Sommario della conferenza con i Donatisti |
La discussione era giunta a questo punto; ora, benché le argomentazioni dei Cattolici fossero chiarissime, i Donatisti si ostinavano a combatterle con repliche inutili.
Il giudice promise di includere nella sentenza finale un giudizio su tale questione, di cui ormai era bene informato, e ordinò di passare alla discussione dei motivi che avevano originariamente causato lo scisma.
Allora i Donatisti cominciarono a far pressione su di lui perché prima si pronunciasse su ciò che aveva ascoltato.
E benché anche i Cattolici esigessero altrettanto, egli restò della sua opinione e ordinò di trattare piuttosto di ciò che aveva causato all'inizio lo scisma.
Allora i Cattolici chiesero che venisse letta la documentazione presentata dai Donatisti.
Il giudice ordinò di farlo, ma i Donatisti cominciarono a fare una opposizione ancor più dura per costringerlo a pronunciarsi sui punti già discussi, riprendendo sempre questioni già trattate e aggiungendo che lui non doveva assolutamente giudicare su tale questione, che adesso voleva far discutere attraverso la lettura dei documenti, presentati dai Cattolici.
Essi dicevano che il giudice di questa causa doveva essere Cristo e accusavano con acredine i Cattolici di aver sollecitato come giudice un uomo; intanto rimescolavano le solite accuse sulle persecuzioni, di cui si consideravano vittime.
A questi rilievi i Cattolici replicarono, osservando che non avevano alcun diritto di prendersela con loro perché si erano appellati a un giudice umano, in quanto proprio loro avevano intentato una causa sulla questione dei Massimianisti senza rimettersi minimamente al giudizio di Cristo; come pure, in veste di accusatori, avevano preso l'iniziativa di rinviare al giudizio di un uomo, appunto l'imperatore Costantino, la causa di Ceciliano!
Né tanto meno potevano parlare di persecuzioni, col pretesto che i Cattolici sollecitavano qualche intervento da parte degli imperatori in favore della Chiesa, quando i loro circoncellioni, capeggiati da chierici, commettevano misfatti così orrendi.
A tutto questo non dettero alcuna risposta convincente, limitandosi a dire che nella faccenda i loro sacerdoti non c'entravano per nulla, perché tali misfatti erano stati perpetrati sotto la direzione di chierici.
A tal proposito si parlò anche di come avessero infierito sulle persone, gettando nei loro occhi calce e aceto, superando così in crudeltà il diavolo, che non giunse a tanto con la carne di quel sant'uomo, pur avendo avuto il potere di tormentarla. ( Gb 2 )
Allora essi chiesero chi fossero i figli del diavolo: coloro che fanno queste cose o coloro che le subiscono?
Come se i Cattolici non si fossero riferiti alle spaventose torture, causate proprio dai loro chierici e circoncellioni!
E anche qui i Cattolici non si lasciarono sfuggire l'occasione di metterli a confronto con i Massimianisti.
Gli dissero dunque che, in base a questa loro teoria, i Massimianisti erano migliori, in quanto erano stati trascinati da loro davanti al tribunale di tre o più proconsoli: se essi avevano subìto la persecuzione, i Donatisti erano stati i loro persecutori.
I Cattolici li incalzavano anche perché rivelassero se, fra coloro che avevano condannato e perseguitato, non avessero per caso accolto un certo Feliciano, e se costui non lo avessero per caso annoverato fra i loro.
Ma essi, muti come sempre davanti a questa obiezione, cambiarono argomento, accusando i Cattolici di aver preso le difese del diavolo, perché avevano affermato che lui aveva risparmiato gli occhi del santo Giobbe ed essi lo avevano superato in crudeltà.
Se la presero quindi col diavolo, accusandolo di essere difeso dai Cattolici, e sostenendo che aveva risparmiato gli occhi a Giobbe per un atto di crudeltà più raffinata contro la carne di lui, perché potesse cioè godersi lo spettacolo delle ferite che aveva inferte a tutto il suo corpo.
È veramente sorprendente come abbiano potuto considerare tale atto un grande merito, a meno che non pretendano di aver torturato gli uomini nei loro occhi per un senso di pietà, perché cioè non soffrissero alla vista delle ferite, inferte in tutto il loro corpo!
Ma i Donatisti, esagerando ancora una volta l'entità delle persecuzioni di cui si dicevano vittime, evocarono la tragica fine di alcuni di loro nella cittadina di Bagai.
Gli risposero i Cattolici, chiarendo che costoro avevano trovato la morte mentre si resisteva ai loro atti di violenza, con i quali avevano minacciato anche il giudice.
I Cattolici ricordarono pure i crimini efferati, compiuti da loro fra quella popolazione, fino al punto di incendiare la stessa basilica e gettare alle fiamme i Libri santi.
Quanto alle loro morti tragiche, esse erano da imputarsi piuttosto alla loro abitudine di uccidersi gettandosi nel vuoto.
I Donatisti replicarono a queste precisazioni, presentando ancora gli stessi fatti e gonfiandoli, per farli apparire come atti di vera e propria persecuzione, di cui si sentivano vittime; accusavano arrogantemente i loro avversari di essere la mala pianta da cui provenivano questi frutti ( Mt 7,16-20 ) e reclamavano a loro volta una sentenza sulla questione del campo e della zizzania, nonché sulla questione della Chiesa una e immortale.
I Cattolici, al contrario, menzionavano come frutti dei Donatisti gli scismi, la reiterazione del battesimo e le denunce contro i Cattolici, che i loro antenati per primi avevano fatto davanti all'imperatore.
Poiché lo scambio di reciproche accuse prolungava assai il dibattito, il giudice preferì chiudere la discussione, promettendo un suo giudizio in materia con una sentenza successiva; ordinò quindi di proseguire la lettura del documento dei Cattolici, già iniziata e poi interrotta.
Così si pose fine al dibattito sulla causa della Chiesa.
I Cattolici si erano adoperati al massimo per tenerla separata da quella di Ceciliano, poiché non poteva essere pregiudicata nel modo più assoluto dai crimini di chicchessia, in quanto essa, a fronte di tutte le accuse degli uomini, poteva contare su tali e tante testimonianze divine. Dopo ciò, si cominciò a trattare anche la causa di Ceciliano.
Ecco dunque ciò che fu trattato in quinto luogo.
Fu data lettura dei due rapporti del proconsole Anullino all'imperatore Costantino: nel primo, già letto precedentemente,6 il proconsole dichiara che gli antenati dei Donatisti, cioè quelli della fazione di Maggiorino, gli avevano inviato alcune lettere accusatorie contro Ceciliano, con richiesta di trasmetterle all'imperatore Costantino, e lui le aveva trasmesse al suddetto imperatore; nel secondo, informa di aver invitato, per ordine dello stesso imperatore, ciascuna delle due parti ad inviare dieci delegati per trattare la questione, ed esse avevano promesso di farlo.
Dopo si lesse la lettera dello stesso imperatore, inviata ai vescovi, nella quale ingiungeva loro di istruire la causa di Ceciliano.
Quindi, nell'ordine, fu letto il giudizio episcopale, pronunciato da Milziade, vescovo di Roma, e da altri vescovi della Gallia e dell'Italia, redatto nella stessa città di Roma.
