La grandezza dell'anima |
A. - Suvvia, iniziamo l'argomento che desideri.
Ma richiedo che tu sia molto più attento di quanto reputi di doverlo essere.
Procura dunque di seguire col maggiore interesse possibile.
Dimmi che cosa, secondo te, è la sensazione che l'anima attua mediante il corpo.
Sensazione appartiene appunto alla terminologia corrente.
E. - So che le sensazioni sono cinque: della vista, dell'udito, dell'odorato, del gusto e del tatto.
Altro non so dire.
A. - Detta divisione è antichissima.
La si cita perfino negli assembramenti popolari.
Ma da te vorrei la definizione della sensazione, in cui sia incluso tutto ciò che è sensazione e s'intenda come escluso ciò che sensazione non è.
Se non è possibile, non insisto.
Ma puoi o approvare o ribattere la mia definizione.
Sarebbe già abbastanza.
E. - Così forse non ti mancherò, per quanto ne sono capace, poiché anche questo compito non sempre è facile.
A. - Ascoltami dunque. Penso che sensazione sia la presenza all'anima della modificazione del corpo.
E. - Mi va questa definizione.
A. - Sostienila dunque e difendila, mentre per un po' io l'attacco.
E. - La difenderò se mi aiuterai.
Altrimenti non mi va più, poiché hai già delle ragioni per attaccarla.
A. - Non devi dipendere supinamente dall'autorità, soprattutto mia, che non esiste.
Osa avere scienza,3 come dice Orazio, affinché non ti assoggetti prima il timore che la ragione.
E. - Non ho alcun timore, comunque vada la faccenda.
Tu non mi lascerai cadere in errore.
Ma ormai comincia, se hai qualche cosa da dire,4 affinché io non mi affatichi di più nell'aspettare che nel ribattere.
A. - Dimmi dunque quale modificazione subisce il tuo corpo nel vedermi.
E. - Subisce certamente una modificazione.
Le parti del mio occhio, salvo errore, appartengono al mio corpo.
E come ti potrei vedere, se non subissero una modificazione?
A. - Non basta per convincerti che la tua vista subisce la modificazione, se non dici quale modificazione.
E. - E quale, se non l'atto del vedere? Di esso si tratta.
Se tu mi chiedessi quale modificazione subisce l'ammalato, risponderei la malattia; quale chi desidera, il desiderio; quale chi teme, il timore; quale chi gode, il godimento.
Dunque se mi chiedi quale modificazione subisce chi vede, perché non dovrei rispondere la visione?
A. - Ma chi gode sente il godimento.
Lo potresti negare?
E. - Tutt'altro.
A. - Lo direi anche delle altre perturbazioni.
E. - D'accordo.
A. - Ora il sentire degli occhi è il vedere.
E. - Qui non sono d'accordo. Si può vedere il dolore?
Eppure gli occhi spesso lo sentono.
A. - Si vede proprio che stai trattando degli occhi.
Li tieni bene aperti.
Allora cerca di vedere anche se chi vede, nel vedere, sente la vista, allo stesso modo che chi gode, nel godere, sente il godimento.
E. - Come potrebbe altrimenti?
A. - Ora chi vede, necessariamente vede l'oggetto che sente di vedere.
E. - Non necessariamente.
Se nel vedere sente l'amore, vedrebbe forse l'amore?
A. - Sei accorto e perspicace.
È difficile aggirarti e ne sono felice.
Dal nostro dialogo è emerso che non in senso assoluto si vede tutto ciò che gli occhi sentono e neanche tutto ciò che si sente nel vedere.
Ritieni vero almeno che si sente tutto ciò che si vede?
E. - Se non concedo questo, l'atto del nostro vedere non si potrebbe considerare sensazione.
A. - Ma non coincidono il sentire e l'essere modificati?
E. - Sì.
A. - Dunque se si sente il visibile e si è modificati dal sensibile, si è modificati dal visibile.
E. - Non faccio obiezioni.
A. - Dunque ci modifichiamo l'un l'altro nell'atto che ci vediamo.
E. - Così penso. La dimostrazione per me è apodittica.
A. - Ascolta quanto rimane.
Tu consideri, come presumo, assolutamente assurda e illogica l'affermazione che tu possa esser modificato sensibilmente da un corpo, dove non è il corpo stesso, da cui sei modificato.
E. - Sì, lo ritengo assurdo. La penso come te.
A. - Ora è indubbio che il mio corpo è in uno spazio e il tuo in un altro?
E.. - Sì.
A. - Dunque i tuoi occhi percepiscono sensibilmente il mio corpo e se lo percepiscono, ne sono modificati.
Ma non è possibile che siano modificati, dove non c'è l'oggetto, da cui sono modificati.
Tuttavia essi non sono nel medesimo spazio, in cui è il mio corpo, quindi sono modificati dove essi non sono.
E. - Ho concesso le premesse perché mi sembrava assurdo non concederle.
Ma la conclusione che ne è derivata è tanto più assurda che preferisco avere ammesso pregiudizialmente qualche premessa, anziché passare come vera la conclusione.
Neanche addormentato oserei dire che i miei occhi percepiscono dove essi non sono.
