Ritiro del 29/4/1995
1 - Documento di indizione del Sinodo
2 - Il rapporto dinamico tra Dio, il suo Spirito e gli uomini
3 - Lo Spirito soggetto originale della storia
4 - L'umiltà
5 - Pentecoste
6 - Tentazione di protagonismo
7 - "Abbiamo deciso lo Spirito Santo e noi"
8 - Lo Spirito deciderà in noi e noi saremo trasformati
9 - Mettere in discussione noi stessi
10 - Sinodo luogo di confronti talora difficili
11 - Celebrare il Sinodo, celebrare la verità
12 - La decisione
13 - Riemerge il concetto di responsabilità
14 - I cristiani portano il carico della salvezza umana
15 - L'uomo pensa e decide
16 - Gli apostoli, elaboratori di una prassi
17 - Debolezza
18 - Se fossimo convinti che avere Cristo è una gioia
19 - Evitare il puro intellettualismo
20 - Comportatevi nello Spirito Santo
21 - La diversità, ricchezza di Dio
22 - L'unità ecclesiale della carità
23 - Il voto di obbedienza, forma di comunione
24 - Dio dà la grazia agli umili
Ho pensato che non era il caso con voi di scorrere i Lineamenta; perché mi sembra un lavoro abbastanza facile da farsi, e anche perché più ricco di questo fascicolo dei Lineamenta, rimane il documento di indizione, la lettera dell'arcivescovo.
Ma per accogliere in modo più misterico, più attento l'evento del Sinodo e nel contesto di questi due piccoli documenti, vorrei riflettere con voi sulla frase di Pietro a conclusione del primo Sinodo.
Perché? Perché là siamo alla sorgente più genuina di che cosa sia un sinodo come evento che accade tra Dio e gli uomini, a favore degli uomini.
Perciò riprendiamo dalle labbra di Pietro la prima parte della sua affermazione: "Abbiamo deciso lo Spirito Santo e noi di non imporvi nessun altro obbligo all' infuori di…" ( At 15,28 ).
Rimane una formula decisiva questa, che va al di là dei mutamenti culturali ed esprime con una singolare essenzialità il rapporto operativo e dinamico che intercorre appunto tra Dio e il suo Spirito e gli uomini, in quella maniera di agire nella storia che si esprime attraverso i forti momenti conciliari e sinodali e però anche nella vita ordinaria del popolo di Dio, che rimane a questo livello di sinergia tra Dio e l'uomo.
Cominciamo a comprendere perché Pietro, per la prima volta rivolgendosi in modo solenne alla comunità, senta il bisogno di abbinare i soggetti in maniera così chiara: "Abbiamo deciso lo Spirito Santo e noi".
Formula infrangibile se si vuole rimanere nella ecclesialità: basterebbe che noi togliessimo il primo dei due termini e saremmo di fronte alla prassi normale di qualsiasi decisione culturale o politica di questo mondo.
Chiunque abbia un potere legittimo dirà almeno qualche volta: "Noi abbiamo deciso di".
Anche nella Chiesa può accadere che si offuschi, che sbiadisca la forza concettuale e reale del nome Spirito Santo e che perciò, pur rimanendo quella formula, in realtà prevalga l'aspetto decisionale umano; come se la formula stessa si sbilanciasse tutta a favore dell'uomo e il nome dello Spirito rimanesse una specie di garbata e ossequiente evocazione, che non significa però più di tanto.
È il rischio che sempre si corre quando si gestisce una autorità, anche nella Chiesa.
Qui siamo invece ad una enunciazione non solo dottrinalmente purissima, ma pienamente onesta.
C'è una cosa infatti che gli apostoli sanno molto bene: che la Chiesa ha nello Spirito il soggetto originante di tutte le sue operazioni nella storia.
I progressi, le lotte, le fatiche, la testimonianza, il martirio, la fedeltà alla propria verità vissuta che la Chiesa riesce a esprimere nel mondo visibile, sono tutte da attribuire, come a soggetto originante, allo Spirito.
Ciò è teologicamente innegabile e direi che ne siamo tutti convinti.
Non si tratta però qui di evocare una convinzione di carattere teologico, ma piuttosto una prassi teologale: come cioè quella teologia, di fatto, investe una comunità quando essa volutamente si mette in stato di sinodo, ossia provoca Dio a intervenire con una particolare attualità nel suo essere Chiesa così e così.
