Celibato
Sommario
L'annuncio cristiano del celibato appare nel vangelo accanto a quello del matrimonio: celibato e matrimonio sono due possibilità di vita, diverse ma entrambe positive, sono situazioni umane che il vangelo assume e rende segni di una realtà che le supera: il regno dei cieli che viene; nel celibato o nel matrimonio chi si mette alla sequela del Signore è chiamato ad amare, è chiamato ad attendere il regno ed annunciarlo. Purtroppo la terminologia corrente che riguarda il celibato resta ancora ambigua: infatti si parla anche di castità, castità perfetta, di continenza e di verginità o stato verginale soprattutto riferendosi alle religiose. Noi crediamo che l'unico termine non improprio ne equivoco sia il termine "celibato", perché la castità è una legge che riguarda tutti i cristiani, anche i coniugati, e la verginità, per l'uomo contemporaneo, è un termine biologico o sacrale troppo carico di significato ascetico-religioso: noi useremo dunque sempre il termine celibato che di per sé evoca uno stato definibile soltanto attraverso via negativa: il celibe è chi non è sposato. Occorrerebbe certamente trattare contemporaneamente, abbandonando però la tradizionale comparazione tra i due stati, matrimonio e celibato cristiano, ma il carattere di questo contributo ci forza a limitare la nostra attenzione ai dati riguardanti il solo celibato. [ Per l'altro aspetto v. Famiglia ]. I - Il celibato nella scritturaFin dalle prime pagine del Genesi l'amore nuziale tra Adamo ed Eva, l'uomo e la donna, si profila come il mistero grande, come il segno e il riflesso di Dio stesso, come l'immagine di Dio che l'uomo ( Ish ) e la donna ( Isha ) formano insieme e mai separatamente ( Gen 1,27 ). Nel rapporto sessuale in regime di nuzialità l'uomo è associato al Creatore perché in esso l'uomo diventa strumento diretto di conservazione e prolungamento della creazione stessa: non c'è realtà terrestre più eminente della sessualità:1 ad essa Dio ha conferito regalità e benedizione, regalità perché associa la creatura a Dio e la fa essere sua immagine e somiglianza, benedizione perché neppure il peccato originale, neppure il diluvio hanno cancellato la positività dell'essere sessuati, il valore dei "due" che diventano una sola carne, una sola persona ( Gen 2,23-24 ), hanno il compito di essere fecondi e di moltiplicarsi ( Gen 1,28; Gen 9,1.7 ). Su questa realtà nuziale anche Cristo ha posto la sua benedizione con la sua presenza a Cana e ha rivelato che la nuzialità umana è immagine di un rapporto che la supera: il rapporto tra Dio e il suo popolo. Per fare un discorso serio sul celibato dobbiamo assolutamente prendere come primo dato questa situazione creazionale dell'uomo ordinato alla donna e della donna ordinata all'uomo, situazione che non è mai stata cancellata, e partire da essa per vederne la dinamica attraverso i tempi di salvezza, i diversi eoni. 1. Nell'economia dell'ATIl progetto di Dio sull'uomo creato maschio e femmina implica l'unione eterosessuale, monogamica e indissolubile, ma a questo progetto l'uomo, dopo l'introduzione del peccato, non è più capace di restare pienamente fedele. Tuttavia il sesso, come spazio della vita, resta sacro perché in esso si prolunga il potere creatore di Dio e si prepara la discendenza messianica. L'importanza della procreazione nell'AT si spiega col fatto che la catena delle generazioni che vanno verso la nascita del Messia ( Gen 5; Gen 10; Gen 11,10-32; Mt 1,1-17; Gen 26,24; Gen 35,11 ) e il figlio messia promesso a Davide ( 2 Sam 7,11; 2 Sam 23,5 ) reclamano e impongono il matrimonio. Attraverso l'unione sessuale ogni uomo e ogni donna contribuiscono al realizzarsi delle promesse di Dio circa la discendenza numerosa. Per questo, pur di avere una posterità, Tamar compie un gesto oggettivamente riprovevole e diventa antenata del Messia ( Gen 38,14ss; Mt 1,3 ) e la figlia di Jefte, votata al sacrificio ancora giovane, piange sui monti la sua verginità ( Gdc 11,37 ). L'ideale dell'israelita è il matrimonio fecondo, segno della benevolenza di Dio ( Sal 127,3-5; Sal 128,1-3 ), e il celibato è talmente inconcepibile per l'ebreo che l'AT non ha un vocabolo per esprimerlo, tanto estranea è ad esso questa idea.2 L'unico pregio del celibato era letto nella verginità, quale integrità fisica della donna in vista del matrimonio: se la verginità, era perduta prima del matrimonio questo era un abominio cui si doveva riparare: in ogni caso il sommo sacerdote poteva sposare soltanto una vergine ( Lv 21,13s ). In questa visione la sterilità è segno di maledizione divina, occasione di disprezzo ( Gen 16,4; Gen 30,1-2; 1 Sam 1,5-18 ) e la castrazione assolutamente interdetta: gli eunuchi sono addirittura esclusi dalla comunità sacra di Israele ( Dt 23,2-4 ). In ciò gli ebrei si distaccano in modo netto dalle altre religioni del mondo antico nelle quali l'evirazione sessuale è praticata legalmente ( vedi i culti di Cibele, Attis, Artemide ad Efeso ) e in cui lo "jereus eunouchos" era visto come persona sacra, onorato come la vergine, la "parthenos". In Israele invece il castrato è in una situazione contraria, opposta al sacro, profana in modo irrimediabile. Il matrimonio era obbligo morale e il celibato era trasgressione alla legge di Dio proclamata nel « crescete e moltiplicatevi » ( Gen 1,28 ). La dottrina rabbinica è fedelissima al messaggio dell'AT: « Il celibe diminuisce l'immagine di Dio », chi non si da pensiero di procreare è come uno che sparge sangue, chi non ha moglie non è un vero uomo. Anche Rabbi Simon ben Azaj ( 110 ca d. C. ) concorda con tutta la tradizione. Egli, non essendo sposato, fu accusato da Rabbi Elazar ben Azaria e dovette giustificarsi davanti al tribunale rabbinico: « Il mio cuore - disse - è sospeso alla Torah, non mi resta tempo per sposarmi: il mondo può essere portato avanti da altri ». Tuttavia egli insegnava: « Chi non si preoccupa di procreare è considerato in base alla scrittura come uno che diminuisce l'immagine di Dio ».3 Nell'ordine che la legge annuncia vi è sempre uno stretto rapporto tra il religioso e il sessuale: il sesso vissuto nella nuzialità serve a compiere il disegno di Dio: c'è dunque una superiorità assoluta del matrimonio sul celibato in tutto l'AT e nel giudaismo. Tuttavia nonostante questa compatta affermazione della teologia di Israele si registrano anche all'interno della bibbia alcune circostanze che lasciano posto al celibato, o alla continenza transitoria o permanente. Per entrare in contatto con Dio si esige un periodo di continenza ( Es 19,15; Es 19,21-25; Lv 22,4; 1 Sam 21,5 ) e i rabbini insegnavano che Mosè dopo la visione del roveto non ebbe più contatti sessuali con la moglie. In queste annotazioni non c'è rigetto o deprezzamento della sessualità, bensì la convinzione che il sesso nel suo esercizio è un mimo del sacro e deve cessare quando si entra nella realtà stessa del sacro. Altre mitigazioni dell'assoluta superiorità del matrimonio sul celibato ci vengono dal periodo del dopo esilio nel quale si afferma poco a poco l'universalismo della chiamata di Dio: così accanto al recupero dello straniero c'è il recupero dell'eunuco ( Is 56,3-6 ), e le tradizioni vengono rilette in una nuova prospettiva: le donne sterili che ricevono la fecondità come dono di Dio diventano tipi di poveri, dipendenti da Dio, preparate ad una maternità non solo fisica ma anche spirituale ( Gen 16,1; Gdc 13,2; 1 Sam 1,5 ). Tra i protagonisti dell'AT la tradizione spirituale induce a supporre il celibato di Elia e di Eliseo, ma la scrittura non testimonia nulla del loro stato.4 Solo Geremia è chiamato a questo stato da Dio stesso ( Ger 16,1-4 ) proprio per dare nella negatività della sua condizione un segno "a contrario": egli è celibe e resta tale perché Dio l'ha reso terrore all'intorno ( Ger 20,10 ), annuncio di male e di calamità in tempi oscuri: l'unico valore positivo del celibato di Geremia è nel ricordare con la sua vita di solitario l'imminenza del giorno del Signore, è nel mostrare così di essere un uomo che Jahve ha sedotto ( Ger 20,7 ).5 Una sensibilità diversa rispetto alla