A. - Vedi dunque un po' dove ti sei addormentato.
Alla fin fine che cosa ti sarebbe sfuggito pregiudizialmente se, come dianzi, avessi tenuto gli occhi aperti?
E. - Sto appunto riflettendo insistentemente sull'argomentazione.
Ma non mi appare ancora un punto, sulla cui ammissione debba ritrattarmi, salvo forse quello che i nostri occhi percepiscono, quando vediamo.
Forse è la vista stessa che percepisce.
A. - Sì, è quello. È la vista appunto che si protende al di fuori e mediante gli occhi spazia per ogni dove le è possibile scorgere l'oggetto visibile.
Ne consegue che vede piuttosto là dove è l'oggetto visibile, e non là, da dove si muove per vedere.
Tu dunque nel vedermi non mi vedi?
E. - Non si è tanto pazzi da affermarlo.
Io vedo certamente, ma vedo con la vista che spazia mediante gli occhi.
A. - Ma se vedi, percepisci sensibilmente, e se percepisci, sei modificato e non puoi essere modificato dove non sei.
Tu però mi vedi dove sono io, sei modificato dunque dove sono io.
Ma se dove sono io, tu non sei, non so proprio come ti azzardi a dire che mi vedi.
E. - Vedo dove sei con la vista, direi, che si protende nello spazio, in cui sei tu, ma concedo che io non vi sono.
Se io ti toccassi con una verga, ti toccherei certamente e lo percepirei, sebbene io non sia dove ti tocco.
Così è per il caso che ti vedo con la vista, sebbene io non sia dove vedo, ma non per questo sono costretto ad ammettere che non sono io a vedere.
A. - Dunque non hai concesso nulla pregiudizialmente.
Si possono con tale esempio giustificare gli occhi perché, come dici, di essi la vista è quasi verga.
E non è assurda la conclusione che i tuoi occhi vedano dove non sono.
La pensi diversamente?
E. - È certamente come tu dici.
Proprio adesso sto riflettendo che se gli occhi vedessero dove essi sono, vedrebbero anche se stessi.
A. - Faresti meglio a non dire " anche se stessi ", ma " soltanto se stessi ".
Essi sono soli dove sono, cioè soli occupano lo spazio che occupano.
Dove sono essi, non v'è il naso o altra parte loro vicina.
Altrimenti anche tu saresti dove sono io, poiché siamo vicini l'un l'altro.
Stando così le cose, se gli occhi vedessero soltanto dove sono, non vedrebbero altro che se stessi.
Ma poiché non vedono se stessi, non solo siamo costretti ad ammettere che possono vedere dove non sono, ma che lo possono soltanto dove non sono.
E. - Nella dimostrazione non v'è un punto che mi consenta di dubitare.
A. - Dunque non hai motivi da dubitare che subiscano modificazione dove non sono.
Infatti dove vedono, percepiscono, poiché vedere è in sé percepire, ma percepire è subire modificazione.
Pertanto subiscono modificazione dove percepiscono.
Vedono, cioè, in un luogo diverso da quello in cui sono; dunque subiscono modificazione dove non sono.
E. - Per me è una sorpresa dover considerare valido codesto ragionamento.
A. - E forse giustamente lo consideri valido.
Ma adesso dimmi se tutto ciò che conosciamo mediante la vista, lo vediamo anche.
E. - Sì, così ritengo.
A. - E ritieni anche che tutto ciò che conosciamo col vedere, lo conosciamo mediante la vista?
E. - Sì, anche questo.
A. - Perché dunque, vedendo più d'una volta il fumo solamente, si conosce che sotto è nascosto il fuoco che non si vede?
E. - Hai ragione. Disdico che si vede tutto ciò che si può conoscere con la vista, poiché si può conoscere, come hai dimostrato, un oggetto vedendolo direttamente e un altro anche se la vista non lo raggiunge.
A. - E si può non vedere l'oggetto che si percepisce direttamente con la vista?
E. - No, assolutamente.
A. - Una cosa dunque è percepire sensibilmente e un'altra è conoscere?
E. - Sì, certamente. Infatti si percepisce il fumo che si vede e da esso si conosce che sotto c'è il fuoco che non si vede.
A. - Giusto. Ma puoi comprendere certamente, quando il fatto avviene, che il nostro corpo, cioè gli occhi, non subiscono l'impressione sensibile dal fuoco, ma dal fumo perché questo soltanto vedono.
Ora poco fa abbiamo ammesso che vedere è percepire e percepire è subire alterazione.
E. - Capisco e ne ho certezza.
A. - Dunque non necessariamente si considera sensazione una delle cinque suddette, quando cioè l'oggetto è presente all'anima mediante la modificazione del corpo, ma quando è presente la stessa modificazione.
Il fuoco che non è oggetto della vista, dell'udito, dell'odorato, del gusto e del tatto, è tuttavia presente all'anima con la vista del fumo.
Tale presenza non si considera sensazione perché il corpo non ha subito l'impressione sensibile dal fuoco.
Si definisce tuttavia conoscenza sensibile, perché si ha una rappresentazione congetturale dalla modificazione del corpo, sebbene diversa, cioè dalla vista di un altro oggetto.
E. - Comprendo e avverto perfettamente che l'esposizione ribadisce e conferma la tua definizione, che mi hai invitato a difendere come mia.