Prima di ogni altra cosa, ossia prima di essere la decisione di un vescovo o di una comunità, un sinodo è un chiamare Dio in causa su una Chiesa e quindi attirare su di sé Dio e il suo giudizio amorevolmente critico; proprio perché si sente il bisogno di questo lavacro quasi battesimale nella verità critica dell'amor di Dio.
Questa è una consapevolezza che bisogna avere; il che non significa che tutti l'abbiamo; tra noi e il sinodo ci sono delle apparenti scorciatoie che ci fanno perdere quasi completamente questa essenzialità.
Che nella nostra diocesi, la maggioranza si renda conto che stiamo facendo cadere su di noi un giudizio amorevole di Dio, che dunque ci stiamo mettendo noi, volutamente, nella condizione delle chiese dell'Apocalisse: "Tu che sei il Verace, parla, di' ciò che siamo e ciò che non siamo", è sperabile, ma non oserei dire di più.
A cristiani come voi però questo si deve non solo dire ma chiedere come primo atteggiamento, perché è evidente che tale atteggiamento ne comporta un altro radicale, che è l'umiltà.
Quando dunque noi, come molte volte accade, nel pregare, nel salmodiare invochiamo: "Giudicami, Signore" ( e se non lo diciamo soltanto con le labbra ), facciamo individualmente ciò che una chiesa fa, sapendo bene di non consegnarsi a un giudice in senso giuridico puro e semplice, ma a uno Sposo che è la verità.
Quindi sapendo di consegnarsi, per un lato, a un giudizio tale che di più penetranti non ce ne sono; e dall'altro a un giudizio tale che di più amorevoli e teneri non ce ne sono.
Se più spesso la Chiesa e i cristiani avessero il coraggio di riconsegnarsi al giudizio di Dio certo la nostra santità sarebbe facilitata.
Ebbene, il sinodo è in primo luogo proprio questo: lo Spirito è il soggetto che ci porta, noi chiediamoci se rispetto alle sue sollecitazioni, ispirazioni, mozioni siamo davvero docili e camminanti; o se non ci trova per caso alquanto riottosi, latitanti rispetto alle sue mozioni.
Consapevolezza che gli apostoli acquistarono nel lampo formidabile della Pentecoste; il cambiamento esperienziale che essi fecero, come sappiamo dalla descrizione che ne fanno gli Atti, fu senza dubbio prodigioso e formidabile, per cui non avevano alcun dubbio che se lo Spirito c'era, essi c'erano, ma che se lo Spirito non ci fosse più stato essi non ci sarebbero più stati.
Non dico: ci sarebbero stati ma si sarebbero taciuti, dico non ci sarebbero più stati nella loro personalità potenziata e soprannaturale.
Lo sapevano benissimo. L'andare avanti della Chiesa e la nostra capacità di gestire le cose - e il dovere di farlo - possono avere indebolita ( e io ritengo abbiano di fatto indebolita ) questa consapevolezza che essi avevano così fresca.
E quanto più la Chiesa ha acquistato capacità, potere storico, tanto più è caduta nella tentazione di essere ella stessa quella che decide, ossia il soggetto determinante.
Il Veni Creator detti prima e detti dopo, ma semplicemente come preghiera di repertorio, perché non avevano che pochissima intenzione di mettersi veramente alla scuola dello Spirito.
Non sto evidentemente descrivendo un metodo, ho parlato di una tentazione, che pertanto anche tra noi circola, ma dalla quale occorre guardarsi.
Infatti se noi pensassimo al sinodo sotto la spinta di questa tentazione, non eviteremmo di cadere o nel protagonismo o nel democraticismo sinodale; ossia, il sinodo è lì, io ci vado, esprimo, dico, penso, propongo, impongo, insomma "Ecce homo" ( e il Vangelo mi scusi ); oppure - ed è più probabile data la struttura di lavoro del sinodo - fare emergere dal sinodo delle soluzioni pastorali o quanto meno delle proposte che hanno soltanto la forza della collettività.
Certo nell'ambito della fede e che possono essere giuste, ma nessuno oserebbero dire: Lo Spirito santo e noi , perché si rendono conto di essere essi stessi che stanno decidendo.
