24 Luglio 1968
Diletti Figli e Figlie!
Vorremmo in queste Udienze settimanali dare alcuni lineamenti circa la figura dell'uomo, quale la Chiesa lo concepisce, tenendo conto degli insegnamenti perenni del cattolicesimo e di quelli particolari del recente Concilio, e avendo presenti alcuni riflessi, che il tempo nostro proietta sul volto umano.
L'uomo è alla ricerca di se stesso.
Vuole prendere coscienza di sé; vuole dare alla sua esistenza un'espressione sua, che sempre chiama nuova, altre volte chiama libera, piena, possente, originale, personale, autentica …
Vi è chi ha parlato di superuomo e di uomo dalla vita eroica; chi lo ha definito prevalentemente sotto l'aspetto biologico e zoologico ( cfr. Desmond Morris ).
L'antropologia è in discussione a tutti i livelli.
È ora il tema principale della discussione scientifica, filosofica, sociale, politica ed anche religiosa ( cfr. Gaudium et Spes, n. 14 ).
Chi è l'uomo? e quale tipo di uomo possiamo dire ideale?
Ritorna l'antica domanda socratica: « Io ti domando: che cosa è il santo? » ( Platone, Eutifrone ).
Poniamo appena la questione, non certo per trattarla e risolverla in un'umile conversazione come questa, ma solo per richiamare la nostra attenzione su questo tema centrale della problematica contemporanea; e per mettere oggi in evidenza una difficoltà proveniente dalla nostra professione cristiana; non diciamo ora di quella già nota del teocentrismo, cioè della posizione centrale che Dio occupa nella concezione della vita cristiana, in confronto con l'autoidolatria moderna, con l'antropocentrismo; cioè non parliamo ora della concezione umanistica e profana, che pone l'uomo al centro di tutto.
Dici,amo piuttosto dell'atteggiamento penitenziale, che sta alle soglie della partecipazione al « regno dei cieli » ( Mt 3,2 ), e che si chiama « metanoia, conversione », un cambiamento, cioè, profondo ed operante di pensieri, di sentimenti, di condotta, che obbliga ad un certo rinnegamento di sé, e che accompagna sia il tirocinio, sia la osservanza della norma cristiana; questo atteggiamento consiglia rinunce, alle volte molto gravi, come i voti religiosi; infonde nel fedele con suo grande, anche se salutare, disagio, il senso del peccato; esige la vigilanza su pericoli e tentazioni che insidiano ad ogni passo il corso della vita; traccia al cammino dell'uomo la via stretta come la sola che conduce a salvezza ( cfr. Mt 7,13-14 ); reclama un'imitazione di Cristo tutt'altro che facile e spinge fino alla esaltazione della sua croce e ad una qualche partecipazione al suo sacrificio.
La vita cristiana fa molto caso dell'abnegazione, della mortificazione, della penitenza ( cfr., ad esempio, la severità reclamata dall'uomo contro ciò che nell'uomo stesso può essere fonte di peccato: Mt 5,29-30; Mt 18-8 ).
Il cristianesimo non si fida dell'umanesimo naturalista; sa che l'uomo è un essere vulnerato fin dalla sua origine, che nella complessa ricchezza delle sue facoltà porta con sé squilibri estremamente pericolosi, e bisognosi di disciplina austera e duratura.
Il cristianesimo, per viverlo bene, ha bisogno di continue riparazioni, di ricorrenti riforme, di ripetuti rinnovamenti.
La vita cristiana non è molle e facile, non è comoda e formalista, non è ciecamente ottimista, moralmente accomodante ed abulica; è gioiosa ma non gaudente.
È questo l'aspetto più avversato dalla mentalità moderna, che aspira ad una vita piena, comoda, spontanea, gaudente.
Considera il cristiano un essere inibito e scrupoloso, escluso dalle esperienze più forti, che sono di solito quelle delle libere passioni, estraneo alle correnti impetuose della moda spregiudicata, sia nel pensiero, che nella condotta.