Ricordo che hai definito la sensazione come la presenza nell'anima dell'oggetto che modifica il corpo.
Dunque si considera sensazione la vista del fumo, poiché gli occhi, parti del corpo e corporei, nel vederlo hanno subito modificazione, ma non si può considerare oggetto di sensazione il fuoco, dal quale, sebbene conosciuto, il corpo non ha subito alcuna modificazione.
A. - Lodo la tua memoria e l'intelligenza capace di seguire.
Tuttavia la roccaforte della definizione rischia di crollare.
E. - Perché mai?
A. - Perché non puoi negare, penso, che il nostro corpo è modificato con la crescenza e la vecchiaia.
È evidente inoltre che il fenomeno non è percepito da alcun senso e tuttavia è presente all'anima.
Dunque a lei è presente ogni alterazione del corpo, ma il fenomeno non può esser considerato sensazione.
Noi vediamo più grandi le cose, che tempo addietro abbiamo visto più piccole e oggi vediamo vecchi degli individui che evidentemente sono stati giovani e fanciulli.
Ne deduciamo che il nostro corpo è soggetto, anche in questo momento, in cui stiamo parlando, a una determinata mutazione.
E a mio avviso, in tale induzione non ci inganniamo.
È più naturale che io pensi d'ingannarmi nell'atto che vedo, anziché nell'intendere che i miei capelli in questo momento crescono, o che il mio corpo, momento per momento, stia subendo una mutazione.
Tale mutazione è modificazione del mio corpo. È innegabile.
Non è però percepita da noi in questo momento, tuttavia è presente all'anima, perché è presente a noi.
Come ho detto, il corpo è alterato da qualche cosa che è presente all'anima, tuttavia non si ha la sensazione.
La definizione dunque, che non doveva includere nulla che non fosse sensazione, includendo il caso suddetto, è certamente difettosa.
E. - Vedo che mi rimane soltanto di chiederti che tu dia un'altra definizione o che riassetti, se ti è possibile, quella già data, poiché non posso negare che la prima, in base alla tua dimostrazione che approvo pienamente, è difettosa.
A. - È facile rettificarla, ma vorrei che ti ci provassi tu.
Ci riuscirai, credimi, se hai ben compreso dove difetta.
E. - E in quale parte, se non dove include concetti non propri?
A. - Ma in che senso?
E. - Perché è innegabile che il corpo subisce un'alterazione con l'invecchiamento, che si ha anche in un giovane. E noi lo sappiamo.
Dunque è presente all'anima ogni alterazione del corpo, tuttavia non è percepita da alcun senso.
Io non mi vedo invecchiare in questo momento e non lo percepisco neanche con l'udito, l'odorato, il gusto o il tatto.
A. - Come lo sai allora?
E. - Lo deduco col pensiero.
A. - Su quali argomenti si fonda il tuo pensiero?
E. - Vedo vecchi alcuni individui che erano giovani, come adesso lo sono io.
A. - Ma non è uno dei cinque sensi, con cui lo vedi?
E. - E chi lo nega? Ma dal fatto che li vedo, induco che invecchierò anche io, sebbene ancora non lo veda.
A. - Dunque, secondo te, quale concetto si deve aggiungere alla definizione per completarla?
Beninteso che non è sensazione, se non è presente all'anima la modificazione del corpo, in maniera però che non sia presente attraverso un'altra modificazione o qualsiasi altro mediante.
E. - Esponi il concetto un po' più comprensibilmente, per favore.
A. - Ti accontenterò, e tanto più volentieri, in quanto non affretti, ma indugi.
Ma sii attento perché il mio discorso si adatterà a diversi argomenti.
Una definizione non può includere né di più né di meno di quanto si è inteso determinare, altrimenti è difettosa.
Si avverte se è immune da difetti mediante la trasposizione dei termini.
Ti sarà più chiaro con i seguenti esempi.
Se tu mi chiedessi che cos'è l'uomo e io definissi: " l'uomo è un animale mortale ", non necessariamente dovresti ritener valida la definizione perché come giudizio è vera.
Ma aggiunta la particella " ogni ", devi trasporre i termini e osservare se è valida anche dopo la trasposizione, cioè se, come è vero che ogni uomo è animale mortale, così sia vero che ogni animale mortale è un uomo.
Constatato che il giudizio è falso, devi ritenere invalida la definizione a causa del difetto di maggiore estensione.
Non soltanto l'uomo ma anche ogni bruto, è animale mortale.
Questa definizione dell'uomo si completa aggiungendo " ragionevole " a mortale.
Infatti l'uomo è un animale mortale ragionevole e come ogni uomo è un animale ragionevole mortale, così ogni animale ragionevole mortale è un uomo.
La definizione antecedente era dunque difettosa per maggiore estensione perché includeva assieme all'uomo anche il bruto.
La seconda è esatta, perché include ogni uomo e solo l'uomo.
Diverrebbe difettosa per minore estensione, se vi si aggiungesse " grammatico ".
Sebbene infatti ogni animale ragionevole mortale grammatico sia uomo, tuttavia molti uomini, che non sono grammatici, sono esclusi da questa definizione.
Pertanto è falsa nella prima proposizione, vera dopo la trasposizione dei termini.
