che vorrei ora brevemente illustrare. 1. Testimonianza del futuroNon è compito del religioso testimoniare il passato. Altri nella chiesa hanno questa funzione! Se, come abbiamo visto, il carisma escatologico fa un tutt'uno con il carisma religioso, il mistico deve testimoniarci continuamente la tensione e la speranza verso il futuro. Tenendo fermo il suo impegno di impedire alla chiesa un comodo adagiarsi nella situazione del presente, situazione che, ben inteso, riveste tutti gli aspetti della vita ecclesiale ( dalle sintesi dottrinali alle regolamentazioni più concrete ), il religioso deve essere sempre in testa al popolo di Dio che attraverso il deserto va verso la terra promessa. Anche quando ritorna al suo passato, alla sua tradizione, al suo fondatore - e sicuramente egli deve fare anche questo - tale ritorno all'indietro non è il fine della sua vocazione, ma un mezzo per riattingere forza e speranza e indicare alla chiesa un nuovo futuro. La costituzione dogmatica sulla chiesa del Vat II, nel capitolo dove parla dei religiosi, li descrive proprio con questo carisma profetico. « Poiché infatti il popolo di Dio non ha qui città permanente, ma va in cerca della futura, lo stato religioso, il quale rende più liberi i suoi seguaci dalle cure terrene, meglio anche manifesta a tutti i credenti i beni celesti già presenti in questo mondo, meglio testimonia la vita nuova ed eterna, acquistata dalla redenzione di Cristo, e meglio preannunzia la futura risurrezione e la gloria del regno celeste » ( LG 44 ). Ugualmente nel decreto sul rinnovamento della vita religiosa il Vat II, parlando della castità abbracciata per il regno dei cieli la definisce « un segno particolare dei beni celesti » ( PC 12 ). Questa visione del carisma religioso trova d'altra parte una conferma storica, nel senso che ogni volta che la chiesa ha fatto lo sforzo di un rinnovamento, ha trovato proprio nelle forze religiose la possibilità stessa di operare questo rinnovamento. 2. Testimonianza di un futuro gioiosoNel nostro mondo si diffonde molto spesso una paura sul futuro dell'umanità: si fanno previsioni sempre più minacciose di una fine catastrofica del mondo provocata dalle armi nucleari. Le possibilità crescenti di un intervento dell'uomo nella determinazione dell'avvenire hanno aumentato la paura del futuro. Benché naturalmente non si possa in qualsiasi modo evitare la matura responsabilità dell'uomo nella costruzione della storia, resta la testimonianza della fede che attende nella speranza la lieta novella del regno di Dio. In questa testimonianza, che ancora una volta interessa la chiesa nella sua globalità, i religiosi hanno un posto particolare, proprio per il loro carisma escatologico. È sempre il Vat II che stabilisce questo ruolo particolare dei religiosi. Nella GS, a differenza di quanto avviene nella LG dove il discorso è prevalentemente ecclesiologico, è il pellegrinaggio dell'intera umanità che viene tematizzato, di quell'umanità che come grande famiglia di Dio attende un nuovo cielo e una nuova terra ( GS 38 ). In questo grande popolo in cammino agisce lo Spirito con i suoi vari doni, chiamando alcuni « a dare testimonianza manifesta della dimora celeste col desiderio di essa, contribuendo così a mantenerlo vivo nell'umanità ». Lo stesso Spirito chiama altri « a consacrarsi al servizio degli uomini sulla terra, così da preparare attraverso tale loro ministero la materia per il regno dei cieli ». Chiaramente mi sembra che venga designato il carisma escatologico dei religiosi e il ministero dei sacerdoti. Il testo conciliare termina dicendo: « In tutti, però, opera una liberazione, in quanto nel rinnegamento