incomprensione israelitica e giudaica del celibato è testimoniata dalla setta degli Esseni, che registra la presenza certa di celibi. I testi ritrovati a Qumran non ci forniscono gli elementi della loro visione spirituale del celibato, ma noi possiamo dedurre che essi lo praticavano in ragione della loro qualità sacerdotale in stato di servizio continuo e della loro disponibilità continua alla guerra santa, ma anche a causa del loro ideale di comunità vigilante in attesa del Messia.6 2. Nel NTNon è certo un caso il trovare Maria, la Vergine Madre, alla cerniera tra l'AT e il NT. In Maria tutta la discendenza delle nozze carnali si compie, ma in lei prende anche radici la posterità spirituale: è madre perché in lei la catena delle generazioni raggiunge il suo fine; è anche vergine perché in lei la realtà fa posto alla figura inaugurando la pienezza dei tempi. Con Gesù, suo figlio, il figlio della promessa e della benedizione concepito di Spirito santo, il mistero profondo delle nozze è svelato: il vero e solo sposo è presente. Alla luce dell'incarnazione il matrimonio diventa un segno che rinvia alle nozze tra Cristo e la sua chiesa ( Mt 22,1ss; Ef 5,31-32 ). Nella storia del mondo ormai un grido è risuonato: « Ecco lo sposo che viene, andategli incontro » ( Mt 25,6 ): preceduto dall'amico dello sposo ( Gv 3,29 ) Gesù viene verso la sua comunità che digiuna attendendolo. Il dialogo interpersonale al quale invitava la relazione sessuale dell'economia vetero-testamentaria non si ferma più su se stesso, ma è trasceso dall'incontro diretto, immediato con il Signore solo. Così il matrimonio non è più la sola via che conduce al regno dei cieli, ma nel NT si intravede ormai un'altra possibilità: quella del celibato; per questo i testi principali del NT che parlano del matrimonio evocano sempre e giustamente il celibato. Il teologo riformato I.-J. von Allmen ha ragione quando asserisce: « Dall'atteggiamento della chiesa nei confronti del problema del sesso e del matrimonio si misura sul piano pratico in ultima istanza la fedeltà della chiesa al suo Signore ».7 Il problema del matrimonio e dunque del celibato non è periferico, ma fa parte integrante dell'annuncio cristiano ed è un luogo cristologico per eccellenza. Leggiamo ora i testi neotestamentari che evocano il nostro tema. Essi sono Mt 22,23-33; Mt 19,3-12; Lc 18,29b-30; 1 Cor 7. a. Mt 22,23-33Nella controversia di Gesù con i sadducei sul rapporto tra nozze e mondo della risurrezione, appare con estrema evidenza che nonostante la reintegrazione creazionale operata dal Signore, nonostante la positività e la conferma della benedizione operata da Cristo sulla sessualità, questa appartiene all'ordine terrestre: il sesso è una realtà penultima, perché resta al di qua della morte e non entra nell'al di là, nella risurrezione. Nel regno l'uomo avrà un corpo risorto e "pneumatico", in stretta continuità con quel che era prima, certo, ma coloro che saranno ritenuti degni del giorno della risurrezione saranno come angeli del cielo per quanto riguarda la condizione sessuale vissuta sulla terra. Ci sarà continuità con la realtà terrestre poiché in caso contrario non si potrebbe parlare di risurrezione, ma la continuità si spezzerà nei confronti della dimensione sessuale e del suo esercizio che avrà fine in ogni sua espressione. Le parole di Gesù indicano che il sesso appartiene solo all'ordine terrestre, ma non va oltre la morte, e questo è annunciato sulla base delle scritture, che i sadducei mostrano di non conoscere e sulla base della fede che crede alla potenza di Dio. Coloro che credono nelle scritture conoscono il perché della cessazione dell'attività sessuale al di là del tempo e la sua limitazione alle realtà penultime, create positive, infrante, ma redente in Cristo. Ed il dono della fede porta a credere che com'è possibile la risurrezione per la potenza di Dio, così per essa la dominante sessuale, sempre prepotente al punto che l'uomo non può sottrarvisi con le sue forze, resta transitoria e delimitata da Dio. Chi si stupisce della limitazione posta alla condizione sessuale, si stupisca anche della risurrezione dai morti; il sesso sta al di qua dell'orizzonte della morte ed in evidente stretto rapporto con essa. L'uomo dopo la caduta è restato dominato dal sesso e dalla morte e per prolungarsi non aveva altra possibilità che il frutto del ventre, i figli, ma dopo che la morte è stata vinta in Cristo, il discepolo può anche vincere la dominante sessuale in forza della conoscenza delle scritture e della potenza di Dio. Questo testo non fa un annuncio esplicito del celibato, ma ne pone le premesse per una comprensione cristiana: il celibato è possibile nell'economia della risurrezione; il matrimonio non è più una realtà definitiva e assoluta, possono esservi ragioni per rinunciarvi.8 b. Mt 19,3-12Un secondo testo che riguarda il celibato appare legato alla controversia sul divorzio tra Gesù e i farisei. Matteo introduce tre versetti senza paralleli negli altri sinottici ( Mc 10,1-12; Mt 19,3-12 ) che rappresentano il solo e chiaro annuncio esplicito sul celibato nella sequela cristiana. Di fronte alla dichiarazione sul matrimonio monogamico secondo il disegno originale di Dio, si registra la reazione dei discepoli stessi di Gesù, che male accolgono questo annuncio così esigente. Tre sono nei vangeli i rifiuti che i discepoli fanno al Signore: il rifiuto di fronte all'annuncio della croce ( Mt 16,22 ), quello di fronte all'annuncio dell'eucaristia ( Gv 6,60 ) e questo, davanti all'annuncio del matrimonio monogamico. A pochi è stato dato di comprendere il mistero della croce al quale è legato il matrimonio nella fedeltà, ma coloro ai quali Dio concede di comprenderlo possono vedere che c'è addirittura un'altra possibilità: non sposarsi a causa del regno di Dio. Al rifiuto dei discepoli Gesù risponde con un proverbio numerico, dalla struttura tipicamente semitica, con il quale prolunga e completa la dottrina sulle esigenze della sequela. Porta un argomento "a fortiori", dichiarando che il regime monogamico è realizzabile perché esistono condizioni ancora più esigenti di quelle che esso richiede: le condizioni cioè del celibato. Se è possibile vivere questo, è possibile vivere il matrimonio monogamico fedele. Gesù, forse contestato nel suo celibato dall'ideologia giudaica dominante, lo giustifica con un motivo religioso: egli distingue tre categorie di eunuchi e annuncia che scegliere volontariamente il celibato in vista del regno dei cieli è possibile solo a coloro ai quali Dio concede di capire. Queste parole del Signore, che evocano l'evirazione fisica, sono certamente un trauma per la visione giudaica, ma nello stesso tempo ammettono e fanno vedere chiaramente che questa condizione porta l'uomo in una situazione di violenza ( evirazione ) che non è secondo natura: il celibato è una mutilazione, una castrazione, che può trascendere l'ordine creazionale e contraddirlo solo attraverso la comprensione donata da Dio: in virtù dell'energia del regno dei cieli che viene, in virtù della chiamata di Dio si può restare celibi, come si può avere una sola moglie nella fedeltà. In questo testo il celibato trova un fondamento biblico, essendo annunciato in un evangelo e da Cristo stesso: il celibato è un dono di Dio per coloro che di fronte alla venuta del regno ne sono talmente posseduti da fare il gesto dell'eunouchia: la signoria escatologica di Dio è già all'opera e alcuni non possono vivere in altro modo. Gesù usa il termine eunuco, termine più forte di "àgamos", non sposato, che si trova nelle lettere di Paolo, per porre l'accento sull'impossibilità di sposarsi e definire la condizione di celibato stabile, della scelta definitiva, del non usare le proprie potenzialità sessuali, situazione permanente di non-matrimonio vissuta da coloro ai quali Dio ha fatto questo dono. La loro condizione negativa di menomati rispetto ai fratelli è evocata dall'immagine dei castrati, ma la positività di questa scelta è affermata in modo forte dal motivo: in vista e per il regno dei cieli. Chi è in grado di far posto al dono