È falso il giudizio: Ogni uomo è un animale ragionevole mortale grammatico, ma questo è vero: Ogni animale ragionevole mortale grammatico è un uomo.
Una definizione, che non sia vera né nella prima formulazione né dopo la trasposizione, è ovviamente più difettosa delle suddette prese separatamente.
Siano d'esempio le due seguenti: L'uomo è un animale canuto, ovvero: L'uomo è un animale quadrupede.
Si commette errore, tanto se si dice: Ogni uomo è un animale canuto o un animale quadrupede, quanto se si traspongono i termini.
Ma c'è una differenza tra di loro.
La prima si adatta ad alcuni uomini, perché parecchi individui sono canuti, la seconda a nessuno, poiché non esiste un uomo quadrupede.
Per il momento nell'esaminare le definizioni, puoi ritenere il criterio di vagliarle mediante la formulazione e la trasposizione.
Si insegnano a proposito molte altre regole, e piene di parole e di cavilli.
Un po' alla volta, al momento opportuno, farò in modo che tu le apprenda.
Ed ora ritorna alla nostra definizione e dopo averla discussa con maggiore competenza, correggila.
Avevamo dunque scoperto, mentre si trattava della definizione di sensazione, che includeva qualche cosa che non è sensazione e che quindi dopo la trasposizione dei termini non è vera.
Per ipotesi infatti potrebbe esser vero che ogni sensazione è modificazione del corpo presente all'anima, come è vero che ogni uomo è un animale mortale.
Ma come è falso che ogni animale mortale è un uomo, perché lo è anche il bruto, così è falso che ogni modificazione del corpo presente all'anima è sensazione, perché è presente all'anima che in questo momento le nostre, unghie crescono.
Noi lo sappiamo infatti, non lo conosciamo però col senso, ma lo conosciamo per induzione.
Per completare la definizione dell'uomo è stato aggiunto ragionevole.
Con l'aggiunta sono state escluse le bestie, che vi erano incluse e con la nuova definizione includiamo solo l'uomo e ogni uomo.
Non credi dunque che anche a questa si debba aggiungere un termine, con cui sia escluso ciò che include di non proprio e che sia compresa la sola sensazione e ogni sensazione?
E. - Certo che lo credo, ma non so proprio che cosa si possa aggiungere.
A. - Sensazione è certamente ogni modificazione del corpo presente all'anima.
Ma l'enunciazione non ammette trasposizione di termini, che è ostacolata appunto dalla modificazione del crescere e decrescere del nostro corpo.
Anche di essa infatti siamo consapevoli, cioè è presente all'anima.
E. - È così.
A. - Ma tale modificazione è presente da sé o da altro mediante?
E. - Da altro mediante, ovviamente.
Un conto è vedere le unghie lunghe e un altro è sapere che crescono.
A. - Ora il crescere è di per sé modificazione e non lo percepiamo con alcun senso, ma la grandezza che percepiamo deriva da tale modificazione e non è di per sé modificazione.
Dunque è evidente che non conosciamo la modificazione in se stessa, ma in altro.
Quindi se fosse presente all'anima non in altro, sarebbe percepita, anziché raggiunta per induzione.
E. - Comprendo.
A. - Perché rimani incerto allora sul termine che si deve aggiungere alla definizione?
E. - Così si deve definire, ora lo comprendo, che sensazione è modificazione del corpo, la quale in sé è presente all'anima.
Infatti ogni sensazione è questo e, secondo me, soltanto questo è sensazione.
A. - Se è così, ammetto che la definizione è perfetta.
Ma esaminiamola, ti prego, se, a causa del secondo difetto, sia infondata come quella dell'uomo, alla quale è stato aggiunto " grammatico ".
Dovresti ricordare che abbiamo considerato l'uomo come animale ragionevole mortale grammatico e che questa definizione era difettosa, perché era vera mediante la trasposizione, ma falsa nella prima enunziazione.
È falso difatti che ogni uomo è animale ragionevole mortale grammatico, sebbene sia vero che ogni animale ragionevole mortale grammatico è uomo.
Ed è difettosa definizione perché include solo l'uomo, ma non ogni uomo.
Ed anche questa, che stiamo vantando come esatta, ha forse il medesimo difetto.
Sebbene infatti ogni modificazione corporea presente per sé all'anima sia sensazione, tuttavia non ogni sensazione è questo.
Lo puoi intendere dalla considerazione che le bestie hanno la sensazione e quasi tutte sono fornite dei cinque sensi nei limiti attribuiti a ciascuna dalla natura.
Lo neghi?
E. - No, affatto.
A. - E non ammetti che si ha scienza soltanto quando l'oggetto è appreso con certezza e conosciuto con ragione pura?
E. - Lo ammetto.
A. - Ma la bestia non ha la ragione.
E. - Anche questo ammetto.
A. - Dunque scienza non appartiene alle bestie.
Ora ciò che è presente è certamente oggetto di scienza; dunque le bestie non hanno sensazione, se la sensazione si ha soltanto quando la modificazione del corpo per sé è presente all'anima.
Ma hanno sensazione, come dianzi è stato ammesso.
Perché dunque esitiamo a ritenere invalida la definizione, che non include ogni sensazione, dal momento che ne rimane esclusa la sensazione delle bestie?