La prova del fuoco di questo atteggiamento riduttivo e insufficiente è che quando i protagonismi o le decisione collettive si incontrano non sono capaci dell'unico fenomeno che proverebbe il cristianesimo, cioè la comunione operativa.
Si schierano, polemizzano, discutono… e basta.
Già questa prima riflessione ci pone nell'ottica giusta e dovremo pregare perché la nostra diocesi possa onestamente, alla fine dei suoi lavori, dire: "Abbiamo deciso lo Spirito Santo e noi".
Sarà il vescovo che firmerà le decisioni, ma evidentemente la sua firma altro non esprime che il respiro e il sospiro di una comunità; se è stata una comunità umile, avremo il diritto di dire questa formula; se nel sinodo e durante esso, cioè in questo tempo, non acquisissimo il diritto di dire questa formula, dovremmo umilmente riconoscere che abbiamo sciupato il nostro tempo.
Se le cose stanno così, acquista molto rilievo la congiunzione e che troviamo in quella frase di Pietro.
Se infatti il sinodo è in primo luogo un'impresa dello Spirito Santo in una comunità e non senza di essa, allora diventa veramente di grande significanza quella congiunzione con cui Pietro sigla l'interazione tra lo Spirito e loro; si tratta di una interazione tutta speciale e guai a sottovalutarla.
Banalizzare un'espressione come Abbiamo deciso lo Spirito Santo e noi è peggio che nominare il nome di Dio invano; è cadere in una specie di presunzione o di superficialità che non si può ammettere nelle cose di Chiesa.
Allora si tratta di mobilitarsi come cristiani soprattutto quando si è interattivi con lo Spirito.
Soprattutto, dico, e non soltanto, perché se fosse "soltanto" ci esimeremmo da quel lavorio storico tutto nostro e il sinodo potrebbe equivalere a: Faremo ora l'invocazione allo Spirito Santo, pregheremo giorni e giorni e poi aspetteremo.
Lo Spirito deciderà in noi quando vorrà ( vedi la Pentecoste ) e noi saremo trasformati.
La differenza tra la Pentecoste e ogni concilio e sinodo sta proprio qua: che Dio ci dà sufficiente fiducia da affidare proprio alle nostre intelligenze, alla nostra esperienza e alle nostre coscienze l'andamento della Chiesa, a condizione però che quel e sia significativo.
Allora, quando ci accostiamo allo Spirito, che esperienza facciamo?
Che vuol dire per un cristiano accostarsi allo Spirito?
Se lo Spirito è significativamente verità - ricordate il Vangelo secondo Giovanni: "Colui che ci convince di verità" - e fuoco - cioè anche carità -, non c'è dubbio che, al di là di questi simboli, accostarsi personalmente allo Spirito deve avere almeno due effetti: convincerci di più della verità, non solo dogmatica ma da viversi, e colmarci di maggiore carità; un effetto veritativo e un effetto caritativo.
Se non accade questo bisogna ammettere che allo Spirito non ci siamo avvicinati; l'avremo nominato, ma siamo rimasti alla distanza di prima.
Non ci si avvicina a un fuoco senza percepire più luce e più calore, ma se si gira attorno al fuoco sempre a quattro metri di distanza, possono passare i millenni e il nostro grado di temperatura e di luminosità non cambia.
Convincerci della verità ( che significa anche della santità, sono sinonimi ) e convincerci della carità: a questa sola condizione lo Spirito Santo e noi conserva la sua dignità e il suo significato.
Allora dovremo vincere una tentazione che credo abbiamo tutti, sia per abitudine culturale sia perché siamo molto intraprendenti: quella di essere soggetti anche molto attivi, che affrontano e mettono in questione tutto, meno che se stessi.
Ora, avvicinarsi allo Spirito significa in primo luogo mettere in discussione se stessi.
Non soltanto, altrimenti il sinodo sarebbe nient'altro che un corso di spirituali esercizi, in cui ci mettiamo in questione davanti a Dio e basta.
Supponete che io prima del sinodo abbia alcune grosse riserve su alcuni aspetti della mia Chiesa ( e possono anche essere riserve ragionevoli o giustificabili ) o alcuni problemi riguardo a una certa conduzione pastorale o alcuni rilievi che farei al vescovo stesso, ecc.
E va bene, questo è un dato oggettivo.