di Dio gli facciaposto.9 c. Lc 18,29b-30Infine vi è un terzo ed ultimo testo della tradizione evangelica che relativizza il matrimonio e dichiara la possibilità di vivere fuori del suo regime, anche se direttamente non parla di celibato ( Mt 19,29; Mc 10,29-30; Lc 18,29b-30 ). Ai discepoli, che tramite Pietro dichiarano di aver lasciato tutto per seguirlo. Gesù annuncia una ricompensa nel mondo presente e la vita eterna nel mondo futuro. Questo "tutto" che il discepolo ha abbandonato è rappresentato dalla casa, dai fratelli, sorelle, padre e madre, figli e campi ( Mt e Mc ) e Luca vi aggiunge anche dalla moglie ( anche Mt 10,37-38; Lc 14,26-27 ). È evidente che nella tradizione lucana il matrimonio viene ad essere subordinato all'importanza del regno ed alla sequela del discepolo dietro a Gesù: il discepolo deve "odiare" tutto ciò che fa ostacolo alla sequela, anche la moglie appena sposata ( Lc 14,20 ), e può abbandonarla in vista del regno ( Lc 18,29 ). Ma è certo che Gesù qui, oltre a prospettare l'abbandono del matrimonio già avvenuto, invita alla possibilità di non sposarsi, restando nel celibato a causa dell'evangelo, del regno di Dio, di Gesù stesso. Il celibato è visto dunque, in questo testo, come abbandono di tutto ciò che può arrestare il discepolo nell'adesione totale al Cristo ( Lc 14,20 ). È certo che questo abbandono almeno temporaneamente è stato vissuto dai discepoli della comunità del Gesù storico, ma ad esso ogni discepolo è invitato quando le circostanze lo esigono. Le parole di Gesù sono un imperativo e una motivazione per quelli che, a causa del servizio apostolico e dell'amore per lui, abbandonano tutto, anche la possibilità di sposarsi o il matrimonio stesso, per vivere nel celibato. Riassumendo: nei testi evangelici il celibato appare sempre accanto al matrimonio ed è visto ( in Mt 22 ) come annuncio e realizzazione già da ora della realtà della risurrezione, come vocazione e grazia ( in Mt 19 ), come abbandono e disponibilità ( in Lc 18 ), sempre però in vista del regno e sempre fondato sulle parole delle scritture e sulla fede nella potenza di Dio ".10 d. 1 Cor 7L'insegnamento di Paolo raggiunge quello dell'evangelo: per quelli che la salvezza ha colto nello stato nuziale la via normale resta quella del matrimonio cristiano unico e indissolubile, ma per alcuni esiste anche l'altra via del celibato, quella che Paolo ha scelto e che lui elogia e propone. Nel NT il mistero dell'amore ormai trova il suo pieno significato alla luce dei due stati. In 1 Cor 7 noi percepiamo come si poneva la questione del matrimonio e del celibato in una chiesa locale verso l'anno 57 d. C. e le direttive che l'apostolo poteva dare. È risaputo che nella lettera Paolo non fa una teologia sistematica ed esaustiva, bensì risponde a delle domande presentategli dalla comunità. Dopo aver cercato di dissolvere gli equivoci sulla sessualità ( 1 Cor 6,12-20 ), secondo il principio per cui il corpo non è dato per se stessi come possesso privato, ma per il Signore e il Signore è per il corpo ( 1 Cor 6,13 ), e dopo aver collegato il problema della sessualità con la risurrezione ( 1 Cor 6,14 ), l'apostolo apre il diccorso sui due stati: di fronte alla comunità di Corinto, tentata dal dualismo nella sua antropologia e dall'encratismo rigorista o ascetico nella sua etica, egli ricorda con fermezza che la salvezza si ottiene anche attraverso il corpo; non gli sfugge che il disprezzo del corpo chiamato alla risurrezione porta ad un ascetismo cinico o al libertinaggio. In sintonia con l'evangelo reclama come via normale e ordinaria per la salvezza il matrimonio indissolubile, ponendo accanto a questo la possibilità del celibato. I corinzi affermavano che « è cosa buona non toccare donna » ( 1 Cor 7,1 ); Paolo contesta questo principio inteso come negazione del matrimonio, ma mostra pure che esso ha una sua validità generale al di fuori del legame matrimoniale, affermando che è bene che ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna abbia il proprio marito ( 1 Cor 7,2-3 ). La dominante sessuale, concupiscenza ( senza il senso peggiorativo che noi diamo alla parola ), deve infatti essere subordinata al nuovo regime cristiano del matrimonio, ma non va abolita e negata. Il matrimonio resta un mistero grande, investito di bontà, mistero che impedisce ai coniugi di rifiutarsi l'un l'altro - come i corinzi erano tentati di fare ( 1 Cor 7,3-5 ) - se non sinfonicamente, di comune accordo e soltanto per pregare più profondamente. La sessualità continua a trovare nel matrimonio pieno compimento e l'uomo in esso trova una liberazione dalla dominante del sesso che viene subordinata al regime cristiano. Tuttavia Paolo dice queste parole per concessione e non per comando, e subito dopo esprime il suo desiderio di celibe ( O di separato dalla moglie ridotto ad essere celibe ) che tutti siano come lui. In base al principio: « ognuno resti nello stato in cui il Signore l'ha chiamato » ( 1 Cor 7,17 ), Paolo invita i celibi a permanere tali, salvo che non sappiano vivere in continenza: in questo caso è meglio sposarsi piuttosto che essere preda della dominante sessuale. Riprendendo il discorso sul celibato ( 1 Cor 7,25 ) dice subito che riguardo a chi è vergine egli non ha alcun ordine da parte del Signore, ma da un consiglio come uomo che, per grazia del Signore, è degno di fede. Le parole riflettono la sua prospettiva di cristiano: in maniera generale è meglio non sposarsi ( 1 Cor 7,38-40 ), ma questa decisione deriva da un dono particolare di Dio, da un carisma ( 1 Cor 7,7 ). Egli riafferma il valore del matrimonio e fonda la legittimità del celibato non su un ordine del Signore ma sulla propria autorità, di cui ci si può fidare ( 1 Cor 7,25 ). Nella prospettiva paolina il matrimonio sta accanto al celibato e se a volte il matrimonio è da preferirsi alla solitudine ( 1 Cor 7,9 ), tuttavia il celibato relativizza il matrimonio. Paolo dichiara che in forza delle presenti necessità è bene rimanere celibi ( 1 Cor 7,26 ) riecheggiando in ciò la condizione di Geremia. Siccome la figura di questo mondo passa ( 1 Cor 7,31 ), ognuno usi del mondo come se non ne usasse rimanendo nel regime in cui si trova, secondo il carisma, il dono particolare ricevuto da Dio: matrimonio e celibato appartengono all'ordine dello Spirito e, sebbene diversi, sono unificati dall'unico Spirito. Tuttavia a Paolo non sfugge che, negli ultimi tempi inaugurati dalla risurrezione di Cristo, opera la potenza di Dio: sposarsi non è peccato, ma essendo vicina l'ora in cui la sessualità sparisce poiché tutto si è compiuto in Cristo, l'uomo credente può già vivere solo, rinunciando al matrimonio in vista dell'assiduità con Dio. Nel nuovo regno non ci saranno più le realtà penultime del sesso, della gioia o del pianto, del compiere e del consumare, della fatica e del lavoro, cosi come non ci saranno più distinzioni di razza e differenze sociali ( 1 Cor 7,29-31 e Gal 3,27-29 ). Paolo tesse il suo consiglio su uno sfondo escatologico, evidenziando che chi è inserito nelle strutture provvisorie, destinate come il matrimonio a passare, non può sfuggire alla necessità e alle tribolazioni ( 1 Cor 7,26-28 ) che accompagnano il passaggio da questo mondo al regno. In questo senso, al principio di Gen 2,18 che diceva: « non è bene per l'uomo essere solo ». Paolo, pur non dichiarando errata l'affermazione creazionale, oppone, in una antitesi chiaramente percettibile: « è buono restare così » ( celibi o soli ) ( 1 Cor 7,26 ). Paolo non è un misogino, ne uno che disprezza il mondo e che vuole fondare una ipotetica superiorità del celibato sul matrimonio; egli afferma che è necessario fare attenzione allo stato in cui meglio si obbedisce al Signore e vede nel celibato qualcosa che fa dimorare presso il Signore e permette di servirlo senza distrazioni, avvicinando obiettivamente il credente all'uomo Gesù, che ha vissuto nella Però non è tanto la vocazione oggettiva che conta quanto l'obbedienza a questa chiamata. Ma qual è la portata significativa di questo dono particolare che è il celibato? Essa risiede essenzialmente