E. - Confesso di essermi ingannato nel concederti che si ha scienza se un oggetto viene appreso con certezza da ragione pura.
Quando mi hai proposto la domanda, io tenevo presenti soltanto gli uomini.
In verità non posso ammettere che le bestie pensano, ma non posso loro sottrarre la scienza.
Secondo me, il cane di cui si narra che dopo venti anni riconobbe il padrone,5 aveva scienza di lui.
Taccio gli altri innumerevoli casi.
A. - Dimmi, ti prego, se ti sono proposte due cose, una a cui pervenire e un'altra per cui pervenire, quale apprezzi di più e quale preferisci?
E. - Chi dubita che è preferibile quella a cui pervenire?
A. - Ci sono dunque due cose: scienza e ragione.
Mediante scienza raggiungiamo la ragione, o mediante ragione la scienza?
E. - Le due cose, secondo me, sono così legate che con una delle due è possibile raggiungere l'altra indifferentemente.
Non raggiungeremmo la ragione, se non avessimo scienza di doverla raggiungere.
Dunque la scienza si premette per poter raggiungere mediante essa la ragione.
A. - E, scusa, senza la ragione si perverrebbe alla scienza che, secondo te, verrebbe premessa?
E. - Non direi proprio, è somma irragionevolezza.
A. - Mediante la ragione dunque?
E. - No.
A. - Mediante l'irragionevolezza dunque?
E. - Ma chi potrebbe dir questo?
A. - Mediante che cosa allora?
E. - Mediante nulla perché la scienza è innata in noi.
A. - Ti sei dimenticato, mi pare, quale motivo è emerso quando ho chiesto se ritenevi che si ha scienza, qualora un oggetto viene rappresentato con certezza da ragione pura.
Hai risposto, a quanto mi pare, che secondo te questa è la scienza umana.
Ora poi mi vieni a dire che l'uomo può avere scienza senza avere appreso con certezza un qualche oggetto con la ragione.
È ovvio per ognuno che non v'è contraddizione più lampante quanto fra le due seguenti affermazioni: " Non si dà scienza, se l'oggetto non è appreso con certezza da ragione pura ", e: " V'è scienza di un oggetto non appreso con certezza mediante ragione ".
Vorrei sapere quale scegli delle due affermazioni perché è assolutamente impossibile che entrambe siano vere.
E. - Scelgo quella che ho detto per ultima.
Ammetto di avere scelto la prima senza ragionamento.
Noi ricerchiamo il vero con la ragione, mediante il dialogo appunto.
Come sarebbe possibile raggiungere la sintesi, con cui la ragione si conchiude, se non si dessero dei presupposti?
E come sarebbe possibile dare un presupposto, di cui non si avesse scienza?
Ad esempio, se la ragione in esame non trovasse in me un qualche preconosciuto, sul cui fondamento condurmi all'inconosciuto, non avrei da esso nessuna nuova conoscenza e non potrei neanche considerarla ragione.
Pertanto invano ti rifiuti di concedermi che necessariamente prima della ragione si ha in noi una qualche scienza, da cui la ragione ha il suo cominciamento.
A. - Ti accontento e, secondo il mio metodo, ti permetto di ritrattarti ogni volta che ti avvedi di una erronea concessione.
Ma per piacere, non abusare di questo permesso e non cedere alla distrazione, quando ti interrogo, affinché le frequenti concessioni erronee non ti costringano a dubitare anche delle legittime.
E. - Passa al resto, piuttosto.
Io rinnovo, quanto posso, la mia attenzione e provo imbarazzo nel vedermi tanto spesso a terra senza il sostegno della mia tesi.
Tuttavia non cesserò di resistere a questo imbarazzo e di sollevarmi dalla mia caduta, soprattutto perché tu mi porgi la mano.
Non si deve incappare nella cocciutaggine perché la fermezza è lodevole.
A. - Hai enunziato una massima a me così gradita da doverti augurare che quanto prima si mostri in te pienamente tale fermezza.
Ma ora renditi molto attento alle mie domande.
Ti chiedo quale differenza esiste, secondo te, fra ragione e ragionamento.
E. - Non sono capace di notare la differenza.
A. - Considera allora se, a tuo avviso, nell'individuo già adolescente o maturo, ovvero, a scanso d'ogni equivoco, filosofo, la ragione è presente senza interruzione, finché è sano di mente, allo stesso modo che la salute nel corpo, finché è privo di malattie e ferite; ovvero se, come il camminare, il sedere, il parlare, ora è assente ed ora è presente.
E. - Ritengo che la ragione è sempre presente in una mente sana.
A. - Noi talvolta o nel dialogo ovvero operando sintesi, da postulati e assiomi ci portiamo alla conoscenza d'un qualche cosa d'altro.
Secondo te, noi, o meglio un filosofo, eseguiamo sempre questa operazione?
E. - Non sempre. Secondo me, non sempre un profano o un filosofo fa delle ricerche su un argomento o da solo o dialogando con altri.
Chi cerca non ha ancora trovato.
Ma se cerca sempre, non trova mai.
Tuttavia il filosofo ha già trovato, per non dire altro, la filosofia.
La cerca, non ancor filosofo, forse col dialogo o in altri modi possibili.