Supponete però che io lo esponga in maniera astiosa, polemica, insofferente e le mie tesi passino; passa il sinodo e io mi ritrovo con soddisfatta gioia a dire: Oh, era quel che ci voleva!
Ma mi ritrovo anche ad essere il piccolo soggetto che ero, permaloso e scontento prima, soddisfatto e compiaciuto adesso; non mi sono affatto avvicinato allo Spirito.
Credo di essermi spiegato.
Guai anche qui a credere di trovare scorciatoie o, peggio ancora, a illudersi che il sinodo sia appunto una grande operazione cultural-critica, dove noi potremo anche esprimere delle verissime cose, ma senza lasciarci sfiorare dalla fiamma dello Spirito stesso.
Ed è un'altra verità, questa, su cui credo si debba riflettere con molta umiltà.
È un po' presto adesso per dire come la nostra comunità diocesana sta reagendo al sinodo; senza dubbio si lavora sui Lineamenta che sono stati accolti con un certo entusiasmo, quindi con un consenso consolante ed è anche probabile e sperabile che, data l'impostazione che il vescovo ha voluto dare, questo significhi preghiera, revisione di vita: senza dubbio su questa strada non c'è rischio di andare mai troppo avanti, non si esagera mai.
Allora è bene che si conservino entrambi gli aspetti: a servizio della verità per tutti, ma lasciandomi pienamente coinvolgere, ossia lasciandomi guidare dallo Spirito personalmente ( Gal 5,16 ), non spegnendo in me lo Spirito.
Ora voi capite come il sinodo, mobilitando in maniera eccezionale delle energie, sia anche luogo di confronti che possono essere difficili; d'altronde la lettera di Pietro fece seguito a un difficile confronto.
Ciò che conta è che anche queste inevitabili, e provvidenziali, vicissitudini diventino strumento di santificazione.
Al sinodo non si va per vincere battaglie, per far prevalere delle tesi anche giuste, per mortificare degli avversari… o cose di questo genere.
Naturalmente si può avere questo spirito "umano" - chi di noi ne è esente? -, ma si tratterà di ricordare che lo Spirito Santo lavora soltanto con persone che hanno le "mani pulite", che cioè prima di tutto accettano di essere santificate, di essere messe in grado di parlare.
Perché l'assemblea sinodale non sarà neppure, se non all'apparenza, un'operazione democratica: ci sono 50 proposizioni, adesso le votiamo e poi il vescovo le farà diventare normative.
Tutto questo è un iter giuridico qualsiasi; lì si andrà a parlare profeticamente, assumendosi il peso della gloria di Dio e quindi misurandole bene le parole, perché non si porterà se stessi, ma il destino, anche se parziale, di una chiesa e la benedizione che Dio dovrà far scendere attraverso quelle proposizioni.
Si va quindi veramente a celebrare il sinodo, che non è una parola metaforica, ma una parola liturgico-sacramentale: si va a celebrare la verità e i concelebranti sono tutti coloro che contribuiscono a formarla questa verità e a ottenere, mediante la loro comunione offerta a Dio, che Dio accolga l'offerta sinodale, l'oblazione dei nostri sforzi e li faccia diventare una benedizione.
Se non accade questo, non accade appunto nulla di importante.
Dunque dovere di molta santificazione, rapporto diretto fra sinodo e santificazione.
Io credo che voi già ne avvertiate l'impegno, perciò per voi si tratta di una domanda quasi accademica; occorre però dirle queste cose, farle capire, farle sentire, perché più persone capiranno questo e più il sinodo sarà respirato da Dio, come desideriamo.
Dopo questa proclamazione di interazione, di intersoggettività e di comunione tra i due soggetti, Pietro esprime ciò che è accaduto e lo esprime con il linguaggio più vigoroso che noi uomini abbiamo a nostra disposizione: il linguaggio della decisione.
Non della proposta o della speranza o del buonaugurio, ma "abbiamo deciso".
Anche questo è da rilevare.
Siamo in una cultura che ama poco la parola "decisione" e può anche avere molte ragioni, perché il nostro secolo, purtroppo, ha visto accaparrarsi la decisione da parte di iniqui decisori i quali lo hanno straziato, come sapete meglio di me; per cui noi abbiamo cominciato a dubitare di chiunque decida troppo e abbiamo deciso che la decisione è uno strumento troppo pericoloso e non lo si deve lasciare più in mano a nessuno.