Si lesse la prima parte della documentazione, cioè gli atti del primo giorno, in cui i delegati, inviati per sostenere l'accusa contro Ceciliano, affermarono di non aver nulla di cui accusarlo, e in cui Donato di Case Nere fu convinto, lui presente, di aver causato anche uno scisma in Cartagine, all'epoca in cui Ceciliano era ancora diacono: in effetti era proprio dallo scisma di Cartagine che era nata la fazione di Donato contro la Chiesa cattolica.
Inoltre [ si diceva che ] gli stessi avversari di Ceciliano avevano promesso di presentare il giorno seguente i testimoni indispensabili, che si imputava loro di aver sottratto al processo: in ciò mentirono ulteriormente, poiché in realtà non vollero presentarsi al processo.
Terminata la lettura di questa parte del processo, si cominciarono a leggere gli atti del secondo giorno.
I Donatisti però interruppero la lettura e chiesero con le più vive istanze che prima fossero letti i documenti presentati da loro, asserendo che era contrario all'ordine leggere prima l'assoluzione di Ceciliano, quando essi non lo avevano ancora accusato.
Ne nacque un'accesa disputa, perché i Cattolici sostenevano che non si doveva interrompere la lettura degli atti processuali finché non fosse terminata, essi al contrario asserivano che non si sarebbe dovuto neppure iniziare a leggere ciò che avevano interrotto, poiché non rientrava nelle competenze di alcuno difendere un uomo prima di averlo accusato.
Al che i Cattolici replicavano che, poiché il giudice voleva sapere quale fosse la causa dello scisma, essi avevano chiesto di far leggere quei documenti che erano stati portati precedentemente per essere letti, quando si trattava della persona dell'attore della causa.
E c'erano due buone ragioni per esigerne la lettura: primo, perché fosse acclarato che i Donatisti in questa causa erano stati i primi a sollecitare l'intervento di un uomo in veste di giudice, essi che accusavano i Cattolici di aver voluto far presiedere a un giudice civile questa conferenza; secondo, appurare chi fosse la persona che aveva fatto ricorso.
Ora, siccome era già iniziata la lettura, non la si doveva interrompere, ma farla proseguire fino al termine.
Il giudice, fra queste due posizioni, mentre in un primo momento aveva concordato con la richiesta dei Cattolici di far terminare la lettura già iniziata degli atti, successivamente cedette alla richiesta che i Donatisti gli estorsero di far sospendere la lettura e permettere di leggere i documenti presentati da loro.
Allora i Donatisti, in un breve preambolo, dissero che Mensurio, vescovo della Chiesa di Cartagine e predecessore di Ceciliano, durante la persecuzione aveva consegnato ai persecutori le sante Scritture; e, a riprova di ciò, lessero una sua lettera a Secondo di Tigisi, a quell'epoca primate dei vescovi della Numidia.
Nella qual lettera, Mensurio dava quasi l'impressione di ammettere il suo crimine.
Egli tuttavia non aveva scritto di aver consegnato i Libri santi, ma piuttosto di averli portati via e conservati perché non fossero scoperti dai persecutori; invece aveva abbandonato nella Basilica delle [ Aree ] Nuove una raccolta di scritti da condannare degli eretici, che i persecutori finirono per trovare e portar via senza chiedergli altro.
In verità, alcuni membri del Consiglio di Cartagine avevano in seguito confidato al proconsole che gli individui, inviati per prelevare e bruciare le Scritture dei cristiani, erano stati beffati, poiché avevano trovato soltanto alcuni libri, non saprei dire quali, che non riguardavano costoro; invece [ le Scritture ] erano al sicuro nella casa del vescovo: era da lì che si sarebbero dovute asportare e bruciare.
Ma il proconsole su questo non volle dargli retta, a lettura della medesima lettera rivelò anche che Mensurio non aveva approvato il comportamento di coloro che, senza essere arrestati, si erano presentati spontaneamente ai persecutori e, pur non sottoposti ad interrogatorio da chicchessia, avevano rivelato spontaneamente di essere in possesso dei libri delle Scritture, ma che non le avrebbero consegnate; e [ Mensurio ] aveva proibito ai cristiani di onorare tali soggetti.
La lettera stigmatizzava anche alcuni delinquenti e debitori del fisco, i quali, speculando sulla persecuzione, cercavano di liberarsi dal rischio di essere puniti per i troppi debiti oppure calcolavano di riabilitarsi e in qualche modo lavarsi dai propri crimini, o quantomeno di riuscire a far soldi e a passarsela bene in carcere usufruendo dei servizi dei cristiani.
Tuttavia i Donatisti accusavano Mensurio non soltanto d'aver consegnato i libri; dicevano infatti che certamente aveva mentito negando che quelli fossero i Libri santi, per tentare così di occultare il suo peccato; in ogni caso, gli rinfacciavano la finzione stessa.
Lessero anche la pacata risposta, inviata da Secondo di Tigisi allo stesso Mensurio, nella quale anch'egli descriveva le malefatte dei persecutori in Numidia: chi era stato catturato e si era rifiutato di consegnare le sante Scritture, era stato sottoposto a dure prove, torturato con i più terribili supplizi e messo a morte.
Egli raccomandava di tributare loro gli onori dovuti per il martirio, lodandoli perché non avevano consegnato le sante Scritture, imitando così l'esempio di quella donna di Gerico, che non volle consegnare nelle mani dei loro inseguitori i due esploratori, ( Gs 2 ) nei quali erano simboleggiati i due Testamenti, l'Antico e il Nuovo.
Certo, questo esempio, seppur si debba interpretare secondo tale figurazione, favoriva piuttosto Mensurio.
Infatti, nella sua lettera, Mensurio biasimava coloro che confessavano di tenere presso di sé le sante Scritture, anche se di fatto non le consegnavano: cosa che non fece quella donna perché, anziché confessare che gli esploratori ricercati erano nella sua casa, lo negò.
Secondo diceva anche nella sua lettera che gli erano stati inviati, da parte del curatore e del Consiglio, un centurione e un beneficiario per esigere la consegna dei Codici divini e farli bruciare, ma egli rispose: " Sono cristiano e vescovo, non sono un traditore ".
E poiché volevano ricevere da lui un oggetto da poco o qualcosa del genere, egli rifiutò di dargli anche questo, sull'esempio di Eleazaro il Maccabeo, che non volle neppure fingere di mangiare carne suina per non dare agli altri esempio di prevaricazione. ( 2 Mac 6,21-28 )
I Cattolici ascoltarono pazientemente fino al termine la lettura di queste lettere di Mensurio e Secondo, pur sottolineando che queste erano loro ben note e non avevano alcuna relazione con la causa della Chiesa.
Il giudice allora esortò i Donatisti a restituire a loro volta la cortesia della pazienza, e ordinò di far leggere i documenti presentati dai Cattolici, che in parte erano già stati letti.
A questo punto i Donatisti chiesero di dare la precedenza alla lettura della documentazione, che presentavano sulla causa di Ceciliano.
E anche questo, senza alcuna difficoltà, i Cattolici glielo accordarono, sottolineando però che tale concessione era prova di grande condiscendenza ed esprimendo la speranza che anch'essi li ripagassero allo stesso modo.