nel fatto che qualcosa di definitivo ha fatto irruzione nello svolgimento della storia: questo qualcosa è l'evento dell'incarnazione. Nel tempo che passa tra la partenza e il ritorno del Figlio dell'uomo, qualunque sia la durata di questo tempo, noi dobbiamo riconoscere che, poiché Dio in Gesù Cristo ha preso il volto di un uomo, in questo mondo ormai il matrimonio non è più il solo regime legittimo. Esso continua ad essere figura delle relazioni tra Cristo e la chiesa, ma è figura e non realtà: la distanza che separa il simbolo dalla realtà, l'unione matrimoniale dalla condizione nel regno, è misurata dalla caducità di questo segno dato dal matrimonio. Così, mentre il matrimonio è elevato al rango di un sacramento, il celibato volontario non ha bisogno di sacramento, perché fa parte dei misteri del regno dei cieli e ci fa essere direttamente insieme al Signore. Paolo ci annuncia qui il messaggio grande e positivo sul celibato rivelandolo come solitudine e assiduità con Dio. Il celibe, decidendo di restare tale, si libera da una delle strutture più fondamentali del mondo attuale e nello sconvolgimento escatologico potrà occuparsi solo delle cose del Signore e dei mezzi per piacere a lui ( 1 Cor 7,32 ), cercando di essere santo di corpo e di spirito ( 1 Cor 7,34 ). Nell'essere unito al Signore senza distrazione ( 1 Cor 7,35 ), condizione urgente per tutti i cristiani, il celibe si trova avvantaggiato, secondo Paolo, perché esente dalle preoccupazioni ( 1 Cor 7,32 ) e meno diviso rispetto ai coniugati. Qui Paolo non crea affatto due categorie di persone, ma prospetta in modo chiaro che nell'attuale situazione vissuta dal cristiano il celibato si presenta come conveniente. Per Paolo il preoccuparsi delle cose del Signore significa essenzialmente una vigilanza continua sull'evento escatologico senza essere distratti e senza pensare ad altro che al Signore. Nel celibato, l'esclusione della componente affettivo-sessuale rende meno forte il rischio di amare altre cose accanto a Dio ed orienta ogni potenzialità umana ad amare direttamente lui solo: il celibato non è disprezzo dell'amore ne dei sentimenti e degli affetti che compongono la nostra umanità, ma è il loro incanalamento nella volontà di Dio. Anche il distacco dalle cose, che è componente essenziale per vivere il celibato nella fedeltà al dono ricevuto, non significa disprezzo e superiorità nei confronti del mondo: esso è la relativizzazione di ogni cosa di fronte al Signore, un valutare tutto in rapporto a Cristo, e deve portare ad amare in lui ogni creatura. Il celibato è una vita di amore, riempita dall'unico amore di Cristo in modo totale. Per questo esso è vissuto nella fedeltà solo se è assiduità con il Signore attraverso il dialogo continuo nella ( v. ) preghiera e nell'ascolto della Parola [ v. Parola di Dio ]. Nella solitudine del celibato più facilmente si è portati a rimettere tutto a Dio abbandonandosi totalmente fino ad arrivare ad una unione senza divisioni con il Signore. In base a questo principio l'apostolo definisce la vedova che resta in solitudine come colei che ha posto la sua speranza nel Signore e si consacra all'adorazione e alla preghiera giorno e notte ( 1 Tm 5,5 ). In conclusione, in Paolo il matrimonio non è deprezzato: anzi è difeso di fronte all'ascetismo illusorio, ma la preferenza dell'apostolo va al celibato come stato più conveniente alla situazione cristiana e non come mezzo di una più grande perfezione etica. Gli altri testi del Nuovo Testamento riguardanti in modo certo il celibato sono scarsi e rappresentano per lo più una testimonianza sull'esistenza di celibi nella chiesa alla fine del I sec. Cosi vale per At 21,9, ( che ricorda le quattro figlie profetesse di Filippo, uno dei sette, e le definisce vergini ) e per Ap 14,4 ( che parla di vergini che non si sono macchiati con donne e che seguono l'agnello trionfante ). Non esistono dunque molti testi, ma vi è chiarezza e concordanza nell'annuncio cristiano della sessualità ed in esso della possibilità del celibato e della sua convenienza nei tempi escatologici che viviamo. È palese che nella storia della spiritualità non sempre si è restati fedeli a questo annuncio del NT e che oggi una lettura obbediente di questo messaggio ha innanzitutto la forza di eliminare dalla pratica del celibato o dalle riflessioni su di esso molte prospettive estranee e di correggere quelle che II - L'evoluzione storica del celibato e le sue immagini tradizionali12Innanzitutto va ribadito con forza che il celibato prima di essere un fenomeno religioso è un fenomeno umano; se il celibato è lo stato di chi non chiede di essere riconosciuto dal contesto sociale come impegnato in una coppia, occorre allora ammettere che molti uomini lo vivono per differenti ragioni. Tutti nascono celibi e rimangono tali almeno per un certo periodo della loro vita, altri muoiono in questo stato senza averlo legato a motivazioni di ordine religioso: persone celibi perché impossibilitate per cause fisiche o psichiche ad assumere il matrimonio, celibi legati a particolari condizioni di vita, celibi per ragioni di scelta personale. È interessante notare come in Europa, seppur con variazioni da regione a regione, negli anni intorno al 1970 la situazione riguardante il celibato è rispecchiata da questi dati statistici: i celibi permanenti, cioè quelli che non hanno pubblicamente scelto la vita di coppia fino al termine della loro vita risultano una percentuale compresa tra il 6-10%, ma tra di essi i celibi impegnati nello stato religioso o sacerdotale rappresentano soltanto una porzione valutabile intorno a valori minori del 1% della popolazione totale. Questo indica come il celibato, e lo si dimentica troppo spesso, è un fenomeno umano più vasto del celibato religioso. Va almeno ancora ricordato che il celibato religioso non è un dato esclusivo del cristianesimo, ma che fu conosciuto, come movimento massiccio organizzato, prima dell'era cristiana: nell'induismo ( v. ) dai monaci erranti, nel ( v. ) buddhismo dai cenobi monastici. Lo stesso mondo greco-romano non ignora totalmente il celibato, praticato per ragioni cultuali o filosofiche.13 Comunque sempre il celibato, sia come fenomeno umano sia come fenomeno religioso, è definito attraverso aspetti negativi ( il celibe è colui che non è sposato! ) e certamente la storia della sua prassi e del suo annuncio all'interno del cristianesimo è stata segnata da questa difficoltà nel definirlo in termini positivi. Il celibato ha dunque faticato molto a trovare un suo statuto e una sua definizione chiara. All'inizio, già a partire dal NT, è stato definito come stato coesistente accanto al matrimonio, poi è stato ammirato ed esaltato attraverso alcuni paragoni, infine ha trovato una sua autonomia e un suo modo di definirsi attraverso le metafore,ma in un processo sovente ambiguo. Cerchiamo di seguire questa evoluzione della riflessione e della prassi sul celibato sforzandoci di leggere con obiettività quanto di positivo vi è presente e criticando e correggendo alcune prospettive estranee al NT, luogo in cui il celibato è costituito come stato cristiano positivo e possibile a motivo del regno di Dio. 1. La Chiesa cattolicaÈ certo che già nei tempi della chiesa apostolica il celibato è stato vissuto tra i cristiani come uno stato positivo e volontario accanto al matrimonio: matrimonio e celibato erano visti come situazioni dotate ciascuna di un proprio valore ed entrambe ritenute carismatiche. Forse la forma cristiana primitiva in cui il celibato ha trovato un modo di realizzazione fu quella del matrimonio "spirituale": uomo e donna vivevano insieme come fratello e sorella in un quadro di tipo matrimoniale; la prima lettera di Paolo ai corinzi pare testimoniare l'esistenza di questa usanza in quella chiesa già nel 57 d. C., reagendo in modo critico: l'apostolo infatti, pur apprezzando il carisma e pur sapendo che non esistevano ancora strutture comunitarie per le vergini - obbligate, dalla cultura del tempo, a vivere sotto la protezione di un uomo spirituale che garantisse anche l'assistenza economica -, pare affermare la necessità della separazione tra le due strutture di vita ( 1 Cor 7 ): forse già allora risultava ambiguo e pericoloso spiritualmente mescolare quadro coniugale e prassi del celibato. 