Siamo al punto di preferire - e non alludo all'Italia di oggi, ma al clima generale - dei governanti neppur troppo decisi, pagando il costo molto alto di tutto quello che poi ne viene; ma c'è un inconscio timore di chi decide troppo.
Questo aver perso la fiducia nel fatto che siano possibili decisioni buone è un gravissimo male, perché le decisioni buone sono possibili, eccome!
Sono più possibili di quelle inique, malgrado la storia; ma oggi non ci fidiamo più molto che possa sorgere all'orizzonte qualcuno capace veramente di decisioni buone.
Ebbene, in questo clima di scarsa decisionalità, che contamina anche noi, perché anche noi tendiamo a essere quelli dell'"arrangiamento" anche sul piano della vita personale, acquista invece un significato meta-temporale, che vale per sempre, questo stile proprio.
Che non è di ogni momento, perché uno che ad ogni istante ci perseguiti dicendo: Io ho deciso su di te, è un tiranno.
Cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che gli apostoli hanno accettato totalmente l'essere Chiesa come responsabilità.
Grazie a Dio riemerge, per soggetti tra l'altro non cristiani, ma questo non importa nulla, il concetto fondamentale della responsabilità.
Io sono persuaso che le nostre civiltà si salveranno aggrappandosi a questo concetto, il quale riabilita un altro concetto ormai sommerso e fatto annegare nella cultura: quello della libertà.
Al di là del fatto che di libertà parlino tutti ( ma spesso è questione di licenza ), quella libertà decisionale, forte, costruttiva su cui il cristianesimo continua a puntare se stesso perché dice che l'uomo è veramente libero del suo destino, è soltanto più un linguaggio nostro, di minoranza; più nessuno crede che la libertà sia questa, è più facile credere che siamo molto condizionati, splendidi animali, come si dice, e innocenti perché animali; dunque non c'è problema etico e di libertà.
Ebbene questo concetto, morendo il quale tutto morirebbe, siccome è immortale riemerge, grazie a Dio, con un altro nome: la responsabilità, perché non c'è dubbio che chi si rende responsabile, si suppone libero, altrimenti non accetterebbe di rendere conto.
Sicché la responsabilità è anche più forte come concetto, proprio perché non è una libertà generica di scelta, di elezione, di decisione personale, di far ciò che voglio, ma è una libertà del rendiconto: tengo conto degli altri, mi assumo un carico, ne rispondo io e ne rispondo io a te.
Concetto bellissimo, cristiano se ce n'è uno, ma anche umano.
Allora gli apostoli non hanno dubbi: se sono apostoli sono responsabili.
Ma neanche i cristiani devono avere dubbi: se sono cristiani sono responsabili.
Di cosa e davanti a chi? Davanti a Dio, ma anche e non meno davanti a tutti i fratelli del mondo, del bene di tutti, della loro salvezza.
I cristiani portano il carico della salvezza umana; inutile che dicano: pesa troppo, non tocca a me, tanto si salvano tutti… o frasi di questo genere.
È scritto da Gesù Cristo in poi che il cristiano è caricato di gloria, che vuol dire caricato della salvezza degli altri.
Non siamo chiamati a uno stato privilegiato puro e semplice, ma a credere, primo, in una salvezza a cui molti non credono; secondo, esattamente come Gesù, a prendersi sulle spalle i peccati degli altri per redimerli con la croce di Cristo.
Ma tutto questo diamolo per scontato.
Qui ciò che interessa, dunque, è che di fronte a una comunità nascente, che comincia ad avere i suoi primi disorientamenti, gli apostoli si assumono il carico della certezza, di una certezza non teorica, ma a cui seguirà una prassi.
Non sono soltanto allora portavoce dello Spirito: "Abbiamo sentito pregando che lo Spirito vuole così ora ve lo diciamo".
Devo riconoscere che uomini così mi avrebbero soddisfatto di meno; li avrei ammirati come portavoce, ma, come tali, talmente al di sopra delle categorie operative umane ( perché l'uomo pensa e decide ), da essere ritenuti del tutto eccezionali.
Non cioè da dover dire: speriamo che Dio ci mandi un uomo che ascolta e dice; la sua mente e la sua coscienza non servono: basta che ascolti e dica.