Allora il giudice fece leggere la documentazione presentata. I Donatisti lessero la relazione del concilio di circa settanta vescovi, riunito dai Donatisti a Cartagine contro Ceciliano, nel corso del quale lo avevano condannato in sua assenza, in quanto si era rifiutato di comparire davanti a loro con l'imputazione di essere stato ordinato da traditori e perché si diceva che avesse proibito, quando era diacono, di far portare viveri ai martiri, detenuti in prigione.
Si fecero anche i nomi di alcuni colleghi di Ceciliano, qualificati come traditori negli Atti pubblici, che comunque non furono letti.
Fra questi colleghi, Felice d'Aphthungi era attaccato in modo particolarmente violento, tanto da essere chiamato " la fonte di tutti i mali ".
Nel seguito, ciascuno esprimeva il proprio giudizio: prima Secondo di Tigisi, il capo di tutti, e poi gli altri, i quali dichiaravano di non essere in comunione con Ceciliano e i suoi colleghi.
Terminata la lettura degli atti di questo concilio, i Cattolici risposero che lo scambio epistolare fra Mensurio e Secondo mostrava a sufficienza i loro buoni rapporti, e che nessuna accusa di crimine, né condanna alcuna era stata inflitta in seguito contro Mensurio per il suo operato.
Quanto poi al concilio celebrato contro Ceciliano, di cui avevano letto gli atti, esso non portava né indicazione del nome del console né data alcuna; tuttavia non intendevano farne argomento di accusa, poiché ciò poteva essere dovuto più a negligenza che a frode.
A loro volta i Cattolici presentarono un altro concilio, presieduto dallo stesso Secondo di Tigisi e tenuto nella città di Cirta.
Quando fu letto il nome del console e la data, i Donatisti dichiararono che tali decreti non comportavano abitualmente la menzione del console e della data.
Al che i Cattolici replicarono che questa era forse una loro abitudine, volendo in tal modo garantire i propri concili da possibili accuse di frode, mentre i concili dei Cattolici citavano sempre i nomi dei consoli e la data.
Quindi cominciò la lettura degli atti del concilio che i Cattolici avevano presentato, in cui Secondo interrogava uno per uno quanti sapeva che avevano consegnato i Libri santi, ed espelleva dall'assemblea i rei confessi.
Si leggeva nel modo seguente: ogni qualvolta veniva letta negli atti del concilio di Cirta la confessione dei traditori, si leggeva il suo nome anche negli atti del concilio di Cartagine, come se fosse quello di un accusatore che condannava i presunti traditori nel processo di Ceciliano.
Si giunse così a trattare l'accusa di crimine, presentata da Purpurio di Limata contro lo stesso Secondo di Tigisi.
Purpurio era stato accusato da Secondo di aver ucciso nel carcere di Milei i figli della propria sorella; a sua volta Purpurio lo accusava del crimine di tradizione, affermando di essere stato imprigionato dal curatore e dal Consiglio perché consegnasse le Scritture, e non avrebbero potuto rilasciarlo finché non avesse consegnato qualcosa.
La stessa accusa, lanciata da Purpurio contro di lui, che cioè era stato imprigionato dal curatore e dal Consiglio perché consegnasse le Scritture, l'aveva praticamente ammessa lo stesso Secondo nella lettera di risposta a Mensurio, nella quale affermava che il curatore e il Consiglio gli avevano inviato un centurione e un beneficiario per chiedergli di restituire le Scritture o qualcos'altro.
Egli naturalmente assicurò di non aver consegnato nulla; ma, allora, come mai proprio lui - che pure aveva rievocato la memoria di tanti martiri, i quali, per non averle volute consegnare, furono torturati e uccisi - pur essendo agli arresti e reo confesso, e rifiutandosi di consegnare alcunché, era potuto sfuggire a qualsiasi pena ed essere rilasciato?
Questo lui né l'ha scritto a Mensurio né l'ha comunicato in risposta a Purpurio.
In effetti, non ha dichiarato al centurione e al beneficiario di non essere in possesso delle Scritture, ma ha semplicemente risposto di non volerle consegnare per nessuna ragione.
Non si riesce proprio a capire come costoro abbiano potuto rilasciarlo libero e riferire le sue dichiarazioni senza rischiare la loro vita, soprattutto se si tiene conto che lo stesso Secondo dichiarò che era stata inflitta una terribile morte, non solo a gente di nessun conto, ma a padri di famiglia perché avevano dato la stessa risposta.
Tuttavia, su questo particolare, i Cattolici non mossero accusa alcuna a Secondo, limitandosi a far leggere ciò che Purpurio gli aveva contestato e perché aveva fatto pace con i traditori, rimettendo il tutto nelle mani di Dio perché non si consumasse lo scisma.
Tutto questo essi lo dissero perché fosse chiaro che razza di uomini fossero coloro che avevano emesso la sentenza contro Ceciliano assente.
Terminata questa lettura, i Cattolici chiesero di far leggere anche i documenti, di cui era stato rinviato l'esame.
Assicuravano infatti che da lì si poteva dimostrare come fosse stato trattato Ceciliano e che cosa si dovesse pensare del concilio di Cartagine, nel quale, stando al testo già letto, numerosi vescovi avevano condannato Ceciliano pur essendo assente.
I Donatisti, al contrario, premevano perché i Cattolici riconoscessero l'autenticità di questo concilio, dal momento che i Cattolici avevano letto il rapporto del proconsole Anullino, in cui era documentato che le lettere di accusa contro Ceciliano erano state trasmesse all'imperatore Costantino.
Con tale comportamento i Donatisti confermarono definitivamente che Ceciliano era stato denunciato presso l'imperatore dai loro antenati.
La risposta dei Cattolici fu che quel concilio cartaginese non poteva pregiudicare l'assente Ceciliano, come non pregiudicò l'assente Primiano il concilio di quelli che lo condannarono nella causa di Massimiano.
In effetti, il partito di Donato tenne in maggiore considerazione le decisioni del processo successivo in favore di Primiano, anziché accettare l'autorità del precedente concilio che lo aveva condannato.
In base a questo criterio, nella causa contro Ceciliano ci si sarebbe dovuti attenere a ciò che fu deciso in seguito.
A questo punto i Donatisti, messi alle strette sulla causa di Massimiano, dissero che " una causa non deve pregiudicare un'altra causa, né una persona un'altra persona ": principio che di solito adottano tutti i Cattolici, quando i Donatisti addossano i crimini degli uni sugli altri per difendere il loro scisma e scaricano sulla cristianità intera la responsabilità di non so quali crimini degli Africani.
Tant'è vero che i Cattolici, proprio durante questa conferenza, avevano fatto di tutto per tenere separata la causa di Ceciliano dalla causa della Chiesa, sostenendo che nella Chiesa la mescolanza dei cattivi non nuoce ai buoni e i loro peccati non inquinano i buoni.
Questi sforzi non tendevano ad altro che a questo: evitare che una causa pregiudicasse un'altra causa e una persona pregiudicasse un'altra persona.
Ed è precisamente ciò che gli avversari, a proposito di un'altra questione, confermarono clamorosamente!