2. Il secondo secolo dell'era cristianaTuttavia verso la fine del I sec. e durante tutto il II, credenti celibi, chiamati asceti e donne nubili chiamate vergini vivono questo stato « in onore della carne del Signore »14 e sono ammoniti a vivere questo stato in umiltà senza vantarsene. La loro definizione non è ancora chiara nella chiesa, tant'è vero che Ignazio nel salutare queste donne deve ricorrere ad una strana forma: « le vergini che si chiamano vedove »;15 lo stato di vedovanza permanente per motivi spirituali era forse ormai una condizione definita e riconosciuta: già Paolo testimonia l'usanza presso alcune chiese di iscrivere in cataloghi le "vedove" ( 1 Tm 5,5-9 ), che si impegnavano a rimanere tali e avevano mostrato fede e carità nel servizio ai fratelli. Verso il 150 Giustino ( 100/110 163-167 ca ) scrive che vi sono molti, uomini e donne, che fin dalla giovinezza hanno seguito gli insegnamenti di Cristo e sono giunti a sessanta o settanta anni e sono ancora incorrotti.16 Così afferma anche Atenagora di Atene nella Supplica per i cristiani, scritta verso il 177, in cui parla dell'esistenza di molti cristiani, uomini e donne, che sono invecchiati senza sposarsi, nella speranza di appartenere maggiormente al Signore: costoro, secondo l'apologista, perseverano nella verginità e nella castrazione volontaria perché non è consentito ai cristiani altro che restare come si è stati generati oppure perseverare nel matrimonio unico, matrimonio finalizzato alla procreazione dei figli.17 Tuttavia neppure con gli apologisti del II sec. si giunge a definire con una formula coloro che vivono nel celibato: questo fatto non fu totalmente negativo, perché permise di conservare ancora l'equilibrio paolino e di continuare a vedere i due stati l'uno accanto all'altro come possibilità cristiana. Verso il 200, sotto la spinta di correnti spirituali quali la gnosi e l'encratismo, il celibato comincia ad essere interpretato come "verginità" inizia il tempo dei paragoni con il matrimonio che portarono all'apologia del celibato, sovente a scapito o addirittura contro il matrimonio. Clemente di Alessandria ( 150-215 ca ) dovrà intervenire per difendere la santità del matrimonio « contro quegli orgogliosi che pensano di imitare il Signore che non era sposato e non possedeva beni in questo mondo e per questo si gloriano di aver compreso l'evangelo meglio degli altri uomini ».18 La continenza è virtuosa solo se è ispirata dall'amore di Dio. Quelli che desiderano restare liberi dal legame coniugale e dal piacere degli alimenti carnei, in odio della carne, sono definiti da Clemente astinenti senza intelligenza. Questi tuttavia imporranno poco a poco le loro vedute spirituali: la teologia ufficiale posteriore le assumerà e si pronuncerà in favore dell'oggettiva superiorità della verginità sul matrimonio. Spariscono intanto i matrimoni spirituali e le vergini subintrodotte. Dopo il 200 le "virgines Deo devotae" porteranno il velo per indicare le loro nozze spirituali con Cristo,19 anche se non ricevono il riconoscimento di un'ordinazione poiché ciò che costituisce tale la vergine è la decisione, la scelta personale.20 3. Il terzo secoloOrigene ( 185-254 ) legge il matrimonio cristiano come figura di quello di Cristo con la chiesa ma afferma che la verginità gli è superiore perché realizzazione e non soltanto immagine di queste nozze mistiche: essa riconduce al paradiso primitivo: solo dopo il peccato infatti Adamo conobbe Eva ed anche le anime nella loro preesistenza vivono castamente.21 Nell'esegesi allegorica di Origene il circonciso veterotestamentario è tipo del cristiano che ha rigettato i desideri della carne nella castità. Tuttavia sia il celibato che il matrimonio sono doni di Dio, entrambi sono oggetto di grazia. Il matrimonio contratto secondo la parola di Dio è un carisma, come il celibato, ed il suo frutto è l'amore coniugale.22 Contro i marcioniti difende la grandezza del matrimonio e proclama che coloro i quali nella chiesa scelgono il celibato lo fanno per piacere a Dio che ha creato il mondo e non per negare la loro collaborazione al Dio dell'universo. Il matrimonio rimane però legato al tempo, mentre il celibato si pone come profezia della risurrezione, del mondo in cui conterà soltanto il legame che ci unisce a Cristo. Origene che, prendendo alla lettera la parola di Gesù sugli eunuchi ( Mt 19,12 ), si era evirato, più tardi si pentirà di questo gesto, ma la sua posizione nell'interpretazione del celibato non sfugge al paragone col matrimonio e resta ambigua. Egli afferma che il celibato e il matrimonio per loro propria natura sono due stati indifferenti e che ciò che conta è l'amore "ordinato" in essi vissuto. È possibile essere irreprensibili anche nel matrimonio, tuttavia la verginità rimane il dono più perfetto dopo il martirio, è un'ostia, la terza offerta a Dio dopo quella degli apostoli e dei martiri. Così inizia la metafora dell'offerta, dell' "oblatio perfecta" che avviene nel santuario del corpo: il celibe è dunque al tempo stesso sacerdote e vittima come Cristo in croce, e tale metafora verrà riferita esclusivamente al celibato e non sarà mai applicata, purtroppo, anche al matrimonio. Novaziano ( 250 ca ) paragona la verginità allo stato angelico, anzi la proclama superiore ad esso, perché tramite la lotta che essa porta alla carne ottiene una vittoria sulla qualità creaturale che gli angeli non possiedono.23 Da lui ha inizio, certamente con assurde pretese di trovare un fondamento nel testo evangelico di Mt 22,30, la metafora della vita celibataria come vita angelica ( bios angelikos ). Sotto l'influsso del montanismo Tertulliano aveva esaltato la verginità contro il matrimonio e così fa anche Cipriano ( + 258 ), suo discepolo, che vede nella consacrazione verginale lo sposalizio con Cristo, il possesso della gloria della risurrezione, l'uguaglianza con gli angeli. Il comandamento della prima creazione: « crescete e moltiplicatevi » ( Gen 1,28 ), viene dichiarato superato e sostituito dal comandamento nuovo dato da Cristo nell'esortare alla continenza.24 Proprio Cipriano, per primo in Occidente, usa il termine di "verginità" per designare il celibato degli uomini mentre, in Oriente, Metodio d'Olimpo ( + 311 ) legge come testimoni di verginità Elia, Eliseo, Giovanni Battista, Giovanni l'Evangelista, Paolo, ecc. Nella chiesa siriana verso il III sec. molti vivono il celibato in famiglia, e il padre è considerato un custode di tale stato dei figli, ma Afraate il Siro ( fine del sec. III - metà del sec. IV ) reagirà sottolineando come il celibato è anche abbandono dei genitori, secondo Lc 18. Egli utilizza l'espressione: « colui che è solo » per designare il celibe, espressione capitale, ripresa da Ilario di Poitiers ( 365 ) che finalmente chiamerà in modo forte e positivo con il nome di "caelebs" il non sposato per ragioni di fede, e "coelibatus" il suo stato. Atanasio ( 295-373 ), testimone della vita monastica di Antonio, imposta il problema della scelta di due stati definendo il matrimonio come via "mondana" non da biasimarsi, ma tuttavia priva dei beni della grazia a differenza della verginità, immagine della santità degli angeli, mezzo per ottenere beni migliori e frutti perfetti. 