Nella Chiesa, come ben sapete, questo ministero permane come carisma tipico di chi ascolta e dice, ma non decide e perciò non rende conto.
È un'altra, la funzione profetica e guai se non ci fosse - i profeti ci drizzano continuamente la strada -, ma non basta; il popolo di Dio non è soltanto profetico, è anche regale e perciò in forza della luce profetica assume la responsabilità storica.
Che non vuol dire, badate, il comando storico; la responsabilità non è sinonimo di comando, ma è che se tu hai bisogno di x, io corro, mi inchino davanti a te e, se posso, ti procuro x.
Questo non è comandare, è farmi carico di una cosa che potrei anche - vedi parabola del samaritano - guardare solo da lontano.
Gli apostoli sono dunque elaboratori di una prassi che li ha totalmente impegnati.
Se essi dicono: abbiamo deciso, lo dicono proprio da uomini; hanno conosciuto la fatica di pensare, la fatica di discutere, la fatica di dire: "questo è sbagliato e questo è giusto" - "no, questo è giusto e questo è sbagliato"; allora decidiamola, vediamo un po', ragioniamo.
La fatica dell'intelligenza, a cui spesso si sottraggono i cristiani vivendo di bei sentimenti, l'hanno conosciuta tutta e hanno anche conosciuto la fatica delle vedute parziali, che cioè vedono un aspetto e non un altro e perciò possono benissimo non andare d'accordo per "affinità elettiva".
Hanno conosciuto tutto questo e perciò hanno faticato a giungere a una decisione; però ci sono arrivati e dopo questa fatica umana, sostenuta dallo Spirito, possono dire: "Abbiamo deciso".
Se oggi molta parte del cristianesimo è dominata dalla indecisione è perché gli adulti pensano troppo poco alla loro fede, perciò la decidono troppo poco, ne sono troppo poco convinti e pertanto rimangono nella loro debolezza.
Se un cristiano oggi dice: "Ma sì, in fondo tutte le salvezze sono buone, io credo in Cristo e quell'altro in… perché devo andargli a imporre Cristo come un cappello santo in più?", è chiaro che costui non ha conosciuto bene il mistero di Dio;
non ha ancora conciliato il fatto che la salvezza nel Verbo incarnato è sì un dono fatto a tutti, però non come la rugiada che scende sulla campagna, ma personalizzato in Gesù Cristo, il quale dunque concentra in sé la pienezza di questo dono, effonde attorno a sé la luce e il profumo di questo dono, ma non rinuncia a essere Cristo.
Cristo cioè non si spersonalizza nella storia, come uno zuccherino che si scioglie in un bicchiere e poi tutto è dolce, basta bere da qualsiasi parte; questo non è il cristianesimo, questo è un generico pancristismo che non si addice alle Scritture.
Se fossimo convinti che avere Cristo è una gloria, una gioia e una ricchezza a prescindere dalla salvezza, se cioè non mettessimo il discorso soteriologico prima di quello cristologico, con la psicologia del salvagente: purché mi salvi poi basta ( che è una psicologia minore ), noi saremmo fieri di Cristo e desiderosi di consegnarlo a qualcun altro.
Non essendo spesso ricchi di questa pregnante convinzione ci accontentiamo di pensare: "Speriamo che me la cavo".
Da cristiano, da buddista, da islamista… tutti fratelli e la questione è finita.
Ma questa è una debolezza che sotto sotto è un sottile egoismo: Speriamo che me la cavo.
Che poi te la cavi grazie a Cristo o grazie a Confucio, questo è secondario; il ponte può essere di legno o di ferro, a me interessa raggiungere l'altra sponda.
Egoismi sottili che spesso non avvertiamo e ci rendono deboli.
Questo non accadeva agli apostoli i quali avevano dunque il coraggio di decidere, perché erano molto convinti.
Questo coinvolgimento totale e responsabile evita il disimpegno, ma soprattutto - ciò che io ritengo più pericoloso - evita il puro intellettualismo ecclesiale: io dico le mie idee, faccio un contributo, scrivo un magnifico libretto su un concetto e poi tutto è fatto; non chiedetemi di responsabilizzarmi.
E questo peccato dell'intellettuale ( ricordate don Ferrante di Manzoni: essendo intellettuale " né gli piaceva obbedire né gli piaceva comandare" ) non è per nulla l'intelligenza - che ci vuole tutta - della fede cristiana.