Quando poi il giudice chiese quale fosse l'opinione dei Cattolici sul concilio di Cartagine, essi ribadirono che non era da sottovalutare la somiglianza con la causa di Primiano, poiché anche Cristo Signore convinceva i Giudei con il proprio comportamento per portarli alla verità. ( Mt 15,1-9; Mc 7,1-13; Lc 11,37-44 )
In seguito i Donatisti si misero a disquisire lungamente per trovare nell'autorità di questo concilio di Cartagine la conferma della condanna di Ceciliano.
Egli infatti si era rifiutato di partecipare ad una assemblea così cospicua di vescovi - come se anche Primiano non avesse opposto un identico rifiuto di prender parte alla riunione di coloro che lo condannarono, sapendo bene ciò che complottavano - e non aveva atteso, lui primate, di essere consacrato da un altro primate.
La realtà era che la prassi della Chiesa cattolica si differenziava da quella della Numidia: sono i vescovi viciniori che devono consacrare il vescovo di Cartagine; come pure, non è un qualsiasi vescovo metropolitano che consacra il vescovo della Chiesa di Roma, ma il vescovo più vicino della città di Ostia.
In tal modo essi, parlando di questa loro consuetudine, di cui ignoro l'origine, tentavano di pregiudicare la Chiesa cattolica.
In effetti, se questa prassi fosse stata antica, ne avrebbero incriminato anche Ceciliano, quando lo condannarono in sua assenza.
Citarono anche un testo scritto di Ottato, che avrebbe riferito parole di Ceciliano: " Se sono traditori coloro che mi hanno ordinato, vengano pure loro e mi ordinino! ".7
Se la frase è autentica, egli la pronunziò evidentemente per irridere i destinatari di questo scritto, poiché era sicuro che i suoi consacranti non erano traditori.
Infatti non disse: " Perché sono traditori ", ma: " Se sono traditori ".
Lasciava così che la questione della loro innocenza fosse provata dove e quando poteva esserlo secondo le norme.
A queste e ad altre asserzioni, enunciate nel corso del loro lungo intervento, i Cattolici risposero brevemente, dicendo che proprio i Donatisti avevano giudicato insufficiente il concilio di Cartagine per dirimere la causa di Ceciliano, dal momento che l'avevano demandata all'imperatore con atto formale di denuncia.
In tal modo comprovavano anche che si doveva dare la massima importanza al fatto che la causa era stata definita dall'imperatore, davanti al quale essi avevano creduto bene inviarla.
Questo era infatti il punto su cui i Cattolici insistevano: tagliar corto a ogni tentativo più o meno occulto di bloccare il dibattito e leggere piuttosto quei documenti, che mostravano come la causa fosse già stata giudicata e l'innocenza di Ceciliano provata più chiaramente della luce del giorno.
I Donatisti invece non volevano assolutamente che si leggessero e bloccavano la lettura con diversi pretesti. Infatti, quando il giudice chiese se prima fosse stato celebrato il concilio di Cartagine e poi fosse stata inviata all'imperatore la causa di Ceciliano, i Cattolici dissero che, siccome questo concilio non aveva né nome di console né data, intendevano rispondere contemporaneamente alle due questioni: se la causa era stata inviata precedentemente all'imperatore, era necessario attenersi alla soluzione che lui aveva dato; se invece era stata inviata dopo, non interessava tanto il giudizio dei Donatisti quanto quello dell'imperatore, al cui tribunale essi avevano giudicato opportuno appellarsi dopo la loro sentenza.
Allora i Donatisti inserirono lunghe disquisizioni sul console e sulla data, spiegando le ragioni, in base alle quali nel concilio dei loro antenati non si leggeva né il nome del console né la data, affinché nessuno potesse trarne argomento per mettere in dubbio la loro buona fede; assicuravano che questa era la prassi ecclesiastica: non scrivere nei decreti dei vescovi la data e il nome dei consoli, e, per comprovarlo, volevano far leggere anche gli atti di un concilio di Cipriano.
Ma poiché cercavano unicamente di rallentare il dibattito, e i Cattolici non avevano inteso discutere su questo punto quando avevano risposto congiuntamente alle due questioni, se cioè il concilio di Cartagine, celebrato da loro contro Ceciliano, fosse stato prima o dopo, il giudice, su istanza dei Cattolici, ordinò di proseguire la lettura dei documenti, che era stata interrotta.
Allora i Donatisti frapposero un'altra questione, che originava interminabili lungaggini, ma di cui in realtà volevano servirsi a loro vantaggio, caso mai avessero potuto dimostrare il loro intento, e cioè che quel tal concilio di Cirta, in cui erano state lette le confessioni dei traditori, i quali si perdonavano a vicenda per evitare uno scisma, non era autentico, poiché i loro nomi si trovavano fra quelli che si erano espressi con sentenze di condanna per Ceciliano assente.
Nel tentativo di dimostrare che esso era falso, addussero molte argomentazioni: alcune erano fragili anche per loro, due invece le fecero valere molto e vi indugiarono a lungo.
La prima era che il concilio di Cirta, contro la prassi ecclesiastica, recava giorno e nome del console; l'altra era che in tempo di persecuzione non era possibile riunire un concilio.
I Donatisti pertanto esigevano che i Cattolici presentassero altri concili antichi di vescovi, recanti l'indicazione dei consoli e delle date o, quanto meno, citassero un testo analogo delle sacre Scritture.
I Cattolici si rendevano ben conto che si trattava solo di interruzioni strampalate e inesplicabili attorno a una questione inconsistente.
Infatti chi avrebbe mai potuto credere che costoro potessero eccepire sull'autenticità di un fatto, proprio perché, per scrupolo di precisione, era stata annotata l'attestazione della data all'inizio del documento, a meno che ciò non fosse per evitare che, proprio a causa della data, fosse inevitabile investigare sulla sua autenticità?
Chi mai li poteva pensare capaci di una simile obiezione, per prepararsi in anticipo una lista di concili antichi e provare l'esistenza di questa consuetudine?
E chi sarebbe andato, in simili circostanze, a compulsare i vecchi archivi ecclesiastici?
Rendendosi ben conto delle loro manovre, i Cattolici intanto fecero notare che il concilio di Milziade portava la data e il nome del console, e poi ricordarono che anche nelle sante Scritture i profeti avevano annotato a capo dei loro scritti l'indicazione dei tempi più remoti, con tanto di anno di tale regno e mese di tale anno e giorno di tale mese, in cui scese su di loro la parola del Signore.
Ma il giudice, valutando di nessun rilievo l'obiezione sulla data e sul nome del console, credette bene di metterla da parte; ordinò quindi di leggere il resto degli atti del concilio, presieduto da Milziade, e furono letti.
In essi risultò evidente che tutti i vescovi presenti, compreso lo stesso Milziade, avevano assolto e giustificato Ceciliano con voto unanime, mentre Donato era stato condannato, e già nella prima sessione, lui presente, era stato convinto di errore.
Si trattava proprio di quel Donato di Case Nere, la cui presenza fu allora comprovata.
Dopo questa lettura, fu chiesto ai Donatisti di dare una risposta sul concilio di Cirta; invece essi tentarono nuovamente di provare la sua inautenticità, sostenendo che in tempo di persecuzione non era possibile riunire un concilio.
