16 Ottobre 1968
Diletti Figli e Figlie!
La riflessione sul Concilio, alla quale dedichiamo queste Nostre familiari conversazioni settimanali, s'incontra con un tema difficile, o per meglio dire, impopolare, quello dell'obbedienza nella Chiesa.
È un tema compromesso, in primo luogo, dall'aura di libertà che soffia in tutta la mentalità moderna, contraria alle limitazioni e alle costrizioni della spontaneità e dell'autonomia della persona umana, e anche dei gruppi associati in confronto con un'autorità esteriore; e compromesso, in secondo luogo, dall'apologia della libertà, nei suoi vari aspetti di libertà personale, come esigenza della dignità umana ( cfr. Gaudium et spes, n. 17 ), di libertà dei figli di Dio ( cfr. Sir 15,14-15 ), proclamata dal Vangelo ( cfr. Gaudium et spes, n. 41 ), di libertà di conversione ( cfr. Ad gentes, n. 13 ), di libertà della Chiesa ( cfr. Dign. humanae, n. 13 ), di libertà nella Chiesa ( cfr. Lumen Gentium, n. 37 ecc. ), di libertà religiosa nell'ambito degli ordinamenti civili ( cfr. Dign. humanae ), di libertà di ricerca scientifica, libertà d'informazione, libertà d'associazione, ecc. ( cfr. Gaudium et spes ); apologia che troviamo disseminata nei documenti conciliari.
Come si fa a parlare di obbedienza dopo tutte queste affermazioni, tanto conformi allo spirito umano, alla maturità della psicologia contemporanea, allo sviluppo della società civile, alle insofferenze disciplinari delle nuove generazioni?
Perfino il nome di « obbedienza » non è più tollerato nella conversazione moderna, anche là dove, per forza di cose, ne sopravvive la realtà: nella pedagogia, nella legislazione, nei rapporti gerarchici, nelle norme militari, e così via.
I termini di personalità, di coscienza, di autonomia, di responsabilità, di conformità al bene comune … prendono la prevalenza; e, come si sa, non è soltanto un cambiamento di parole quello offerto, a questo riguardo, dalla nostra società, ma un cambiamento profondo di idee, ed ora, con quali fatti e con quali avvenimenti, piccoli e grandi, ciascuno sa.
Perché l'obbedienza comporta un duplice elemento esteriore al singolo individuo, o al singolo gruppo: ascoltare un'altra voce che non la propria, ed agire in conformità a questa voce, che suona comando, che attesta un'autorità, che piega l'uditore a un modo di pensare e di fare di cui egli non è l'autore e di cui spesso non vede il perché.
L'eccessiva valutazione dei criteri soggettivi non riesce più a comprendere come un altro criterio estrinseco, l'autorità, abbia titolo per interferire nella spontanea e naturale espressione d'un essere o d'un gruppo umano.
Filosofi di ieri, fanno ancora da maestri a quelli di oggi, i quali non indietreggiano davanti alle estreme conseguenze della contestazione, della ribellione e perfino dell'anarchia e del nichilismo.
Se ne sono vedute alcune violente applicazioni proprio in questi ultimi tempi.
E quasi non bastasse a screditare l'obbedienza presso le giovani generazioni, con le negazioni, più o meno radicali, di quella antica virtù civile e cristiana, si moltiplicano le affermazioni esagerate e intollerabili; quelle dell'oppressione totalitaria, imposte con evoluti sistemi di forza e di legalismo poliziesco, e quelle dell'imposizione pubblicitaria, introdotta dai formidabili mezzi di comunicazione « di massa », come ora si dice, accolta insensibilmente e simultaneamente da docili milioni di clienti aderenti a ciò che leggono, a ciò che ascoltano, a ciò che vedono.
Deve l'uomo moderno obbedire così?
Non è questa invasione di voci, di idee, di esempi, di mode, di concertazioni simultanee una servitù, un'obbedienza, inavvertita e gradita, se volete, che diminuisce e avvilisce l'autonomia della personalità?
E se dal campo profano passiamo a quello religioso, e precisamente a quello della nostra vita cattolica, non è anch'essa dominata da un dogmatismo che soffoca la libertà di pensiero e di coscienza?
Quante cose sarebbero da dire anche a questo riguardo, e proprio per le recenti ripercussioni suscitate da determinati atti del magistero ecclesiastico: qual è la sua competenza? qual è la sua autorità? qual è la sua stabilità?