Allora il significato del "noi" va recuperato meglio. Chi sono questi noi?
La risposta storica è semplice: è il piccolo collegio degli apostoli.
Sicuramente sì, ma se fosse tutto qua, per la verità sarebbe un po' poco.
Non è un noi di gruppo: Io, Giovanni, Paolo, Barnaba… ecc., il gruppo che regge, noi insomma che siamo da questa parte rispetto a voi; è piuttosto un noi di qualità, cioè un noi corporativo, ma nello Spirito Santo.
Non la corporazione dei Papi, neanche la corporazione dei primi vescovi, ma corporativo nello Spirito: tutta la 1 Cor 12 esprime precisamente questo fortissimo assorbimento nello Spirito.
In forza di questo essere uno nello Spirito ci si può permettere la pluralità ecclesiale, che è uno dei nodi della nostra maniera di essere Chiesa e non da oggi.
Dunque in questo "noi" che cosa ci sta? Ci stanno degli uomini uniti nello Spirito.
Uomini vuol dire differenze che possono diventare esasperanti, ma uniti nello Spirito cioè con una capacità di comunione che non annulla, ma in sé compone fecondamente le differenze.
Ogni forma di amicizia e di amore in realtà realizza la stessa cosa, solo che qui l'amore è l'increato Amore di Dio e quindi può permettersi di affrontare molte più differenze.
Dovremmo ricordarlo questo, perché noi siamo invece convinti che essere cristiani vuol dire essere meno diversi che si può tra noi, facendo scendere un po' troppo l'uniformità del Credo e della morale fino a una serie, non dico di decisioni piccole, ma anche di comportamenti pastorali i quali hanno il diritto e il dovere della diversità, cioè della ricchezza inesauribile di Dio.
Se fate calare po' troppo questa seracinesca del: qui siamo tutti uno perché crediamo e operiamo così, soffocate questa pluralità, la quale protesta, si ribella, si amareggia perché avrebbe il diritto di esistere, ed ecco una chiesa conflittuale.
In realtà il noi, dunque, è un contenitore di differenze, ma è anche capace di fonderle fecondamente per un bene maggiore.
Per stare a un esempio classico: se un marito e una moglie fossero una coppia di identici, tanto varrebbe che ce ne fosse uno solo; quando dieci sono identici, nove sono di troppo, non vi sembra?
Ma se non sono identici, va appena bene, perché sono fecondi.
Questo comporta alcune cose importanti.
Sono dunque previste le discussioni animate ( At 15,2 che precede la lettera in questione ).
Non nel senso di dire: allora ci permetteremo di litigare, di insultarci; sono previste queste verità che ci pulsano dentro appassionatamente, che per noi sono proprio il meglio: io ammetto di avere questa intuizione della verità e ammetto che tu ne abbia un'altra.
Se io sono davanti al Monte Bianco dal versante italiano e tu da quello francese , vediamo entrambi lo stesso Monte Bianco ma da due punti di vista diversi e potessimo averne una visione globale ne avremmo ancora un altro e ognuno si entusiasma del suo.
Sono entusiasmi autentici, che bisogna avere; ma nello stesso tempo vanno ovviamente integrati.
Così davanti a un'opera d'arte e così tanto più di fronte all'opera di Dio.
Elementare, a dirsi così, ma quando sono innamorato del mio monte Bianco è inutile che mi vengano a dire che dall'altra parte è altrettanto bello, col rischio che io dica che a me basta quello e dall'altra parte non ci andrò mai.
No, questo non è cristiano. Allora previste le discussioni animate, le quali si appoggiano su due cose: la complessità del cristianesimo e anche la libertà, che io amo nell'altro proprio quando mi sta dicendo che il Monte Bianco che vede lui è almeno bello come il mio.
Glielo lascio dire perché è libero di dirlo, poi vedremo di mettere insieme le cose senza per questo fare una guerra.
Soprattutto l'unità ecclesiale della carità è in grado di gestire per un bene maggiore ogni situazione: se credessimo questo come saremmo fiduciosi nell'andare alla tavola delle diversità, parlare tra noi fraternamente perché, come accadde allora, la fraternità che non discende da noi ( si romperebbe subito ) ma che è dallo Spirito, ci aiuta a essere fecondi, a gestire per un bene maggiore queste ricchezze diverse.