dell'egoismo e coll'assumere nella vita umana tutte le forze terrene, essi si proiettano nel futuro, quando l'umanità stessa diventerà oblazione accetta a Dio » ( GS 38 ). In conclusione il carisma escatologico religioso ha un duplice compito: verso la chiesa il compito critico di impedirle di adagiarsi sulle conquiste del passato, sulle false sicurezze dei poteri temporali e anche sulla stabilità del presente; verso la famiglia umana il compito di testimoniare la gioiosa speranza nel futuro che attende la storia umana. La figura biblica, che a mio avviso rappresenta questo carisma escatologico-religioso, è quella della profetessa Maria, sorella di Aronne. Essa accompagna l'esodo del suo popolo cantando e danzando: il suo compito non è combattere o dirigere il popolo: il suo compito è cantare e danzare, è quello di intonare il canto per tutti: « Cantate in onore di Jahve, poiché è veramente sublime… » ( Es 15,20-21 ). |
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Utopia | |
… e Cristo | Gesù |
Immagine I | |
Utopia II,2 | |
Salvezza escatologica | Fraternità II |
Nel celibato | Celibato III,3 |
Nei religiosi | Vita IV,2d |
Nel simbolismo del deserto | Deserto II,6 |
Deserto III | |
Nel fatto politico | Politica I,2 |
Nell'Induismo e nel Buddhismo | Buddhismo IV |
Induismo IV |
1 | Si veda il mio articolo Escatologia nel Nuovo dizionario di teologia. Edizioni Paoline 1977, 382-441 |
2 | Per. es., Aa. Vv., Evangelizzazione e promozione umana, Assisi, Cittadella 1976, 22-34 |
3 | Le mystère de l'Ascension dans les sermoni de s. Bernard in Collect. Ord. Cist. Ref., 1953, 81-88 |
4 | Patrologia Latina del Migne 183, 299-323; si veda anche J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, Firenze, Sansoni 1965, 63-89 |
5 | Cosi per es., J. Leclercq, Aux sources de la spiritualité occidentale, Parigi, Cerf 1964, 16-19 |
6 | H. Graef, Histoire de la mystique, Parigi, Seuil 1972, 50ss |
7 | Patrologia Latina del Migne 49, 557-570 |
8 | Patrologia Latina del Migne 50, 701-711 e 711-726 |
9 | Per tutta questa parte cf Leclercq, o. c. alla nota 5, 203-237 |
10 | Classica in questo senso è l'opera di H. v. Campenhausen, Die. asketische Heimatlosigkeit mi attkirchiichen und frilhmittelalterlichen Monchtum, Tubinga 1930; di questa opera è apparsa una parziale traduzione in VSp 453 (1959) 162-181 |
11 | J. Leclercq, o. c. alla nota 4, 63 |
12 | In ordine: PL 102, 620; 101, 474; 159, 624; 159, 587 |
13 | Patrologia Latina del Migne 145, 980 |
14 | Si veda a questo proposito l'opera di G. M. Colombàs, Paraiso y vida angelica. Sentido escatologico de la vocación cristiana, Barcellona 1958 |
15 | Per es., Aa. Vv., Sacrae Theologiae Stimma, Madrid 1962, IV, 837 e 928ss |
16 | Patrologia Latina del Migne 41, 647; le parentesi sono naturalmente mie |
17 | Patrologia Latina del Migne 76, 826 |
18 | Patrologia Latina del Migne 75, 938 |
19 | Patrologia Latina del Migne 183, 818; per tutta questa sezione; si può inoltre vedere C. Butier, II misticismo occidentale, Bologna, II Mulino 1970, 308-394 |
20 | Per questo tema nella tradizione biblica si veda: N. Negretti. /; settimo giorno, Roma, Pont. Ist. Bibl. 1973 |
21 | D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Milano, Bompiani 1969, 237; cf anche Aa. Vv., Una fede da reinventare, Torino 1975, 73-111 |
22 | D. Bonhoeffer, o. c., 153 |
23 | Ibid |
24 | Ivi. 172-173 |
25 | D. Bonhoeffer, Etica, Milano, Bompiani 1969, 110-111; cf anche Ser 17 (1976) dedicato a Ascesi e disciplina |
26 | D. Bonhoeffer, Etica, 111 |
27 | Ivi, 120 |
28 | Ho dimostrato più ampiamente questo punto nell'artico: Io Escatologia in Nuovo dizionario di teologia, cit., alla nota 1 |