Non parleremo di questo amplissimo tema, che esige, per non essere deformato, trattazione assai ponderata e adeguata, che non vediamo ora possibile.
A Noi ora premerebbe lasciare in voi, Figli carissimi, che assistendo a questo incontro e ascoltando queste umili parole già fate omaggio alla cristiana virtù dell'obbedienza, lasciare in voi, diciamo, un concetto riabilitato di questa virtù.
Avremmo tante cose da dire sul relativo primato di essa ( cfr. S. Th. II-IIæ, 104, 3 ): non è l'obbedienza in stretta parentela con l'ordine particolare e universale?
Con l'equilibrio e l'armonia di qualsiasi società? Col bene comune?
Col superamento delle debolezze e inettitudini individuali e col raggiungimento di buoni risultati collettivi e sociali?
Dove finirebbe la legge, l'autorità, la comunità, se non vi fosse il culto dell'obbedienza?
E nell'ambito ecclesiastico, che ne sarebbe dell'unità di fede e di carità, se una cospirazione di volontà, garantita da un potere autorizzato, lui stesso obbediente al volere superiore di Dio, non proponesse ed esigesse una consonanza di pensiero e di azione?
E tutto il disegno della nostra salvezza non dipende da un libero e responsabile esercizio dell'obbedienza?
Che cosa è il peccato, se non una disobbedienza al comando divino, e che cosa è la nostra salvezza se non un'adesione umile e gioiosa al piano misericordioso, che Cristo ha instaurato per chi a Lui obbedisce, come discepolo, come fedele, come testimonio?
Non potremmo contemplare in sintesi di obbedienza la nostra professione cristiana, la nostra inserzione nella Chiesa, la nostra integrazione, santificante e beatificante, nella volontà di Dio?
Il « fiat » che diciamo ogni momento nella nostra preghiera: « Sia fatta la tua volontà », non è l'atto più consueto e più completo della nostra obbedienza al supremo e intimo comando divino?
E non sarebbe facile determinare il felice rapporto che esiste fra la vera obbedienza e la libertà, la coscienza, la responsabilità, la personalità, la maturità, la forza naturale, e ogni altra prerogativa della dignità umana, come ogni nostra onorevole e funzionale posizione nella comunità ecclesiale, solo che ci bastasse la pazienza di riandare i titoli legittimi, le esigenze ed i limiti, dell'obbedienza, quale la Sacra Scrittura e l'autentica dottrina della Chiesa ci descrive?
E come potremmo parlare ancora di pace senza riferirci al principio che produce, dentro e fuori di noi, quell'ordine che appunto genera e assicura la pace, l'obbedienza, cioè?
Oboedientia et pax: formula cara al ven. Cardinal Baronio, e poi al Papa Giovanni XXIII, autore dell'Enciclica Pacem in terris ( cfr. Pr 21,28 ).
Sì, avremmo tante cose da dire su questo tema.
Si è scritto tanto su di esso, anche in questi ultimi anni ( si veda, ad esempio, una nota bibliografica al termine dello studio di Tullio Goffi, Obbedienza e autonomia personale, Ancora, Milano 1967 ).
Ma ora una cosa sola diremo; ed è il mistero dell'obbedienza in Cristo nostro Signore ( cfr. Adam, Cristo nostro Fratello, II ); mistero irradiante da tutto il Vangelo, mistero che definisce Lui nostro Salvatore ( cfr. Mt 11,25; Gv 6,37; Mt 26,39; Rm 5,19; Fil 2,8; etc. ); e mistero, che a noi si partecipa, in modo che da « questo aspetto fondamentale dell'obbedienza non solo a Cristo, ma di Cristo a noi comunicata, scaturisce il senso cristiano dell'obbedienza » ( Lochet ).
Potremmo proseguire, e godere della scoperta dell'equivalenza che, a questo livello, l'obbedienza acquista con l'amore.
Vi sarebbe tutto da dire del nuovo stile, nell'identica sostanza, che l'obbedienza acquista nella Chiesa in seguito agli insegnamenti del Concilio; un cenno vi abbiamo fatto Noi stessi nella Nostra prima Enciclica Ecclesiam suam.