A. - Bene. Devi quindi comprendere, così vorrei, che non si tratta di ragione, quando da postulati o principi noti ci portiamo a un oggetto non conosciuto.
Tale atto, come già d'accordo, non sempre è presente a una mente sana, la ragione sempre.
E. - Comprendo, ma a che scopo questo discorso?
A. - Poco fa hai detto che io ti devo accordare come certa l'esistenza in noi di scienza prima della ragione, dal fatto che essa si fonda su qualche cosa di conosciuto, mentre la ragione ci conduce a una verità non conosciuta.
Ora al contrario abbiamo accertato che tale operazione specificamente non è ragione, perché una mente sana, mentre sempre ha la ragione, non sempre compie l'atto in parola.
Piuttosto, e forse giustamente, tale atto si denomina ragionamento, così che la ragione è, per cosi dire, uno sguardo dell'intelligenza e il ragionamento è una ricerca della ragione, cioè il movimento dello sguardo attraverso gli oggetti che si devono guardare.
Dunque questo è necessario alla ricerca, quello alla intuizione.
Pertanto lo sguardo dell'intelligenza, che si denomina ragione, quando si dirige sull'oggetto e ne ha visione, si dice scienza.
Se poi l'intelligenza non ha visione, sebbene applichi lo sguardo, si dice mancanza di scienza o di conoscenza.
Anche con gli occhi del corpo non sempre la visione segue allo sguardo.
È un fatto che si può agevolmente verificare nella oscurità.
Ne consegue che differiscono, secondo me, sguardo e visione, che nella intelligenza si dicono ragione e scienza.
Penso che non hai obiezioni in proposito e non ritieni che i due concetti sono stati poco chiaramente distinti.
E. - La distinzione mi piace assai e l'accetto volentieri.
A. - Ora considera se, secondo te, si guarda per vedere o si vede per guardare.
E. - Lo sguardo è per la visione e non la visione per lo sguardo.
Non ne dubiterebbe neanche un cieco.
A. - Si deve dunque ammettere che la visione è di grado più alto dello sguardo.
E. - Certamente.
A. - Quindi la scienza più del pensiero.
E. - Logico, secondo me.
A. - Ti va che le bestie siano più perfette e felici degli uomini?
E. - Iddio ci liberi da sì grande pazzia.
A. - Giustamente sei inorridito.
Ma a tale conclusione ci costringe la tua tesi, poiché hai detto che le bestie hanno scienza ma non ragione.
La ragione invece l'ha l'uomo, ma con essa difficilmente si raggiunge scienza.
Ma pur nell'ipotesi che si raggiunga facilmente, a che ci serve la ragione per considerarci migliori delle bestie, se esse hanno scienza ed è stato accertato che la scienza è in più alto grado della ragione?
E. - Sono costretto senza scampo o a rifiutare la scienza alle bestie o a non poter ribattere che siano considerate giustamente più di me.
Ma, ti prego, spiegami il significato dell'episodio, da me ricordato, del cane di Ulisse.
Preso da commosso stupore per lui, ho abbaiato a vuoto.
A. - Devi ricordare che si tratta di una particolare facoltà sensibile e non di scienza.
Molte bestie ci superano nella sensazione.
Non è qui il luogo di trattare la ragione del fatto.
Iddio comunque ci ha creati superiori ad esse per l'intelligenza, la ragione, la scienza.
Ma la sensazione, con l'aiuto dell'adattamento che ha un grande potere, può discernere gli oggetti che sono fonte di godimento per le anime inferiori, e tanto più agevolmente perché l'anima bruta è più condizionata al corpo, in cui risiedono gli organi funzionari al vitto e al piacere, che essa riceve nel corpo stesso.
L'anima umana al contrario, mediante ragione e scienza, di cui trattiamo, per il fatto che esse sono di gran lunga superiori ai sensi, si distacca dal corpo nei limiti che le è possibile e gode più volentieri del piacere interiore, ma quanto più si abbassa alla sensibilità, tanto più rende l'uomo simile alla bestia.
Anche i bimbi, nei primi mesi di vita, quanto più sono estranei al pensiero, tanto meglio discernono con la sensazione anche il contatto e il modo di attaccarsi alle nutrici e non possono tollerare l'odore di altre, con le quali è mancato l'adattamento.
Pertanto, quantunque l'argomento derivi soltanto occasionalmente dall'altro, mi soffermo volentieri sul tema dell'ammonimento all'anima perché non si disperda nella sensibilità più di quanto il bisogno lo richiede.
Piuttosto si raccolga in se stessa e torni a Dio fanciulla.
È questo diventare un uomo nuovo, spogliando il vecchio.
Ma è inderogabile necessità cominciare proprio da lui a causa della trasgressione della legge di Dio.
È la verità più profonda fra quelle contenute nella sacra Scrittura.
Vorrei dire altre cose sull'argomento e, nell'atto stesso che ti sto facendo quasi da precettore, far forza a me stesso per non impegnarmi ad altro che ad essere restituito a me perché a me stesso mi devo principalmente e così divenire per Iddio ciò che ha detto Orazio: Schiavo amico del padrone.6
Ma non può avvenire se non ci riformiamo alla sua immagine.
Egli ce l'ha consegnata per custodirla come oggetto molto prezioso e caro.