Il giudice non sottovalutò l'obiezione e, giudicandola pertinente, invitò i Cattolici a rispondere; fra l'altro, pose la questione seguente: come provare che a quel tempo c'era la persecuzione.
Allora i Donatisti esibirono alcuni atti dei martiri, che registravano gli interrogatori e il martirio, subìto per aver confessato la fede.
Il giudice ingiunse anche all'ufficio di segreteria di calcolare le date secondo le indicazioni dei consolati e dei giorni, che si leggevano nel concilio di Cirta e negli atti dei martiri, comunicandogliene i risultati.
I Cattolici infatti avevano sostenuto che a partire dalla passione di quei martiri, che testimoniava trattarsi di un'epoca di persecuzione, per arrivare fino al console e alla data del concilio di Cirta, passava quasi un anno.
Invece l'ufficio, incaricato di calcolare le date, nella sua risposta indicò che era trascorso un mese.
Allora i Cattolici chiesero che venisse cancellata dalle tavolette la loro precedente dichiarazione per conservare agli atti solo la risposta della segreteria, considerandola più esatta; ma i Donatisti non vollero che fosse espunta dalle tavolette la dichiarazione dei Cattolici, e questi non insistettero per evidenziare l'animo ostile degli avversari su questo punto.
In realtà era più esatto il calcolo dei Cattolici; l'ufficio di segreteria si era ingannato nel computo, comunicando una risposta errata.
L'errore emerse in seguito ad un controllo più accurato della redazione degli atti, come potrà accertare agevolmente chi avrà interesse a leggerli e non gli dispiacerà fare il calcolo.
Infatti le gesta dei martiri, che comprovavano il tempo della persecuzione, furono scritti la vigilia delle idi di febbraio, durante il nono consolato di Diocleziano e l'ottavo di Massimiano; invece gli atti episcopali del decreto di Cirta furono redatti dopo il consolato di quelli, il terzo giorno prima delle none di marzo.
Risulta quindi un intervallo di tredici mesi, maggiore degli undici mesi, di cui parlavano in precedenza i Cattolici in base ad un calcolo meno accurato.
Quanto all'ufficio della segreteria, si era ingannato nel calcolo rispondendo che intercorreva un mese di intervallo, perché aveva creduto che si trattasse dello stesso consolato e non aveva fatto attenzione alla parola dopo il consolato, che indicava evidentemente l'anno seguente al consolato.
Perciò i Cattolici, prendendo per buona la risposta della segreteria, si vedevano costretti a dimostrare che in tempo di persecuzione si erano potuti riunire quegli undici o dodici vescovi in una casa privata, mentre i Donatisti insistevano per ottenere una prova, desunta da altri concili, per vedere se era possibile trovare qualche concilio di vescovi nel periodo di persecuzione.
I Cattolici in quel momento non potevano appurare, né potevano compulsare le vecchie carte degli archivi ecclesiastici, quindi risposero che era più facile per dodici individui riunirsi in una casa, in un'epoca in cui i fedeli stessi, nonostante l'imperversare della persecuzione, erano soliti riunirsi in assemblea.
E ciò era comprovato dagli atti stessi dei martiri, in cui questi confessavano, durante le torture, di essersi riuniti in assemblea ed aver assistito alla liturgia domenicale.
Questa dichiarazione i Cattolici l'avevano fatta prima ancora che la segreteria facesse il calcolo e desse la sua risposta.
I Cattolici aggiunsero che gli atti episcopali del concilio di Cirta, conservati fino ad oggi e reperibili grazie alla diligenza degli antenati, dovevano essere tenuti nella stessa considerazione delle lettere di Mensurio e Secondo, lette dai Donatisti.
Infatti il concilio di Cartagine, in cui settanta vescovi avevano condannato Ceciliano assente, fu menzionato anche da Milziade nella seduta in cui fu assolto Ceciliano.
Invece correva voce che le lettere di Mensurio e Secondo non erano citate in nessun'altra parte, per cui la loro autenticità non era suffragata da alcuna testimonianza esterna; ma non per questo i Cattolici le dichiaravano false.
Essi chiesero anche ai Donatisti di fornire le prove, se erano in grado, che durante la persecuzione i vescovi si scambiavano lettere, come quelle che asserivano si fossero scambiate Mensurio e Secondo.
E questo i Cattolici lo sostenevano, non per dimostrare che quelle lettere di Mensurio e Secondo erano false - vere o false che fossero, non avrebbero potuto influire minimamente sull'esito della causa -, ma per far comprendere ai Donatisti quanto fosse inutile il loro espediente, escogitato per costringere i Cattolici a presentare altri esempi di concili, riuniti in tempo di persecuzione.
Essi, infatti, avrebbero potuto dirgli con la stessa intransigenza: " Presentate anche voi altre lettere, scritte e inviate come queste durante la persecuzione, che, se per caso fossero state intercettate, avrebbero potuto essere richiesti anche i Codici occultati, e il Consiglio, il curatore, il centurione e il suo beneficiario avrebbero potuto rischiare di perdere la vita, denunciati in blocco per aver rilasciato impunito Secondo, benché si fosse rifiutato di consegnare le Scritture ".
Essi non avrebbero assolutamente potuto sul momento trovare altra corrispondenza epistolare, intercorsa fra i vescovi durante la persecuzione e in terre così lontane.
Su tale argomento si accese un lungo dibattito: i Donatisti insistevano nel ripetere che non era assolutamente possibile radunare un concilio in tempo di persecuzione per ordinare un vescovo, poiché il mondo era piombato nell'apostasia e non c'erano più fedeli per i quali consacrare un vescovo, e altre cose di questo genere.
I Cattolici invece rispondevano che era facile per i vescovi riunirsi in numero così ridotto, che non era neppure il caso di chiamare concilio, mentre i fedeli continuavano a riunirsi, come attestavano gli atti dei martiri; e c'erano senza dubbio fedeli in numero sufficiente per ordinare vescovi, precisamente quei fedeli che non avevano abbandonato l'usanza di tenere le solite assemblee, come attestano gli atti dei martiri.
Questo era quanto dicevano e ribattevano in mille salse i presenti.
In effetti, constava che in tempo di persecuzione era messa a disposizione l'abitazione privata per le riunioni dei cristiani, come si leggeva in alcuni atti dei martiri; invece per i Donatisti non era possibile che durante quel periodo qualcuno mettesse a disposizione la propria casa.
Si ricordò loro che non era poi così incredibile che si fosse riunito quel gruppetto di vescovi in una casa privata durante la persecuzione, quando, nel culmine della stessa, anche in carcere si istruivano e battezzavano i martiri, e lì i cristiani celebravano i sacramenti, essendovi stati rinchiusi proprio a causa di quegli stessi sacramenti.
18.33 - Terminate una buona volta queste dispute, in cui interloquì più volte il giudice, si convenne che effettivamente fu possibile organizzare quella riunione da parte dei vescovi, quando era comprovato che anche i fedeli si riunivano.
