L'ebraico: la lingua della Bibbia

L'ebraico fa parte di una numerosa famiglia di lingue che, dalla fine del sec. XVIII, sono chiamate lingue semitiche.

Semitiche erano le lingue parlate in Mesopotamia come il babilonese e l'assiro, ma è una lingua semitica anche l'arabo antico e quello di oggi, che ha con l'ebraico notevoli somiglianze.

Gli studiosi classificano le diverse lingue semitiche raggruppandole in tre aree geografiche: orientale, nord-occidentale e meridionale.

La prima si identifica con la Mesopotamia, mentre la terza comprende Arabia ed Etiopia.

L'ebraico fa parte della seconda, cioè dell'area nord-occidentale che va dalla costa mediterranea fino all'Eufrate.

Nel corso del primo millennio a.C. una delle lingue semitiche nord-occidentali, l'aramaico, diventerà a poco a poco la lingua internazionale di tutto l'antico Vicino Oriente e sarà usata come lingua ufficiale nell'impero persiano.

All'interno dell'area nord-occidentale esistevano molte lingue o dialetti semitici, come, per fare un esempio, l'ugaritico, cioè la lingua adoperata nella città di Ugarit, in Siria, oppure la lingua di Ebla, di cui archeologi italiani hanno recentemente scoperto e decifrato testi risalenti fino alla metà del terzo millennio.

L'ebraico fa parte di un sottogruppo dell'area semitica nord-occidentale, il cananeo, in cui vengono comprese lingue e dialetti parlati nella terra di Canaan e nelle regioni limitrofe.

Fanno parte del semitico cananeo il fenicio ( si distingue con il nome di punico il fenicio delle colonie come quello di Cartagine ), il moabitico, l'ammonitico ( dei quali abbiamo testimonianza in poche iscrizioni ) e, appunto, l'ebraico.

Soprattutto nella lingua parlata esistevano ulteriori differenze tra l'ebraico della Giudea e quello delle regioni settentrionali, ma ci manca la possibilità di decidere se si trattasse di dialetti veramente distinti.

L'affinità esistente tra queste diverse parlate rendeva possibile alle persone più istruite di capire e anche di parlare con facilità varie lingue del medesimo gruppo, mentre la gente meno colta conosceva bene soltanto il proprio dialetto.

Di questa situazione, che non è dissimile da quanto si verifica oggi nell'ambito di lingue e dialetti neolatini, vi è un'interessante testimonianza biblica in 2 Re 18,26-28.

Il gran coppiere del re d'Assiria cerca di abbattere il morale della popolazione di Gerusalemme assediata, che lo ascolta dall'alto delle mura, pronunciando minacce nell'ebraico della Giudea e il maggiordomo del re di Giuda lo prega invano così: « Parla ai tuoi servi in aramaico, perché noi lo comprendiamo, ma non parlarci in ebraico [ letteralmente: in giudeo ], capito dal popolo che si trova sulle mura ».

È una prova che l'aramaico, originariamente parlato nella Siria settentrionale, stava già diventando ( siamo nel 701 a.C. ) la lingua delle relazioni internazionali, era noto alle classi più elevate ma non compreso dalla gente comune.

Due secoli e mezzo dopo, al tempo di Neemia, sarà l'opposto: gli Ebrei reduci dall'esilio o figli di madri non ebree « parlavano la lingua di Asdod oppure la lingua di questo o quel popolo, ed erano incapaci di parlare la lingua giudaica » ( Ne 13,24 ).

L'ebraico è una lingua molto diversa dalle nostre.

Si scrive da destra a sinistra e ha un suo alfabeto di 23 lettere, che deriva, come il nostro, dagli antichi segni della scrittura fenicia.

Verso il 200 a.C. si diffuse una forma molto accurata di scrivere le lettere che poi si standardizzò nella cosiddetta scrittura « quadrata », che dura praticamente inalterata fino a oggi, anche se nel neoebraico dello Stato d'Israele si è diffusa una più rapida scrittura corsiva.

Le lettere sono tutte consonanti, le vocali infatti non è necessario scriverle: l'ebreo che legge, comprendendo il senso, le introduce al posto giusto.

È però possibile aggiungere sotto o sopra le consonanti dei segni formati da combinazioni di lineette e puntini che indicano le vocali.

Nella Bibbia ebraica, per evitare indebite modifiche del testo, le vocali vengono scritte con questo metodo.

Le parole ebraiche si formano a partire da una radice solitamente costituita da tre consonanti.

Mediante l'inserimento di vocali, l'eventuale raddoppiamento di una consonante, l'aggiunta di prefissi o suffissi, rispettivamente prima e dopo, si formano tutti i vocaboli derivabili dalla radice nonché le varie forme del nome e del verbo.

Conoscendo il senso fondamentale della radice si può facilmente rendersi conto del senso delle forme da essa derivate.

Molte frasi semplici si possono formare senza bisogno del verbo: il semplice accostamento « Io Signore » basta per dire « Io sono il Signore ».

Con le modifiche di una sola radice verbale si può esprimere l'azione in forma normale, riflessiva, intensiva, causativa.

Per dire, ad esempio, « offendere » si può usare la forma causativa del verbo « essere addolorato » che significa rendere addolorato.