E per questo ci ha dato tale coscienza di noi stessi che soltanto lui possiamo preferire a noi.
Nulla mi sembra più attivo di tale impegno e nulla di più simile alla inattività.
E lo spirito lo può accettare e adempiere soltanto con l'aiuto di colui, cui viene restituito.
Ne consegue che l'uomo si deve riformare con la clemenza di colui, dalla cui bontà e potere è stato formato.
Ma dobbiamo tornare all'assunto.
Rifletti se sei convinto che le bestie non hanno scienza e tutta l'apparenza di scienza, di cui ci meravigliamo, non è che potere della sensazione.
E. - Ne sono convinto.
Ma se v'è nell'argomento qualche punto da considerare più attentamente, lo esaminerò in altro tempo.
Ora vorrei sapere che ne deduci.
A. - Soltanto la definizione della sensazione.
Prima includeva un non so che di altro dalla sensazione, adesso è infondata per il difetto contrario che non include ogni sensazione.
Infatti le bestie hanno sensazione, ma non scienza.
Ora dell'oggetto presente all'anima si ha anche scienza e ogni oggetto, di cui si ha scienza, appartiene certamente alla scienza.
In proposito ci siamo già accordati.
Dunque o non è vero che la sensazione è modificazione del corpo presente all'anima, ovvero di essa sono prive le bestie perché prive di scienza.
Ma noi attribuiamo la sensazione alle bestie, quindi la definizione è difettosa.
E. - Confesso che non trovo nulla da ribattere.
A. - Ma eccoti un altro motivo per farci maggiormente vergognare della definizione.
Ricordi, come penso, il terzo difetto di una definizione che ti ho presentato, il più grosso di tutti, perché essa non è vera da nessuna delle due prospettive.
Ad esempio, è tale quella dell'uomo: L'uomo è un animale quadrupede.
Chi afferma mediante giudizio: Ogni uomo è animale quadrupede, ovvero: Ogni animale quadrupede è uomo, salvo facezia, è certamente pazzo.
E. - Giusto.
A. - E posto che la nostra definizione abbia questo deplorevole difetto, vi sarebbe qualche cosa che, secondo te, si dovrebbe assolutamente eliminare dall'anima?
E. - Chi non lo ammetterebbe?
Ma non vorrei, se possibile, esser trattenuto tanto a lungo sull'argomento ed essere frastornato da tante domande minuziose.
A. - Non temere, l'operazione è ormai terminata.
Non sei rimasto convinto, quando si è trattato della differenza fra bestie e uomini, che altro è avere sensazione ed altro avere scienza?
E. - Sì, certamente.
A. - Dunque altro è sensazione ed altro è scienza.
E. - Sì.
A. - Ma noi non abbiamo la sensazione mediante il pensiero, ma con la vista o l'udito o l'odorato o il gusto o il tatto.
E. - D'accordo.
A. - E dell'oggetto, di cui si ha scienza, si ha scienza col pensiero.
Dunque la sensazione non è scienza.
Ma l'oggetto presente all'anima appartiene alla scienza.
Dunque l'aver presente non appartiene alla sensazione, allo stesso modo che l'uomo non può essere considerato quadrupede.
Pertanto viene condannata questa nostra definizione, da te patrocinata, perché non solo ha invaso i confini altrui e ha lasciato qualche cosa che era di suo diritto, ma addirittura non ha nulla di suo e tutto ciò che ha occupato non è suo.
E. - Che fare dunque? Sopporterai che se ne vada così dal nostro tribunale?
In quanto a me, è vero che le ho offerto il patrocinio che ho potuto, ma sei stato tu a produrre la formula dell'azione giudiziaria che ci ha tratto in errore.
Io inoltre, sebbene non abbia potuto vincere la causa, tuttavia ho dato la mia assistenza con lealtà.
E per me basta. Ma tu, se sarai accusato d'imbroglio in atto legale, che farai?
Proprio tu l'hai prodotta in giudizio per farle difendere arrogantemente il suo buon diritto per poi impugnarla e farla perdere con disonore.
A. - Ma c'è qui un giudice, da cui essa ed io dobbiamo temere?
Io, nella veste di giureconsulto interpellato, ti ho voluto ribattere in sede non legale per istruirti.
Così assisterai preparato, quando si verrà in giudizio.
E. - Dunque v'è altro che devi produrre a favore di essa?
E poi affidi imprudentemente la sua difesa in giudizio a un avvocato inabile come me.
A. - Sì, v'è altro.
E. - Prego, di che si tratta?
A. - Sono due cose diverse sensazione e scienza, ma l'avere presente è comune ad entrambe allo stesso modo che animale è comune all'uomo e alla bestia, sebbene siano molto differenti.
All'anima è presente l'oggetto che si rappresenta, sia per modificazione del corpo, come per atto di pura intelligenza.
La sensazione ha competenza nel primo settore, la scienza nel secondo.
E. - La definizione rimane dunque difesa e dimostrata?
A. - Sì, certamente.
E. - E allora dove mai mi sono ingannato?
A. - Dove ti ho chiesto se si ha scienza dell'oggetto che è presente.
Tu hai risposto in senso affermativo alla domanda.
