L'ideale cristiano e religioso |
1 - Il carattere del dono dell'intelletto è di disporci ad afferrare e a penetrare intimamente le cose divine mediante questa stessa dolce esperienza, questo medesimo gusto di Dio e di ciò che a Lui si riferisce.
Il dono dell'intelletto quindi affina e perfeziona il nostro spirito, per renderlo atto a comprendere le verità non con lo studio o con la discussione, ma con questa sublime e amorevole unione che ci innalza al livello della natura divina.
Ecco che l'amore è un occhio.
Il dono dell'intelletto ha questo di particolare, che ci fa afferrare le cose senza alcuna ombra o mescolanza d'errore e senza l'intervento di immagini sensibili e di cose materiali.
Per comprendere l'importanza dell'ufficio che compie il dono dell'intelletto, dobbiamo ricordare che la virtù della fede non rivela alla ragione che l'esistenza dei misteri;
essa non ce ne dà alcuna intelligenza.
Se quindi il nostro spirito desidera di avere, riguardo alle cose rivelate, una certa conoscenza, deve ricorrere alle sue proprie rappresentazioni, ai suoi propri concetti e applicarli agli oggetti rivelati.
Ora questi concetti la nostra intelligenza li prende mediatamente o immediatamente nell'essenza delle cose rivestite di materia, cioè negli oggetti esterni che cadono sotto i nostri sensi.
Ne segue che queste idee non rappresentano, con fedeltà, le cose immateriali, come sono le verità rivelate.
Malgrado tutti i nostri sforzi non avremo perciò, condotti dalla sola virtù della fede, che una conoscenza imperfetta delle cose rivelate, che un'idea lontanamente approssimativa della realtà e che espone l'intelligenza, in varie circostanze, a prendere il falso per il vero.
Il dono dell'intelletto ci procura un modo superiore di comprendere che ci preserva da questi errori e ci dispensa dal ricorrere al nostro modo umano di conoscere.
Ma se il dono dell'intelletto è basato sopra l'esperienza intima che abbiamo di Dio, e se il suo scopo consiste nel farci conoscere Dio e le cose divine, come si differenzia dal dono della sapienza?
Il dono dell'intelletto si distingue dal dono della sapienza per il modo con cui ci aiuta a conoscere.
Ci fa afferrare la verità, ce la fa scrutare per mezzo della semplice penetrazione dei termini.
La sapienza ragiona; dai principi ricava delle conseguenze.
Col possedere Dio, col godere della sua presenza con una dolce e intima esperienza, parte di là per ragionare sulle perfezioni, le opere di Dio e le verità che Egli ha rivelate.
Il dono dell'intelletto dà sulla cosa proposta un giudizio così come la sapienza, ma il giudizio del primo consiste nel vedere, per una specie di intuizione, i termini in cui viene esposta una verità e la legittimità della loro associazione.
Lo si chiama giudizio semplice o discernimento.
Il dono dell'intelletto procura perciò allo spirito una mirabile facilità di penetrare le verità della fede.
Gli dà lo sguardo dell'aquila capace di fissare lo stesso sole divino.
Allora siamo ancora nel mondo della fede?
Forse che ogni oscurità non è scomparsa?
Se tuttavia ci sono ancora delle tenebre, non si deve forse concludere che il dono dell'intelletto non ci insegna nulla più che la fede?
Un'ultima parola vi illuminerà a questo riguardo e vi darà un'idea generale sopra tutta questa materia così sublime e tuttavia così superiore all'intelligenza umana.
Certo il dono dell'intelletto ci dà un'evidenza, ma senza farci uscire dal campo della fede.
La fede ci dà una certezza circa le verità da credere, un'adesione ferma a tali verità.
È il suo proprio atto. Ma le cose da credere restano oscure.
Il giudizio che diamo su di esse non è evidente.
Ora che fa il dono dell'intelletto?
Illumina tale giudizio; dà allo spirito la penetrazione della verità da credere;
questa diventa, per certo riguardo, evidente.
Così l'anima non prova più alcuna difficoltà nell'ammettere la credibilità della verità proposta.
Questa evidenza tuttavia non toglie di mezzo la fede, perché non è che estrinseca e negativa.
Certamente, per sua natura, questo dono è destinato a procurare all'uomo una intelligenza chiara e perfetta delle verità divine, per mezzo del gusto e dell'esperienza che l'anima ha di Dio;
sarà proprio così in cielo, dove avremo la luce della gloria.
Quaggiù manca una condizione per potere raggiungere questa piena visione;
le verità infatti non sono proposte come lo sono in cielo: fides ex auditu.
L'evidenza non è che estrinseca, noi non scopriamo l'intima natura della verità proposta;
essa non è che negativa.
Il gusto che ne abbiamo non ci fa comprendere ciò che essa è, ci impedisce solo di confonderla coll'errore o di mescolare con essa un concetto umano e delle immagini sensibili.
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