Sigilliamo tutta questa dottrina, questa nuova pedagogia, questa nuova pratica dell'obbedienza, con la memoria dell'esortazione, che l'Apostolo Pietro, dal cui sepolcro Noi ora vi parliamo, intimava ai primi cristiani: « Nella rivelazione di Gesù Cristo ( comportatevi ) come figli di obbedienza » ( 1 Pt 1,13-14; Eb 13,17 ).
Questo per la vostra dignità di cristiani, per la vostra fedeltà, per la vostra felicità, con la Nostra Benedizione Apostolica.
Salutiamo con particolare riguardo i Superiori e i Membri della Congregazione dei Missionari di San Carlo, che tutti conoscono sotto il nome di Scalabriniani, presenti a Roma per un loro corso di aggiornamento e per la posa della prima pietra dell'edificio, che sorgerà a Roma come sede del Seminario di questa benemerita Congregazione, la quale si accinge a celebrare l'ottantesimo anniversario della sua fondazione.
L'occasione Ci è propizia per rendere onore alla memoria del fondatore di questa Famiglia religiosa, dedicata all'assistenza religiosa degli Emigranti Italiani, Monsignor Giovanni Battista Scalabrini, Comasco d'origine, Vescovo di Piacenza, morto nel 1907, lasciando di sé grande ricordo, specialmente per le sue vedute circa la posizione del Papato nello Stato Italiano e circa la partecipazione, allora sospesa, dei cattolici alla vita pubblica del loro Paese.
Ma l'opera sua rimane legata alla Congregazione dei Missionari di San Carlo e alla Società di San Raffaele, ambedue rivolte al bene, come dicevamo, degli Emigranti, specialmente nelle due Americhe.
Opera provvidenziale, parallela a quella d'un altro grande Vescovo, Monsignor Geremia Bonomelli; opera preveggente e benemerita verso tanti Lavoratori, esuli in cerca di lavoro e di qualche benessere e abbandonati allora alla misera sorte di stranieri, esposti a tutti i pericoli morali e sociali di ambienti sconosciuti e spesso inospitali.
Auguriamo perciò a questi valorosi Missionari di perseverare nello spirito e nella fatica dell'opera scalabriniana, sviluppandone l'efficienza sia religiosa che morale e sociale.
Vada ai presenti, ai loro confratelli ed a tutti gli Emigrati da loro assistiti, come pure alle comunità, a cui giunge il loro ministero, il Nostro benedicente saluto.
Sono presenti a questa Udienza i Partecipanti ad un corso di specializzazione, promosso dai e per i Dirigenti dei Patronati ACLI, cioè delle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani; e con loro sono pure alcuni loro Colleghi provenienti da altre Nazioni.
Li salutiamo di cuore.
Che cosa siano i Patronati delle ACLI tutti sanno: sono organi speciali di queste medesime Associazioni per assistere i lavoratori in tutte le loro necessità ( all'infuori di quelle sindacali ).
La società moderna è molto complessa, possiede tante opere e provvidenze, tanti organismi e tante iniziative, in favore dei lavoratori, i quali sono presi ed angustiati da tante assillanti necessità, e sono spesso senza guida e senza assistenza, non solo per mancanza di mezzi, ma anche per mancanza di pratica e di tempo.
L'assistenza del Patronato merita lode e sostegno, innanzi tutto perché è opera di fratelli a fratelli, di colleghi a colleghi, tutta pervasa di quel senso di umanità e di spiritualità, che più propriamente noi chiamiamo carità, grande, nobilissimo nome, che ci introduce nel cuore del mistero cristiano.
E merita lode e sostegno l'opera del Patronato ACLI perché intelligente, competente, moderna, addestrata alle arti delle relazioni umane dell'odierna società, dove, senza una specifica preparazione e senza un po' di cuore, il lavoratore può trovarsi irretito dalle complicazioni burocratiche e dalle difficoltà formali, che gli impediscono di accedere a quelle stesse istituzioni che sono state concepite e promosse in suo favore: così dicasi, ad esempio, della previdenza, delle assicurazioni sia di malattia, che d'infortunio o di vecchiaia, sia per il lavoratore, che per la sua famiglia; dicasi dell'istruzione professionale, del risparmio, della disoccupazione, e così via.
Esprimiamo pertanto la Nostra compiacenza vedendo fiorire una attività, che sempre abbiamo seguito con interesse e favore, ed incoraggiamo quanti, con spirito umano e cristiano, vi dedicano cure, tempo e contributi.
È opera, è esempio, è speranza che di cuore benediciamo.