E. - E che cosa avrei dovuto dire, secondo te?
A. - Che non necessariamente si ha scienza dell'oggetto che è presente, ma solo quando è presente mediante ragione.
Quando è presente mediante il corpo, si ha la sensazione a condizione che di per sé è presente all'anima la modificazione corporea.
È anzi opinione di eccellenti filosofi, non lo dovresti ignorare, che l'oggetto stesso rappresentato dall'intelligenza non può assurgere al concetto di scienza, se la rappresentazione non è così obiettiva che nessuna dimostrazione può distoglierne l'intelligenza.
E. - Accetto le tue parole con molto piacere.
Ma poiché è stata trattata molto acutamente, secondo me, la definizione della sensazione, ti prego, riportiamoci al problema, da cui abbiamo colto l'occasione per trattare il tema suddetto.
Io, per dimostrare che l'anima ha la medesima estensione del suo corpo, avevo addotto l'argomento che essa percepisce un'impressione tattile in qualsiasi parte si tocca, dalla testa all'alluce.
Da qui siamo stati trasportati, forse per logica conseguenza, alla definizione, zeppa d'indugi, della sensazione.
Dunque, se vuoi, mostrami ormai il risultato di tanto lavoro.
A. - C'è, e molto vantaggioso, perché è stato raggiunto l'intero risultato della nostra indagine.
Sensazione è dunque la modificazione del corpo che di per sé è presente all'anima.
Per accertarlo con apodissi, abbiamo prolungato il discorso più di quanto tu desiderassi, ma alla fine abbiamo accertato che gli occhi percepiscono, o piuttosto sono modificati, dove non sono.
Lo ricordi?
E. - Sì.
A. - Ed hai anche concesso, se non erro, e adesso non dubiti della innegabilità che l'anima ha molto maggior perfezione e potere di tutto l'essere corporeo.
E. - Reputo empio il dubitarne.
A. - Ora il corpo può essere modificato dove non è, a causa di una certa comunicazione con l'anima.
È stato accertato che il fenomeno si verifica negli occhi, nell'atto del vedere.
Dobbiamo dunque considerare l'anima, da cui gli occhi ricevono tanto potere, così massiccia e inattiva da non esserle presente la modificazione del corpo, se non occupa il medesimo spazio, in cui la modificazione si verifica?
E. - Mi colpisce codesta conclusione, e tanto fortemente da farmi stupire fuor di misura e da non sapere più, non solo che rispondere, ma perfino dove mi trovo.
Che dire? Non si ha sensazione, quando la modificazione del corpo è di per sé presente all'anima?
Che cosa d'altro è se non questo?
Che gli occhi non sono alterati, quando vediamo? Proprio assurdo.
Che sono modificati dove sono? Ma non vedono se stessi e dove sono non v'è altro all'infuori di essi.
O forse l'anima non ha più potere degli occhi, ma il loro potere è eguale? Assolutamente pazzesco.
Ovvero si deve ritenere che è maggiore il potere essere modificati dove si è, anziché dove non si è?
Ma se fosse vero, la vista non sarebbe il più perfetto di tutti i sensi.
A. - Ma gli occhi possono essere modificati dove sono da una botta, da un corpo estraneo, ovvero da una turba di siero.
Il fenomeno sarebbe presente all'anima, ma la modificazione appartiene al tatto e non alla vista.
Inoltre l'occhio potrebbe subire tale alterazione anche in un corpo esanime, sebbene sia assente l'anima, cui l'alterazione sarebbe presente.
Dunque l'unica modificazione, che l'occhio non può subire senza la presenza dell'anima, cioè che è modificato col vedere, si ha dove l'occhio non è.
Ne consegue con evidenza per tutti che l'anima non è contenuta in uno spazio.
Infatti l'occhio che pure è corpo, subisce in uno spazio che non occupa quella sola modificazione, che non potrebbe assolutamente subire senza l'anima.
E. - Che fare allora? scusa.
Si può forse dedurre da questi argomenti che la nostra anima non è nel corpo?
Se è così, non so dove sono.
Infine chi può togliere che io stesso sia l'anima?
A. - Non ti turbare e cerca di star tranquillo.
Proprio questo pensiero, questa riflessione ci richiama al nostro Io e, nei limiti consentiti, ci distacca dal corpo.
Ti è sembrato che l'anima non sia nel corpo di un vivente animato.
Parrà assurdo, ma non sono mancati e non mancano tuttora, mi sembra, degli uomini dotti che l'hanno insegnato.
Ma, come tu stesso comprendi, il problema è di alta levatura e per esaminarlo si deve purificare totalmente la capacità visiva della intelligenza.
Ed ora piuttosto tenta di addurre un altro argomento per dimostrare che l'anima è lunga o larga o qualche cosa di simile.
Tu stesso sei cosciente che la tua dimostrazione, derivata dall'impressione tattile, non raggiunge verità e non ha validità alcuna per convincere che l'anima è diffusa in tutto il corpo come il sangue.
Se poi non hai da addurre altra dimostrazione, esaminiamo quanto rimane.
Indice |
3 | Orazio, Epist. 1, 2, 40 |
4 | Virgilio, Bucol. 9, 32 |
5 | Omero, Odyss. 17, 291 ss |
6 | Orazio, Serm. 2, 7, 2-3 |