Il cristianesimo, secondo questo diffuso modo di pensare, può essere apprezzabile, sotto l'aspetto umanistico, per l'interiorità delle sue radici operative ( cfr. Croce ), o per la simpatia verso la sofferenza inerme ed oppressa dell'uomo, o per lo spirito d'iniziativa che genera in favore dell'eguaglianza e della fratellanza umana, ma non per i suoi dogmi religiosi e tanto meno per il suo carattere penitenziale.
L'uomo moderno è orientato verso la vita senza rinunce e senza dolore; per la vita sana, igienica, intensa, goduta e felice.
Figli carissimi! accettiamo questo contrasto, specialmente nell'irriducibile opposizione dei suoi principi.
Non possiamo dimenticare la parola del Maestro, quando commentava una disgrazia avvenuta, la caduta della torre di Siloe con l'uccisione di diciotto persone: « Se non farete penitenza, perirete egualmente tutti » ( Lc 13,4-5 ).
E quest'antifona del ravvedimento di sé, della contrizione, del castigo di certe proprie sregolate tendenze, della penitenza e dell'espiazione risuona in tutto il Vangelo; apre al cristianesimo le sue prime conquiste ( cfr. At 2,38; At 11,18; At 17,30; etc. ); informa di sé lo stile della nuova vita cristiana; risuona fortemente e talora cupamente in certe espressioni del cristianesimo medioevale; giunge fino ai tempi nostri, specialmente con alcune osservanze, come il digiuno quaresimale; le fa eco il Concilio ( cfr. Sacr. Conc. n. 9, n. 105, n. 109, n. 110 ); perde i suoi accenti più rigorosi e formali nella recente Costituzione « Poenitemini », ma per riaffermarsi in indulgenti espressioni consone alle condizioni della vita moderna, non però meno esigenti nel suo spirito ed in alcune forme oggi più pratiche, ma sempre sensibili e sincere.
Il bisogno d'orientare decisamente la propria vita verso Dio e verso la sua volontà, la necessità del dominio di sé e della purificazione della propria vita ( cfr. Gaudium et Spes, n. 37 ), la ragionevolezza di una scelta fondamentale che dia figura e valore morale alla propria condotta, l'intima e pressante esigenza di riparare i propri falli ( cfr. l'Innominato del Manzoni ), la segreta attrattiva di avvicinare la Croce di Cristo e di integrare nella propria carne le sue sofferenze ( cfr. Col 1,24 ) fanno ancor oggi, e sempre dove il Vangelo è capito e vissuto, un posto insostituibile alla penitenza nella configurazione ideale dell'uomo nuovo, dell'uomo vero, dell'uomo in cerca di perfezione.
E non deve essere impossibile, anzi nemmeno difficile all'uomo moderno comprendere questa necessità.
L'uomo sportivo, ad esempio, offre a S. Paolo un argomento, che dal campo fisico passa a quello spirituale, e che perciò può rifluire da quello spirituale al campo pratico della vita vissuta: « utti gli atleti si impongono una rigorosa astinenza … » ( 1 Cor 9,24-27 ).
Le cose forti, le cose grandi, le cose belle, le cose perfette sono difficili, ed esigono una rinuncia, uno sforzo, un impegno, una pazienza, un sacrificio.
La penitenza cristiana è per l'uomo nuovo e perfetto.
Cioè è funzionale.
Non è fine a se stessa; non è una diminuzione dell'uomo; è un'arte per restaurare in lui la sua primigenia fisionomia, quella che riflette l'immagine di Dio, come Dio aveva concepito, creandolo, l'uomo ( Gen 1,26-27 ); e per imprimere nel volto umano, dopo l'afflizione della penitenza, lo splendore pasquale di Cristo risorto.
Questo è il nostro umanesimo.
Sembra un paradosso.
Ma esso vince la grottesca deformazione della bellezza umana cercata nella « dolce vita »; scioglie le ferite e asciuga le lacrime, che il dolore ha solcato sulla faccia dell'uomo; ridona alla nostra vita la sicurezza che essa più brama e più le manca, quella della perfezione nell'immortalità.
« Chi ha orecchi per comprendere, dice il Signore, ascolti » ( Mc 4,23; cfr. Mt 19,12 ).
E che a tanto vi aiuti, Figli carissimi, la Nostra Apostolica Benedizione.