4. I secoli quarto e quintoCosì possiamo dire che alla fine del III sec. il celibato ha trovato un suo statuto definitivo nella spiritualità e nella vita cristiana, ed è visto come stato migliore del matrimonio, interpretato, difeso e lodato con le metafore di vita angelica, "sponsa Christi", nozze mistiche, offerta ed oblazione perfetta. La vasta letteratura "De Virginitate" dei secoli IV e V svilupperà questi temi e sotto la spinta del movimento ascetico identificherà sovente celibato e vita monastica: a questo proposito è interessante notare come i celibi saranno sovente definiti "i soli", "i solitari", "monaci", "nomades", forse utilizzando il vocabolario premonastico siriano che chiamava i celibi con la parola "ihidaya", cioè quelli che sessualmente sono solitari, lontani e separati da persone dell'altro sesso. Forse è proprio questa fatica nel trovare una definizione spirituale del celibato che ha causato atteggiamenti squalificanti o diffidenti verso il matrimonio. I grandi padri del sec. IV non esitano, quando ormai le persecuzioni si sono allontanate, a far succedere la verginità all'ideale del martirio; e di fatto con i loro scritti permetteranno di vedere in chi sceglie la vita ascetica e celibataria una casta superiore all'interno del popolo di Dio. S. Basilio ( 330-379 ) sembra reagire a questa corrente spirituale dominante prendendo le distanze dalla impetuosa corrente spiritualistica di Eustazio di Sebaste, che celebrava la verginità e la solitudine come rinnovamento paradisiaco della natura. Pur essendo un legislatore monastico, raramente egli parla del celibato, fermandosi in quei casi a parafrasare Paolo e insistendo che le esigenze cristiane essenziali sono la carità, la vita comune e l'obbedienza ai comandamenti di Dio. Gli altri padri cappadoci esaltano la verginità ma elogiano anche il matrimonio come mezzo per avvicinarsi a Dio, che creando gli uomini ha voluto per loro questo stato. Giovanni Crisostomo ( 344-407 ) considera la verginità cosa eccellente, pone la distinzione tra precetti e ( v. ) consigli evangelici, ma ribadisce costantemente che tutti, celibi e sposati, sono chiamati alla perfezione.25 Il celibato, che certamente è cosa grande, da solo non serve e non significa nulla: va legato alla carità e alla diakonia nella chiesa locale. Esso è un segno dell'economia della nuova alleanza, è posto accanto al matrimonio e per il fatto di essere praticato da molti mostra, con un argomento "a fortiori", che è possibile vivere castamente anche il matrimonio.26 Il celibato è "sacramento" e annuncia l'avvento del regno perché lascia intravedere le realtà del mondo dei risorti, ma non è un comandamento bensì una condizione riservata a pochi chiamati. Il Crisostomo tuttavia ha sempre cura di affermare che non c'è opposizione tra matrimonio e verginità e per questo evita il paragone tra i due stati, mostrando che svalutare il matrimonio significa in definitiva denigrare la verginità. I padri occidentali, nella loro meditazione sul celibato, di fatto si ispirano agli antecessori orientali e conservano tutta la loro dottrina sviluppandola in alcuni punti, ma formulando in sostanza più una sintesi che una rilettura creativa. Ambrogio ( 330-397 ) lega in modo costante la verginità all'ecclesiologia e alla cristologia ed è per questo che arriva a darle il titolo di sacramento,27 perché mezzo di partecipazione misterica al corpo di Cristo, la chiesa vergine e feconda. Anche se il suo linguaggio è spesso quello tipico dello stoicismo, per Ambrogio la verginità è una virtù sempre riferita al mistero dell'incarnazione. Nel Verbo fatto carne, che visse come vergine, c'è un particolare modo di assunzione dell'umanità che viene realizzato in modo simile da chi resta celibe.28 Il vergine è "come Cristo", poiché dal Signore la verginità ha preso esistenza, valore, significato, redenzione. Interessandosi soprattutto delle donne vergini, Ambrogio intravede in esse la femminilità riportata alla sua condizione originale quando la donna non era la seduttrice ma l'aiuto dell'uomo ( Gen 2,18 ), sicché il maschio stesso di fronte alla vergine ritrova la sua natura di uomo che aveva perduto: così è possibile l'avverarsi della pace paradisiaca profetizzata da Isaia ( Is 65,23 ). Ma la vergine è anche sacramento di Cristo al pari della chiesa perché sposa del Verbo, madre spiritualmente feconda;29 per questo la scelta verginale è un'esigenza di chiesa che si fa in modo visibile all'interno delle comunità, collocandosi come castità assoluta accanto a quella vedovile.30 Girolamo ( 345-420 ) insiste sovente sul valore del celibato a detrimento del matrimonio: dice di lodare le nozze quasi costretto dal fatto che queste generano dei vergini31 e oppone i due stati facendo di uno la realtà del mondo e dell'altro la condizione del paradiso: il matrimonio termina infatti con la morte mentre la verginità dopo la morte riceve la corona di gloria.32 Agostino ( 354-430 ) difende il matrimonio dagli attacchi dei manichei ma proclama il celibato come stato migliore del matrimonio. Chi si sposa genera Adamo, ma il vergine genera Cristo. Ora se il celibato è puro atto d'amore per Cristo, esso è sacrificio perfetto, e se tutti lo scegliessero il numero degli eletti sarebbe presto completato causando il ritorno di Cristo.33 5. Dal medioevo ai nostri giorniDa questo breve e sporadico excursus patristico si può comprendere come si impostò il problema dello stato del celibato nella teologia cristiana. Su questa linea si giunge, attraverso il medioevo e la scolastica, alla teologia dei ( v. ) consigli evangelici e alla preferenza assoluta accordata allo stato di celibato: non ci fu mai un rinnovamento nell'interpretazione, ma ci si limitò tutt'al più a rendere più aspra la concorrenza con il matrimonio. Nel medioevo si arriverà addirittura a formulare la dottrina secondo la quale la verginità è un dono infuso ai bambini già col battesimo.34 Tommaso d'Aquino ( 1225-1274 ) dichiara che « è indiscutibile che la verginità deve essere preferita alla vita coniugale »,35 ponendo così i fondamenti della definizione del Concilio di Trento: « Se qualcuno dirà che lo stato coniugale deve essere preferito allo stato di verginità o di celibato e che non è meglio rimanere nella verginità e nel celibato che unirsi in matrimonio, sia scomunicato ».36 Il Vat II ripresenta esso pure la verginità con le tradizionali espressioni di preminenza e superiorità, ma è certo che questo è avvenuto solo perché la maturazione teologica su questo punto era alquanto inadeguata in quel momento storico e il Concilio ha preferito ribadire i dati tradizionali. Oggi, a quindici anni dal Concilio, esegeti e teologi sono lontani da queste posizioni e tutti giudicano che dal III sec. ai giorni nostri la riflessione sia stata unilaterale e troppo apologetica nei confronti del celibato e negativa nei confronti del matrimonio. Oggi si torna a leggere celibato e matrimonio nella linea neotestamentaria, legandoli l'uno all'altro, perché l'uno spiega l'altro e vicendevolmente ricevono il loro valore, ma senza fare paragoni: sono due carismi diversi donati al popolo di Dio in vista della santità cui tutti sono chiamati. Oggi certamente avvertiamo con chiarezza che le metafore vanno criticate: la denominazione "vita angelica" non può pretendere di trovare fondamento esegetico serio in Mt 22,30 e in ogni caso non è più un termine significativo per i nostri giorni perché rischia di privilegiare i celibi equiparandoli ad angeli. Anche la denominazione di "sponsa Christi" non può appoggiarsi sul testo di 2 Cor 11,2 dove Paolo, parlando della sua comunità, proclama di averla fidanzata come vergine pura col suo sposo unico, il Cristo. L'applicazione della metafora paolina è collettiva e non riguarda ne la vergine ne l'anima. "Virgines Christi maritae" resta un'espressione lontana dall'attuale sensibilità e forse anche pericolosa nel suo indicare un rapporto speciale e personale con Cristo. E infine la metafora "oblatio perfecta", anche essa di origine paolina, è applicabile a tutti i cristiani e non solo a quelli che vivono nel celibato, perché tutti siamo chiamati a offrire le nostre vite in sacrificio al Signore, al quale solamente tutti noi cristiani apparteniamo. Dobbiamo dunque restare senza metafore oggi? Certo non è facile esprimere metafore significative per noi oggi, ed è prudente, per evitare ideologie sul celibato, rapportarsi alle parole di Cristo che definiscono il celibato come "eunouchia": parole crude e senza valenze mistiche, ma che potrebbero aiutare a capire meglio la realtà del celibato nello sceglierlo come nel viverlo. Per questo credo si debba preferire parlare di celibato e nient'altro, prestando attenzione più alla situazione di vita che alle caratteristiche