Quindi il giudice intimò ai Donatisti di presentare le loro eventuali obiezioni contro il concilio e la sentenza di Milziade, che, come era stato letto, aveva assolto e giustificato Ceciliano, poiché da questo concilio, più che da quello di Cirta, dipendeva la soluzione della causa.
Allora i Donatisti si misero ad accusare lo stesso Milziade del crimine di tradizione, dicendo che i loro antenati avevano rifiutato di sottomettersi al suo giudizio perché era un traditore : come se costoro non si fossero presentati al suo tribunale e non avessero risposto che non avevano nulla da dire contro Ceciliano!
Ma questo attirò l'attenzione del giudice sulla seguente questione: era possibile produrre una qualsiasi sentenza, civile o ecclesiastica, concernente l'accusa di tradizione nei confronti di Milziade?
E questa prova gli stessi Cattolici l'attendevano, anzi, l'esigevano.
Allora i Donatisti lessero alcuni verbali estremamente prolissi, redatti davanti al prefetto, in cui non si faceva menzione né del nome del prefetto né del luogo in cui si erano svolti i fatti.
Comunque, da quella interminabile lettura, saltarono fuori i nomi di molte persone che avevano consegnato ogni sorta di beni ecclesiastici: ma, del nome di Milziade, assolutamente nulla.
Terminata la lettura, il giudice espresse il suo stupore perché era stata promessa una cosa e ne era stata letta un'altra; ma essi, chiedendogli di pazientare ancora, lessero altri atti, dai quali constava che Milziade aveva inviato alcuni diaconi al prefetto della città, latori di una lettera dell'imperatore Massenzio e di un'altra del prefetto del pretorio al prefetto della città, per recuperare i loro beni confiscati al tempo della persecuzione, e che il suddetto imperatore aveva ordinato di restituire ai cristiani.
Ma neppure in queste lettere, tanto il giudice che i portavoce dei Cattolici, vedevano configurato alcun crimine di Milziade.
Allora i Donatisti se la presero con il diacono Stratone, inviato da Milziade con altri per recuperare i luoghi appartenenti alla Chiesa, in quanto era stato menzionato negli atti, letti precedentemente, come traditore; conseguentemente volevano far ricadere anche su Milziade il crimine di tradizione, perché si era servito di lui come diacono anziché degradarlo.
Proseguendo il loro intervento, affermarono che Milziade era il terzo vescovo, succeduto a colui che sedeva quando avvenne tale consegna dei Libri santi.
A questo punto il giudice chiese se in quegli atti della consegna dei Libri santi fosse almeno detto che Stratone era diacono.
La lettura confermò che egli veniva chiamato " istigatore della più sciocca superstizione ": appellativo affibbiato non solo a lui, ma agli altri che consegnavano i Libri santi.
I Donatisti però replicarono che questo era il nome, dato in senso dispregiativo dai persecutori pagani, tanto ai diaconi che ai presbiteri.
Risposero i Cattolici che non era affatto strano, anzi di uso molto comune nelle relazioni umane, trovare non solo due, ma anche più individui che portavano lo stesso nome; poté dunque benissimo darsi il caso che quel traditore fosse un presbitero di nome Stratone, questi invece il diacono Stratone.
Del resto, proprio i Donatisti avevano affermato che i pagani chiamavano istigatori della più sciocca superstizione tanto i diaconi che i presbiteri, pur tenendo presente che i pagani potevano chiamare con questo ingiurioso appellativo tutti i chierici, ed era molto dubbio a quale grado appartenesse quel chierico traditore.
Certo, anche se si riuscisse a dimostrare che si trattava di un diacono, questa omonimia di persone non era per nulla incredibile o sorprendente dal momento che poco tempo prima, proprio nella città di Roma, c'erano due diaconi di nome Pietro.
I Cattolici osservarono ancora che, seppur si fosse potuto dimostrare ciò che per nulla era stato dimostrato, e cioè che era stato il medesimo diacono Stratone il traditore, inviato poi da Milziade con altri diaconi a recuperare le proprietà ecclesiastiche, non per questo necessariamente si poteva sospettare di questo crimine Milziade; la persecuzione lo avrà obbligato per lungo tempo a stare fuori sede, per cui era completamente all'oscuro di questo caso e considerava irreprensibile quell'individuo, dal momento che nessuna denuncia lo segnalava colpevole di tale reato.
Contro queste argomentazioni i Donatisti polemizzarono a lungo quanto inutilmente, ripetendo sempre le stesse cose.
Dopo la conferenza, in verità, i Donatisti calunniarono Milziade anche a proposito di Cassiano, poiché si incontra pure questo nome tra i diaconi che Milziade inviò al prefetto, e negli atti, in cui si riferisce la storia della consegna dei Libri santi.
Se lo avessero fatto durante il dibattito, i Cattolici avrebbero tranquillamente risposto che, in tale quantità di chierici romani, non c'era da meravigliarsi che si trovassero non solo due o più Stratone, ma anche due o più Cassiano; come, fra i dodici Apostoli, si legge che c'erano non solo due Giuda, ma anche due Giacomo.
A meno che, forse, ad essi fosse lecito distinguere fra Donato di Case Nere e Donato di Cartagine, per timore che il loro principale fondatore, Donato di Cartagine, passi per quello condannato nel giudizio di Milziade, mentre invece ai Cattolici non era concesso avere più individui con lo stesso nome in quella gran massa di chierici romani.
Era falsa, in effetti, l'affermazione dei Donatisti che c'era identità di persone, identità di luoghi, identità di regioni, poiché nelle due raccolte di atti non si leggevano né i luoghi né le regioni né la dignità esatta delle persone, ma soltanto una similitudine di nomi, cosa che il costume universale non cessa di ripetere in persone distinte.
Pertanto il giudice, respingendo queste supposizioni prive di alcun fondamento, ordinò di produrre prove certe contro quegli atti o, quantomeno, di leggere la sentenza di Costantino, precedentemente menzionata.
Fu letta dunque la sentenza di Costantino.
In essa si diceva che egli aveva scritto a Eumalio, suo vicario in Africa, comunicandogli di avere già istruito personalmente, in presenza delle due parti, la causa di Ceciliano.
Egli attesta che, scartati tutti gli altri giudici, aveva riconosciuto l'innocenza di Ceciliano e la perfidia gravissima dei suoi calunniatori; ricorda inoltre che nella città di Arles un gruppo di vescovi aveva espresso un giudizio favorevole a Ceciliano, sentenza alla quale avevano già aderito un gran numero di ex-appartenenti allo scisma, mentre gli altri persistevano irremovibilmente nel loro dissenso.
Per questo motivo egli stesso si era visto costretto a giudicare la causa nella sua globalità davanti alle parti.
Dopo la lettura di questa lettera imperiale, il giudice chiese ai Donatisti se avessero obiezioni da fare.
Allora essi tentarono di riprendere i loro calunniosi attacchi contro Milziade; ma il giudice con sentenza interlocutoria bloccò subito il loro tentativo e li sollecitò formalmente ad esprimersi se avessero qualcosa contro il giudizio di Milziade o contro la sentenza dell'imperatore.
Essi risposero che anche le orecchie dell'imperatore si erano lasciate suggestionare da voci perverse.
