Summa Teologica - II-II |
Quodl., 1, q. 7, a. 2, ad 2; 3, q. 6, a. 3; De perf. vitae spir., c. 16; In Matth., c. 19
Pare che i prelati e i religiosi non siano nello stato di perfezione.
1. Lo stato di perfezione si distingue in opposizione allo stato dei principianti e dei proficienti.
Ora, non ci sono delle categorie di uomini deputate espressamente allo stato dei proficienti, o dei principianti.
Quindi non ci devono essere neppure delle categorie di uomini deputati allo stato di perfezione.
2. Lo stato esteriore deve corrispondere a quello interiore: altrimenti si cade nella menzogna, la quale, come dice S. Ambrogio [ Serm. 30 ], « non consiste solo in parole, ma anche in opere simulate ».
Ora, ci sono molti prelati e religiosi che non hanno la perfezione interiore della carità.
Se quindi tutti i religiosi e i prelati fossero nello stato di perfezione, ne seguirebbe che quanti fra di loro non sono perfetti sarebbero in peccato mortale, in quanto simulatori e bugiardi.
3. La perfezione, come si è visto [ a. 1 ], consiste nella carità.
Ma la carità più perfetta si trova nei martiri: poiché, come dice il Vangelo [ Gv 15,13 ], « nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici ».
E spiegando quel passo di S. Paolo [ Eb 12,4 ]: « Non avete ancora resistito fino al sangue », la Glossa [ P. Lomb. di Agost. ] afferma: « In questa vita non c'è una perfezione più grande di quella a cui giunsero i martiri, i quali lottarono fino al sangue contro il peccato ».
Perciò lo stato di perfezione va attribuito ai martiri, piuttosto che ai religiosi e ai vescovi.
Dionigi [ De eccl. hier. 5 ] attribuisce la perfezione ai vescovi quali « perfezionatori ».
La attribuisce poi [ ib. 6 ] anche ai religiosi, che egli chiama « monaci », o « terapeuti », cioè « servitori di Dio », in qualità di « perfetti ».
Come si è già visto [ a. prec. ], per lo stato di perfezione si richiede un'obbligazione perpetua alle pratiche della perfezione, contratta con una certa solennità.
Ora, queste due cose appartengono sia ai religiosi che ai vescovi.
Infatti i religiosi si obbligano con voto ad astenersi dai beni del mondo, che avrebbero potuto usare lecitamente, per attendere a Dio con più libertà: e in ciò consiste la perfezione della vita presente.
Perciò Dionigi [ l. prox. cit. ] afferma parlando dei religiosi: « Alcuni li chiamano terapeuti », cioè servi, « perché consacrati al servizio e al culto di Dio; altri invece li chiamano monaci, per la vita indivisibile e singolare che li unisce, mediante sante e indivisibili convoluzioni », cioè contemplazioni, « alla deiforme unità e all'amabile perfezione divina ».
Inoltre la loro obbligazione è fatta con la solennità della professione e della benedizione.
Dionigi infatti aggiunge: « Per questo la santa legislazione, nel concedere loro la grazia perfetta, li degna di un'invocazione santificante ».
Parimenti anche i vescovi si obbligano alle pratiche della perfezione con l'assumere l'ufficio pastorale, il quale esige che « il pastore dia la vita per le sue pecore », come dice il Vangelo [ Gv 10,11 ].
Da cui le parole di S. Paolo [ 1 Tm 6,12 ]: « Tu hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni », cioè « nella tua ordinazione », come spiega la Glossa [ interlin. ].
E a questa professione è unita la solennità della consacrazione, a cui accennano le altre parole dell'Apostolo [ 2 Tm 1,6 ]: « Ravviva il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani »; dono che secondo la Glossa [ interlin. ] è « la grazia episcopale ».
E Dionigi [ De eccl. hier. 5 ] afferma che « il sommo sacerdote », cioè il vescovo, « nella sua ordinazione riceve sul capo la santissima imposizione delle Scritture, per indicare che egli partecipa integralmente di tutto il potere gerarchico, e che egli non solo deve illuminare su tutto ciò che riguarda i libri e i riti santi, ma deve anche trasmetterli ad altri ».
1. Il principio e la crescita non vengono cercati per se stessi, ma per la perfezione.
E così la deputazione di alcuni uomini con un'obbligazione speciale e una certa solennità avviene solo per lo stato di perfezione.
2. Gli uomini abbracciano lo stato di perfezione non per dichiarare che sono perfetti, ma come per dichiarare che tendono alla perfezione.
L'Apostolo [ Fil 3,12 ] infatti scriveva: « Non che io abbia già conquistato il premio, o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo ».
E poco dopo [ Fil 3,15 ]: « Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti ».
Perciò uno non cade nella menzogna o nella simulazione per il fatto che senza essere perfetto abbraccia lo stato di perfezione, ma solo qualora poi desista dal tendere ad essa.
3. Il martirio consiste in un atto perfettissimo di carità.
Un atto perfetto però non basta, come si è visto [ a. 4 ], a costituire uno stato.
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