che le possono essere attribuite. Celibe significa chi sessualmente vive solo. Il celibato religioso altro non è che questo stato scelto in obbedienza a una chiamata e per il regno di Dio. III - Problematica e sensibilità attualeOggi, come ai tempi di Cristo, il celibato per il regno di Dio resta sovente un luogo di scandalo e suscita reazioni che vanno dall'incredulità circa questa possibilità al disprezzo. Eppure anche di fronte all'attuale contestazione del valore del celibato, fatta sovente da cristiani e a volte addirittura da persone che si sono impegnate a viverlo, occorre replicare: chi può capire capisca, perché a pochi è dato di capire. L'attuale valutazione è certamente carica della reazione alla tradizionale apologia del celibato nei confronti del matrimonio e a ben poco possono servire le discussioni; solo annunciando, solo attraverso la fedeltà alla parola di Dio si può uscire da questa patologia. Il celibato fa parte del caro prezzo della grazia, così come la fedeltà coniugale, ed è un luogo cristologico per eccellenza: senza di esso si depaupera pericolosamente il messaggio cristiano. È facile costatare che in quelle aree della chiesa in cui esso è contestato e negato, anche altri valori - tra cui per primo il matrimonio -, hanno perduto molto del loro significato, di quel segno che la rivelazione, e non l'ideologia religiosa umana, aveva loro dato. Il celibato cristiano è vocazione, distacco, amore di Cristo, dono dato per l'utilità della chiesa, un segno della realtà del regno che viene. 1. Il celibato come vocazioneIl celibato è innanzitutto una vocazione che pone il cristiano che vi risponde in uno stato carismatico. Certo esso è un fenomeno umano e come tale vissuto da uomini e donne come scelta o come necessità, ma può anche essere accettato per ragioni di fede, sotto le spinte della parola di Dio e della vocazione interiore, opera dello Spirito santo. Al celibato dono di Dio non resta che dire un "sì" pronunciato in obbedienza, in umiltà e nell'ascolto di un appello che non viene dalla carne e dal sangue, ma dal Signore. Non si sottolinea mai abbastanza questa qualità vocazionale del celibato: esso è infatti valido e significativo, risponde liberamente alla chiamata interiore, vera grazia nel senso biblico della parola. Dio chiama con una parola creatrice ed efficace, inizia un dialogo con il credente, con ciò che egli è e non contro ciò che questi è capace di essere, ma allora il credente deve dare una risposta rapida, totale, confidente. Così si entra nella dinamica del regno e da quel momento non si è più padroni della vocazione. Il fatto umano di farsi eunuchi diventa il "sì" a Dio in vista del regno dei cieli, l'atteggiamento umano diventa carisma, diventa ministero: questa è la concretizzazione obbligata e immediata della ( v. ) vocazione, dunque anche del celibato che certo non è fine a se stesso anche se costituisce la verità essenziale di una persona. Nella prassi del celibato l'uomo non si fida di se stesso, ne delle sue forze, non prende un impegno con l'uomo, ma egli non è lasciato alla sua impotenza perché è lo Spirito stesso che interviene e prende un impegno con il celibe senza più tirarsi indietro, senza più pentirsi della vocazione accordata e delle promesse. Così il celibato per il regno di Dio diventa un fatto, un'alleanza tra Dio e il credente espressa nella professione, nei voti pronunciati davanti a tutta la chiesa ed esce dai pericoli di soggettivismo e del dilettantismo. Nell'accettazione - che non può essere che definitiva -, della chiamata al celibato, Dio inizia un'opera e si impegna lui stesso a portarla a termine. All'uomo non resta dunque che l'amore vissuto ogni giorno, il rimanere al proprio posto, dove è stato chiamato, custodendo con vigilanza questo dono che fa parte di quel che noi amiamo per volontà di Dio di fronte agli uomini. Con "parresia" il celibe deve attendere un giudizio positivo di Dio su di lui e per questo deve vivere con intelligenza spirituale questo stato del celibato. Come per la salvaguardia di ogni carisma, anche per il celibato occorre fuggire, perseguire ( 1 Tm 6,11 ), rompere, se necessario, i legami e le relazioni che sfigurerebbero la vocazione e questo in funzione di una carità sempre più profonda, in funzione dell'amore per Cristo. Perseguire significa perseverare, restare, attendere, essere costanti. Certo, impegnarsi nel celibato è una scelta non facile, ma il problema della fedeltà si gioca sul terreno della fede, credendo o non credendo alla potenza di Dio. Se si crede allora il dono è costantemente ravvisato. Anche di fronte alla crisi della vocazione e di fronte alla messa in discussione dell'impegno la grazia e la fedeltà di Dio non verrà mai meno e basterà per ravvivare la vocazione e permetterci di assumerla ancora nella sua ampiezza totale. La dinamica spirituale della vocazione al celibato si nutre di fede, di assiduita con il Signore, di preghiera e, anche se oggi tale parola spiace a molti, di prudenza. Non si può andare contro dati elementari della psiche e del cuore umano, giocando col celibato, rischiando continuamente al di là delle proprie forze, mancando di un minimo di igiene spirituale e poi pretendere di permanere con gioia nello stato dell'eunuco per il regno di Dio. Il celibato, come ogni altro dono, merita ringraziamento a Dio, abbisogna di. vigilanza, si nutre di vicinanza al Signore. All'amore che chiama si può rispondere solo con l'amore che liberamente si dona. Solo così si può capire e mostrare come il celibato è un fatto rivelativo, uno strumento di annuncio, al pari del matrimonio; non è uno stato di perfezione, ne un valore etico e religioso se non di riflesso, come conseguenza della sua realtà di fede. È innanzitutto un fatto rivelativo: il mondo passa insieme con la sua scena, il tempo si è fatto breve ed allora nell'imminenza del regno di Dio che viene si può restare celibi vivendo questa evangelica follia del celibato, cosi vicina al mysterium crucis [ v. Croce ]. 2. Il celibato come distacco e abbandonoIl celibato cristiano porta inoltre con sé una dimensione di abbandono, dimensione che oggi purtroppo non è più sentita o messa in evidenza: non è infatti solo assenza di relazioni genitali e di vita di coppia, ma è, come lo ha mostrato l'evangelo e la molteplicità delle forme nelle quali in modo autentico è stato storicamente vissuto, abbandono della famiglia, della parentela. Si può in questo senso vedere il celibato come una spogliazione, un farsi più povero assimilandosi a quelli che sono costretti a vivere soli, senza famiglia, perché non hanno potuta costruirla o perché l'hanno persa. Nel celibato cristiano si abbandona tutto per la sequela del Signore e ci si immette in una logica nuova, ritrovando nuovi fratelli, nuove sorelle, nuove case in misura del centuple. La stessa comunità cristiana di vita comune [ v. Comunità di vita ] è resa possibile dal celibato, questa trova un luogo di rivelazione veramente epifanico se vissuta correttamente e in modo pieno. Come nel regno futuro, già fin d'ora il celibato permette ad uomini e a donne di vivere insieme e con unanimità nel regime dell'agape: essi non si scelgono in base alla carne e al sangue, alla simpatia e all'affetto umano, ma in ragione dell'ubbidienza alla stessa vocazione e nello svolgimento dello stesso ministero. A queste dimensioni spirituali con valenze antropologiche l'uomo di oggi è particolarmente sensibile e attento, per questo occorrerebbe dare ad esse maggiore risalto. Ciò garantirebbe un celibato più gioioso e più limpido e non lascerebbe posto ai discorsi ambigui e pericolosi che spesso anche alcuni che si pretendono maestri di spiritualità fanno, invitando i celibi all'amicizia personale [ v. Amicizia ], No! il celibato porta con sé una dimensione di castrazione che non si può cancellare e che significa essere soli obbedendo alla propria vocazione anche nella vita comune e nello stare in mezzo agli uomini. Soprattutto oggi che le scienze moderne insistono sulla ( v. ) sessualità come forma di linguaggio, non si dovrebbe essere così innocenti da pensare alla possibilità di relazioni privilegiate e affettive di chi è celibe per il regno. Certo le passioni, gli affetti non vanno distrutti, ma nel regime di povertà e di abbandono che il celibato implica devono convertirsi in affetto per chi fa la volontà del Padre: qui si può misurare l'affetto tramite la vicinanza al Signore e alla sua parola. Infatti senza questa conversione delle passioni si vivrebbe un celibato mutilato che ricorda più la situazione dello scapolo che quella di chi è interamente teso all'assiduità con il Signore nella solitudine del celibato. 