Al che, prontamente replicò il giudice, dicendo che aveva esaminato il testo con la massima attenzione ed aveva appurato che il processo si era svolto in presenza delle due parti.
Ma quelli cominciarono ad esigere che venisse letto il testo, in cui era scritto che l'imperatore aveva giudicato alla presenza delle due parti.
Si lesse quel punto per ordine del giudice.
Allora, non avendo più nulla da obiettare in proposito, iniziarono ad attaccare la lettera imperiale a proposito del console, in quanto cioè era stata letta senza citare il nome del console.
Da qui, nuovo conflitto: i Donatisti malignavano che il concilio episcopale era stato letto menzionando il console, mentre la lettera imperiale non citava il nome; i Cattolici ribattevano che non era qui il punto della questione.
Da parte sua, il giudice interpose la sua autorità per dichiarare che alcune leggi determinavano in modo inequivocabile che le disposizioni imperiali, benché prive del nome del console, erano valide a tutti gli effetti.
A questo punto i Cattolici li misero alle strette perché dichiarassero apertamente che era falso il testo che veniva letto: in ogni caso, si poteva ricorrere agli archivi.
Ma essi, respinti da questa posizione, come se sfoderassero un'argomentazione inattaccabile, reclamarono la lettura di un testo di Ottato, che avevano già chiesto precedentemente, asserendo di poter provare con esso che Ceciliano era stato condannato dall'imperatore.
La qual cosa era stata loro promessa, ma rimandata a più tardi.
Infatti il giudice, prima voleva sapere se osavano affermare esplicitamente che denunciavano la lettera imperiale come un falso.
Cosa che essi, in verità, non ritenevano assolutamente, anche se insistevano in modo odioso sul fatto che il documento non portava il nome del console.
Intanto sollecitavano ripetutamente perché venisse letto il testo di Ottato.
Mentre si trascinava la disputa, fu trovata su un'altra copia della lettera imperiale la menzione del console.
Quando fu presentata, i Donatisti dissero: " Essa non avrebbe assolutamente dovuto portare il nome del console "; come se fosse già stato dichiarato che essa non avrebbe dovuto portarlo e non piuttosto fosse stato affermato che l'assenza di tale indicazione non infirmava affatto l'autenticità di una disposizione imperiale!
Questo è quanto disse loro ripetutamente il giudice.
Quindi continuò la lettura di Ottato, e i Donatisti lessero il punto in cui lui diceva: " In quello stesso periodo, Donato in persona domandò l'autorizzazione di tornarsene e rientrare a Cartagine; allora il suo difensore Filomeno suggerì all'imperatore di trattenere Ceciliano a Brescia per il bene della pace; e così fu fatto ".8
Essi si erano impegnati a dimostrare che Ceciliano era stato condannato, ma nel testo di Ottato non si poté individuare alcuna traccia della condanna.
Il giudice ordinò pertanto di leggere tutta la pagina per capire dal contesto le intenzioni dell'autore.
Il segretario agli atti lesse: " Ceciliano è stato proclamato innocente all'unanimità dai giudici suddetti ".9
A queste parole, i Donatisti dichiararono di non avere chiesto che ciò venisse letto, irritandosi contro coloro che non avevano potuto trattenere le risa, ascoltando la pagina brillante che avevano presentato contro se stessi.
In seguito sostennero che nel testo, fatto leggere da loro, Ottato attenuava la condanna di Ceciliano e non aveva voluto riferirla esplicitamente.
Allora si chiese loro di presentare un documento che dicesse senza reticenze quello che, a loro parere, il testo appena letto aveva mitigato.
Ma essi non furono assolutamente in grado di produrlo.
Così si perse altro tempo, indugiando in inutili schermaglie dilatorie, per discutere affannosamente sul nome di Donato, poiché essi sostenevano che non si trattava del Donato di Cartagine ma del Donato di Case Nere, il quale si era presentato al tribunale di Milziade contro Ceciliano: cosa che i Cattolici concessero.
E finalmente si passò a trattare d'altro.
Proseguendo, il giudice sollecitò i Donatisti a rispondere, se potevano, alla lettera di Costantino, poiché constava che l'imperatore aveva ascoltato le due parti, pronunciandosi contro di loro e a favore di Ceciliano.
Allora essi chiesero di far leggere un memoriale che, dicevano, era stato inoltrato dai loro antenati a Costantino.
Con tale memoriale, diedero veramente un saggio molto chiaro e convincente dell'assoluta falsità delle loro argomentazioni circa la condanna di Ceciliano a Brescia, poiché il testo mostra chiaramente come Costantino abbia preso posizione contro di loro.
Infatti, in quel documento, essi dichiarano che in nessun caso avrebbero accettato di essere in comunione " con quella canaglia di vescovo ", dicendosi piuttosto disposti a subire le pene che avesse voluto infliggergli.
Ora, con quell'epiteto: " canaglia di vescovo di Costantino", volevano appunto indicare la persona di Ceciliano.
Ma come potevano chiamare " vescovo di Costantino " uno, al quale confermavano, per opporsi a Costantino, di non voler essere in comunione con lui, se avevano prevalso su di lui davanti al tribunale di Costantino, fino al punto di saperlo condannato da lui a Brescia?
Così, appena i Cattolici sottolinearono che questo memoriale si ritorceva contro di loro, opinione condivisa ed espressa anche dal giudice, ecco che essi produssero un'altra argomentazione molto convincente a sostegno della loro falsità: lessero la lettera che lo stesso Costantino inviò al vicario Verino, nella quale gli ingiungeva di lasciare andare i Donatisti per la loro strada, insinuando che lui aveva dato l'ordine di farli rientrare dall'esilio.
Nella quale lettera, Costantino dimostra per essi una tale avversione che non potrebbe esserci nulla di più vergognoso di questo perdono.
Certamente non li avrebbe condannati, ma piuttosto lodati, se avessero trionfato di Ceciliano davanti a lui e, dopo la condanna, fosse stato relegato a Brescia.
Così, grazie a questi documenti che produssero e lessero a proprio danno, fornirono la prova più tangibile che Ceciliano li aveva sconfitti davanti al tribunale del suddetto imperatore e dimostrarono in modo incontrovertibile la loro impostura, sostenendo che Ceciliano era stato condannato.
Inoltre, essi, che si gloriavano di essere vittime della persecuzione dei Cattolici, sollecitavano la falsa gloria della condanna di Ceciliano da parte dell'imperatore a causa delle loro accuse nei confronti di lui.
Dopo la lettura della lettera, i Cattolici dichiararono - e lo fecero brevemente rilevare al giudice, il quale era dello stesso avviso - che questo documento testimoniava a loro favore, cioè per l'innocenza di Ceciliano, e contro di loro.
Anche il giudice si pronunziò in tal senso, ma i Donatisti replicarono: " Sulla libertà non dice nulla la tua potestà "; pensavano infatti che, in base alla lettera di Costantino, il giudice presente avrebbe potuto concedere tale libertà a loro.
Ecco perché avevano giudicato opportuno citare questa lettera che andava contro i loro interessi e favoriva la causa di Ceciliano!
Ma appena il giudice rispose loro che l'imperatore in carica gli aveva ordinato un'altra cosa, passarono ad un altro documento, altrettanto compromettente ai fini della loro causa, che essi ebbero l'idea ancor più sorprendente di presentare.