Ora il Sinodo sarà certamente, dovrà essere passerella per le diversità intraecclesiali.
Anche se il tema si restringe non importa: ci sono molti modi di evangelizzare oggi e per di più dobbiamo inventarne degli altri .
Ma allora il senso del sinodo non è certamente evitarle queste diversità, passarle sotto silenzio, far finta di niente; piuttosto guardarle con franchezza, affinché siano com-poste nella coralità pastorale.
I migliori concili o sinodi sono sempre arrivati fin qui; non tutti, ma i migliori sì e noi dobbiamo pregare perché il nostro sia tra questi.
Infine, perché si parla di imporre obblighi?
"Non imporvi nessun altro obbligo al di fuori…" è una formula discreta, garbata; non sta scritto "di imporvi questi obblighi" e poi due punti che ci farebbero pensare: Adesso qui chissà cosa arriva; è una formula aperta, amorevole: nessun altro obbligo.
Non ci teniamo a comandare la vostra libertà, vi indichiamo solo alcune cose che riteniamo indispensabili per rimanere cristiani o crescere nell'esserlo.
Qui la disciplina ecclesiale nella carità è una forma di comunione.
Il voto di obbedienza dei religiosi è una forma di comunione, anche se spesso lo abbiamo trasformato in una forma di ordine, di esecutività, di funzionalità o anche ( il che va benissimo perché è la ragione ) la conformità a Cristo, ma spesso con pochissima comunione con i superiori che ci stanno dicendo di fare una cosa.
Allora: sono conforme a Cristo crocifisso, perché tu, superiore, mi stai appunto mettendo in croce.
Invece la Chiesa pensa che la comunione della carità non sia soltanto la comunione orizzontale - quella che ci piace moltissimo, che rischia di essere addirittura egualitaria, tutti alla pari, insomma: Caro vescovo, siediti qua, dimmi la tua parola e io ti dico la mia -, ma sia anche una comunione gerarchica, una carità comunionale verticale.
Periodi sono stati dominati da una, chiamiamola, carità che forse era solo più disciplina; periodi come questo sono piuttosto dominati da un amore allo stesso livello, di comunità che sono spesso molto sincere, ma la Chiesa è una carità che può permettersi perfino di affrontare i disagi della dipendenza.
Possiamo amare i nostri superiori, chiunque essi siano; e i santi ce ne danno enormi testimonianze, anche se spesso non sono stati i meglio trattati dai loro superiori, ma li amavano trascendentalmente, perché c'era la comunione della carità.
La nostra mentalità oggi è tendenzialmente non obbediente, per le ragioni ricordate prima; eppure resta la regola che Dio dà la grazia agli umili, in cui gli umili sono coloro che amano i superiori, non malgrado siano superiori, ma semplicemente perché sono fratelli che hanno il diritto di dirmi alcune cose.
Questo io ritengo sia un atteggiamento sinodale decisivo; il grande rischio è che il sinodo sia visto come una gara di maggioranze: "Ah, il vescovo ha assunto la nostra testi, l'ha firmata, adesso è legge e lo dovranno fare i tutti".
Se un sinodo fosse mai un tentativo di potere, sarebbe un sinodo non guardato con indifferenza da Dio, ma maledetto da Dio, perché in Dio non ci sono le indifferenze: c'è la benedizione o la maledizione e dovremmo avere il coraggio di ricordarlo.
È il Dio della misericordia, ma quando si sdegna, si sdegna, è inutile stare lì a indorare la pillola.
Ho creduto utile raccogliere queste stimolazioni che vengono da un sinodo originale, e in qualche modo originante , al di là della lettura di questi testi, che si può sempre fare.
Dal punto di vista del lavoro, comunque, sarà bene - e lo dice la lettera di apertura dei lavori - che poi possiate anche lavorare come gruppo, perché qui si prevede che lavorino i gruppi parrocchiali, le comunità di vita consacrata, le associazioni, i movimenti laicali.
Più sotto si dice: "Mi auguro che le persone e i gruppi più preparati colgano la grande occasione del sinodo per suscitare momenti di incontro".
Per chiarire questa frase ho telefonato a don Carrù e lui mi ha detto che in effetti chiunque può a titolo personalissimo, a titolo di gruppo formale o informale, esprimersi e poi fare arrivare al segretariato le proprie risposte.