3. Il significato cristologico, ecclesiale ed escatologico del celibatoIl significato cristologico è messo in luce dal celibato vissuto per amore di Cristo, per amore della sua persona. Cristo non soltanto lo si segue, non soltanto lo si ubbidisce, ma prima di tutto lo si ama, di un amore personale. Questa centralità della persona di Cristo è sottolineata dagli evangelisti: « Chiunque ha lasciato case… moglie, figli, campi, a causa del mio nome », riferisce Matteo ( Mt 19,29 ), che pone questa motivazione al primo posto, così come anche Marco che dice « a causa mia» ( Mc 10,29 ). Ora proprio per amore di Cristo, in riferimento a lui, il credente resta celibe e assume definitivamente questo stato. Cristo fu celibe e non perché il matrimonio fosse per lui realtà negativa, ma scelse questo stato nell'urgenza della sua missione, nella sua assiduità assoluta con il Padre. Così il credente, come Cristo, può vivere la chiamata e attraverso il celibato annunciare la venuta di Cristo che ha compiuto tutto, rendendo ormai breve la storia e aprendo il regno di Dio. L'amore con cui Cristo va amato è l'amore più grande di cui può essere capace un uomo e una donna e questo amore rende ogni altra realtà relativa alla persona del Signore. Anche l'abbandono degli affetti e dei legami di cui era intessuta la vita di chi si mette alla sua sequela nel celibato è una conseguenza di questo amore più grande e totale. Non si tratta di superiorità nei confronti delle cose, ma di un valutarle in rapporto a lui, un imparare ad amarle relativamente a lui. Questa centralità di Cristo mantenuta viva dall'assiduità, dal dialogo continuo nella preghiera e nella lettura della parola di Dio è la condizione che permette di vivere il celibato nella fedeltà e farlo diventare gioia e pace [ v. Cristocentrismo ]. Nell'amore di Cristo il celibato si apre anche ad una dimensione ecclesiale. Le vocazioni e i carismi nella chiesa sono molti, ma tutti dati per il bene comune [ v. Carismatici I,3 ]. Così il dono del celibato non è per chi ad esso è chiamato, ma per la chiesa e per l'umanità. Non ha in sé la sua finalità, ma la trova nel servizio, nell'annuncio che esso permette di fare. Per questo il celibato va vissuto con distacco dal celibato stesso, perché strumento e non fine, e deve essere espresso in modo inequivocabile e visibile con un impegno riconosciuto dalla chiesa. La dimensione ecclesiale non consiste tanto nella maggiore disponibilità per il servizio e la missione che chi è celibe ha nei confronti di chi è sposato, ma piuttosto nella realtà della vita stessa del celibe e nella sua condizione di testimone della potenza di Dio che lo rende messaggio vivente ai cristiani. Il celibato è il luogo in cui in modo forte si mostra di credere alla potenza di Dio che agisce sulla propria vita. La diaconia è poi una conseguenza ed un adempimento del comandamento unico, e valido per ogni cristiano, dell'amarsi gli uni gli altri con lo stesso amore di Cristo, che è diventato servo di tutti e ha dato la propria vita per i fratelli. La diaconia non può costituire la motivazione del celibato o il suo fondamento ecclesiale [ v. Chiesa ]. Rileviamo infine, del celibato, il significato escatologico, quale annuncio del regno che viene e profezia del ritorno di Cristo. Nel regno non si sarà più ne maschi ne femmine ma una sola cosa in Cristo. La sessualità e il matrimonio cesseranno perché il sesso non è una realtà ultima ma penultima. La scena di questo mondo passa, la condizione cui la realtà terrena è sottoposta non ha più la forza di legarci, tutto è inconsistente. Le cose sono state assoggettate alla vanità, perché Cristo è venuto e il regno di Dio è già tra di noi. Quando chiama al celibato. Cristo fa comprendere che tutte le cose verranno meno, o, meglio, risorgeranno e allora Dio sarà tutto in tutti ( 1 Cor 15,28 ). Fin da ora la sua grazia e la sua potenza riempie e colma l'esistenza di chi lo cerca nel celibato e gli permette di vivere nella povertà dell'aver abbandonato tutto, nella debolezza e nella solitudine, nell'incompletezza, nella rinuncia ad avere una discendenza, sapendo che Dio salva questa sua vita e attendendo che la faccia risorgere [ v. Escatologia ]. |
|
Nel N. T. | Celibato I,2 |
Consigli ev. I,4 | |
Sessualità III | |
… sacerdotale | Ministero IV |
… e amicizia eterosessuale | Amicizia IX |
… e integrazione affettiva | Ascesi IV,3 |
… e matrimonio | Celibato I |
Eucaristia III,2 | |
Sessualità VII | |
… in crisi | Crisi IV |
1 | W. Zimmerli," La mondanità dell'AT, Milano 1973, 41 |
2 | L. Kohler, Der hebràische Mensch, Tubinga 1953, 76 |
3 | H. Strack-P. Billerbeck, Commentar zum NT aus Talmud und Midrash, Monaco 1956, bt Jb 63a in I, 802, bT Jb 63b in 2.373; cf anche A. Tosato, Il matrimonio nel giudaismo antico e nel NT, Roma 1976, 55; E. S. Artom, La vita di Israele, Firenze 1950, 170 |
4 | M. Hayek, Elie dans la tradition syriaque in Elie le prophète, Bruges 1956, 165-167; Hervé de l'Incarnation, Elie che-z. les pères latins, ib. 189-190 |
5 | Jeanne d'Are, La chasteté et la virginilé consacrées dans l'AT et le NT in Aa. Vv., La chasteté, Parigi 1959, 12; sul significato del celibato di Geremia cf W. Rudolf Jeremia, HAT 12, Tubinga 19683, 110-111 |
6 | A. Guìllaumont, A propos du celihat des Esseniens: Hommages a A. Dtipont-Sommer, Parigi 1971, 395-404; A. Marx, Les racines du celibat essenien in RdQ 7 (1969-71) 323-342 |
7 | J.-J. von Allmen, Matrimonio in Aa. Vv., Vocabolario biblico, Roma 1969, 268 |
8 | L. Legrand, La virginité dans la Bible, Parigi 1964, 47-54 |
9 | L. Legrand, o. c., 35; J. Dupont, Mariage et divorce dans l'Evangile, Saint Andre Les Bruges 1959, 116-122 e 200ss; M. Adinolfi, Gesù e il matrimonio in BihOr 14 (1972) 20-26 |
10 | L. Legrand, o. e., 47-54; Qu. Quesnell, Made Themselves Eunuchs for thè Kingdom of Heaven in Cath. Bib. Quart. 30 (1968) 335-358 |
11 | P. H. Menoud, Mariage et celibat selon saint Paul in Rev. de Th. et de Ph. 1 (1951) 21-34; X. Léon-Dufour, Mariage et continence in A la rencontre de Dieu, Le Puy 1961, 319-329 |
12 | Per un'analisi più precisa ed estesa cf C. Tibiletti, Verginità e matrimonio in Antichi scrittori cristiani, Napoli 1969; Vigrossi, La vergiruta negli scritti dei Padri in Il celibato per il Regno, Milano 1977, 133-164 |
13 | A. M. Esnoul, L'hindouisme in Histoire des Religions I, Parigi 1970, 1035; A. Bareau, Le Bouddhisme, ib. 1156-1164; A. Depye, Ehe in Reali. f. Ant. u. Chr. IV, 654ss; H. Chadwick, Enkrateia, ib. V, 343-347 |
14 | Ignazio di Antiochia [+ 107 ca ] Ep. ad Polycarpum, PG 5, 724 |
15 | Ep. ad Smyrnaeos, PC 5, 718 |
16 | Apologia I, 15, 6, PG 6, 349 |
17 | Legatio prò Christianis, PG 6, 965 |
18 | Stromata 3, 6, 1-3, PG 8, 1150 |
19 | Tertulliano. De oratione 22, scritto tra il 200 e il 206, PL 1, 1188 |
20 | Ippolito [+ 236], Traditio apostolica 13, PG 1, 1122 |
21 | De oratione 23, PG 11, 490 |
22 | In Mf Comm. 14, 16, PG 13, 1229 |
23 | De bona pudicitiae 7, CSEL 3, 3, 13-25 |
24 | De habitu virginum, PL 4, 416 |
25 | In Mt homiliae 7, 7, PG 57, 81 |
26 | In Mt homiliae 62, 3, PG 58, 599 |
27 | PL 16, 219 De virginibus III, 1, 1 |
28 | De virginibus I, 3, 13 |
29 | De virginibus I, 6, 30 |
30 | De viduis 4, 25 |
31 | Ep. ad Eustochium 22, 19, PL 22, 406 |
32 | Adversus fovinianum 1, 16, PL 23, 235 |
33 | De sancta virginitate 6, 6ss [scritto verso il 400/1], PL 40, 399 |
34 | Pietro di Palud; Antonino, Summ. Ili, 2, 1, 5 |
35 | S. Th. II-II, q. 152, a. 4 |
36 | Sessio XXIV, Canones de sacramento matrimonii, 10, DS 1810 |