Difatti lessero un'altra lettera dell'imperatore Costantino al proconsole Probiano, che non recava alcuna indicazione di consoli; i Cattolici comunque non vollero fare alcuna obiezione, perché non sembrasse quasi una ritorsione, e i Donatisti se ne resero ben conto come fosse stato odioso da parte loro fare obiezioni contro i Cattolici a proposito della prima lettera di Costantino, che assolveva Ceciliano: copia sprovvista della menzione dei consoli, che fu subito trovata su un'altra copia.
Questa lettera al proconsole Probiano contiene un ordine dell'imperatore, con cui ingiunge di inviargli Ingenzio, la cui deposizione nel corso del processo davanti al proconsole Eliano era servita per assolvere dal crimine di tradizione Felice di Aphthungi, consacrante di Ceciliano.
Se i Donatisti leggevano quest'ordine dell'imperatore, lo ribadivano, era per mostrare che la causa di Ceciliano era tuttora in sospeso, anche dopo quella sentenza in cui Costantino aveva scritto che la questione era stata ormai decisa fra le due parti.
Eppure, in questa stessa lettera indirizzata al proconsole Probiano, che essi lessero pretendendo con essa di dimostrare che la sentenza era ancora in sospeso in quanto l'imperatore ingiungeva di inviargli Ingenzio, essi accumularono tali e tanti argomenti a loro sfavore, che si resta altamente sorpresi come potessero gettarvi gli occhi sopra e parlarne in assemblea.
In essa infatti Costantino dichiara che il proconsole Eliano aveva concesso udienza adeguata alla causa, scagionando completamente Felice dall'accusa di aver dato alle fiamme i Libri divini; e che doveva al presente confutare costoro, che non cessavano ogni giorno di interpellarlo, affinché si convincessero una buona volta che non avevano motivo alcuno di accumulare odio contro Ceciliano e di insorgere violentemente contro di lui.
Dunque, con questa lettera fecero sapere che, non solo Ceciliano ma anche Felice era stato assolto, ed essi davanti all'imperatore avevano svolto il ruolo di persecutori di innocenti.
Approfittando di questa opportunità, i Cattolici presentarono per essere letto sia il rapporto che l'allora proconsole Eliano aveva inviato a Costantino su questa faccenda, per informarlo che aveva ascoltato le parti e risolto la causa di Felice, sia gli stessi atti consolari, secondo i quali Felice era stato assolto e riconosciuto innocente del crimine di tradizione, in base alle deposizioni di tutti i testimoni occorrenti.
Terminata la lettura, il giudice chiese se c'era qualcosa da obiettare.
Allora i Donatisti ripeterono esattamente quanto avevano già cominciato a dire poc'anzi: domandarono se Ingenzio fosse stato inviato a Corte per ordine dell'imperatore, esigevano che i Cattolici rivelassero ciò che era stato fatto dopo, tentavano di confutare in ogni modo possibile gli atti proconsolari, secondo i quali Felice era stato assolto; e poi accusavano il giudice di parzialità, di sostituzione di persone ed altre cose simili, recriminando e gettando il sospetto, come sogliono fare abitualmente coloro che nelle diverse imprese si trovano dalla parte dei vinti; affermavano anche che Felice era stato ingiustamente assolto mentre era assente.
A questo i Cattolici risposero dicendo che tutti i testi, letti in assemblea, si riferivano in modo chiaro e inequivocabile all'assoluzione di Ceciliano e di Felice.
E se i Donatisti pensavano che, dopo l'invio di Ingenzio alla corte imperiale, fosse mutato a loro favore il giudizio e cambiata la sentenza di Costantino con la quale aveva dichiarato, sentite le parti, che Ceciliano era innocente e i suoi avversari degli sfrontati calunniatori, allora dovevano produrne le prove. Quando dicevano questo, i Cattolici non potevano, per mancanza di tempo, esaminare accuratamente le liste dei consoli.
Chi vorrà esaminare bene la loro successione negli atti, scoprirà che l'assoluzione di Ceciliano da parte dell'imperatore Costantino ebbe luogo dopo essere stata discussa e definita la causa di Felice dal proconsole Eliano, e che passarono anche alcuni anni prima che Costantino scrivesse al vicario Verino la lettera che i Donatisti stessi avevano citato per tirarne la conclusione che questo imperatore aveva accordato loro la libertà: lettera che li qualificava come " la razza peggiore degli uomini e nemici della pace cristiana ".
Dichiarazione, questa, che non avrebbe sicuramente fatto se avesse sentenziato a loro favore e contro Ceciliano, quando aveva richiamato a corte Ingenzio.
Il giudice allora intervenne per dichiarare che non si potevano assolutamente ricusare atti così solidi per la loro grande antichità, a meno che non fossero smentiti da altri atti posteriori.
I Cattolici osservarono anche che l'assenza di Felice fu una circostanza che favorì la sua assoluzione, con cui lo si dichiarava innocente, perché in caso contrario sarebbe stato sollevato il sospetto di parzialità.
A questo punto il giudice sollecitò i Donatisti, affinché presentassero senza indugio, qualora ne fossero in possesso, gli atti posteriori e contrari all'assoluzione di Ceciliano e Felice.
Ed essi tentarono di riprendere daccapo la discussione, formulando le identiche argomentazioni più volte presentate, e puntualmente ribattute dai Cattolici, quindi già risolte.
Il giudice intervenne, esortandoli a voler desistere ormai dal riprendere questioni già trattate e liquidate; li sollecitò ancora una volta a produrre, se potevano, documenti che fossero in grado di contrastare le dichiarazioni così nette in favore dell'innocenza di Ceciliano e Felice, nonché a leggerli in assemblea.
I Donatisti non presentarono assolutamente nulla contro questi documenti, ma non cessavano tuttavia di reclamare un giudizio sui loro interventi; al contrario, il giudice insisteva con determinazione perché leggessero piuttosto ciò che potevano presentare contro la sentenza assolutoria dell'imperatore e del proconsole, affinché potesse pronunziarsi definitivamente su tutta la questione, dal momento che la legislazione proibiva di emettere una sentenza incompleta.
Anche i Cattolici, convinti ormai che tutti i fatti erano stati acclarati davanti al giudice e che i Donatisti, non sapendo più che dire, si ripetevano, premevano perché si decidesse una buona volta la causa.
Alla fine, il giudice disse: " Se non avete più nulla da leggere contro questi testi, vogliate ritirarvi per permettermi di redigere una sentenza completa su tutta la causa ".
Le due parti uscirono ed egli stese la sentenza; poi le fece rientrare di nuovo e la lesse: in essa aveva condensato tutto ciò che poteva ricordare delle tre sedute di questo prolisso dibattito.
Egli riferì alcuni fatti non secondo l'ordine in cui si svolsero, ma certamente espose il tutto nel pieno rispetto della verità: sentenziò che, in base alle prove irrefutabili di tutti i documenti, i Cattolici avevano confutato i Donatisti.
Indice |
6 | Sopra, n. 8 |
7 | Optat. 1, 19 |
8 | Optat. 1, 26 |
9 | Optat. 1, 24 |