I tempi del verbo sono due e, più che il tempo, indicano la natura dell'azione o dello stato, cioè il verificarsi momentaneo oppure la permanenza dell'effetto.

Questo spiega perché si possono trovare traduzioni ugualmente corrette in cui un verbo ebraico viene reso con tempi diversi: un presente, un passato o magari un futuro.

Non si deve però pensare che l'ebraico sia una lingua imprecisa o approssimativa: semplicemente è diversa dalle nostre e la traduzione deve cercare spesso un'equivalenza complessiva dell'intero periodo e non può accontentarsi di trasferire in lingue occidentali una parola dopo l'altra.

E questo vale peraltro anche per l'arabo che ha lessico, grammatica e sintassi analoghe a quelle dell'ebraico.

L'ebraico è una lingua molto concreta: per dire « me stesso » l'ebreo può dire naphshì, letteralmente la mia gola, il mio respiro e, quindi, il mio io.

La parola citata, nephesh, è un esempio tipico, perché dal senso base di gola arriva fino a un livello di senso che giustamente, in molte traduzioni, è stato reso con « vita » e perfino con « anima ».

Gs 8,20 scrive che « non vi erano per loro mani per fuggire da una parte o dall'altra », e quel mani sta per l'astratto « possibilità ».

Tutte le parti del corpo hanno questa doppia valenza, per cui possono indicare il sentimento o l'attitudine personale di cui sono il simbolo fisico: le mani, il cuore, i reni, i piedi, il respiro.

Corto, lungo, alto, stretto il respiro ( mach in ebraico ) indica agitazione, generosità, alterigia, apprensione.

Il cuore di pietra contrapposto al cuore di carne del famoso testo di Ez 36,26 è una metafora, anche per noi chiarissima, per indicare una coscienza sorda e morta e uno spirito vivo e intelligente.

Senza aggiungere altri esempi, basterà rileggere le descrizioni della bellezza maschile e femminile nel Cantico dei Cantici per rendersi conto del genio tipico della lingua ebraica nel dare senso metaforico a tutti gli aspetti della condizione umana.

È tipico della lingua ebraica, specialmente della poesia, il parallelismo, cioè la ripetizione variata di un precedente enunciato, in modo da far procedere il discorso ritmicamente, come un succedersi di onde, dando così all'esposizione un andamento meditativo, particolarmente adatto alla riflessione sapienziale, alla preghiera, ma anche alla perentorietà sia della promessa sia della minaccia.

Il parallelismo può essere una vera ripetizione con sinonimi, l'aggiunta della negazione dell'opposto, il completamento in un secondo verso del precedente o, infine, una specie di crescendo che può anche dilungarsi per più versetti.

Il carattere concreto della lingua ebraica è una delle ragioni per cui nella Bibbia predominano le immagini e i simboli anche quando si parla di Dio e delle sue relazioni con il mondo.

In gran parte i simboli biblici provengono direttamente dall'esperienza del vissuto quotidiano, qualche volta possono essere prestiti letterari che riprendono espressioni usate in testi già in uso presso popolazioni linguisticamente imparentate come i Cananei.

Per dire la fedeltà di Dio si usa l'immagine della roccia; per indicare una salvezza sicura quella della sorgente o della terra irrigata.

Ma due sono i simboli più importanti, anch'essi presi dalla vita reale: quello del rapporto coniugale e quello del rapporto di alleanza, entrambi usati per indicare la relazione tra Dio e il popolo.

Il primo viene dall'esperienza primordiale dell'amore, della famiglia, del valore della fedeltà di coppia.

Nel mondo cananeo era usato in senso fisicistico-sessuale e, più che un simbolo, era l'attribuzione alla divinità di vere e proprie potenzialità di ordine analogo a quello sessuale.

Nella Bibbia invece rimane sempre un'immagine, che rispetta l'assoluta diversità di Dio da ogni creatura, e privilegia la dimensione dell'interpersonalità.

Il simbolo dell'alleanza viene dall'esperienza sociale e politica della dipendenza feudale da un grande re e mette in risalto i valori della mutua fiducia, della lealtà, dell'impegno.

Una caratteristica comune della simbologia biblica in campo religioso è di essere, diremmo oggi, a misura d'uomo.

La Bibbia rifugge da immagini stupefacenti di Dio, smisurate e terrificanti: per dire la sua grandezza non ricorre all'esagerazione, ma alla profondità delle componenti più significative dell'interpersonalità: la fedeltà, l'amore, il buon governo, l'attenzione severa e preveggente del giudice.

La Bibbia, anche se non rifugge dai simboli del fuoco, del tuono, del terremoto, che usa peraltro solo come scenografie di contorno, valorizza soprattutto le esperienze umane per creare immagini di Dio.

Pensa alla prontezza della mano che soccorre o dell'occhio che vede per intervenire, al cuore che decide o alle viscere che si commuovono, all'amore degli sposi, alla lealtà del re e dei suoi servitori.

In questo senso, tranne in alcuni rari casi, rifugge dal mito che ingrandisce a dismisura e rimane nell'area del simbolo e dell'immagine.

Il culmine di questa dimensione simbolica si ha quando la Bibbia privilegia la parola come la più alta e vera immagine della volontà divina di relazione con gli uomini.

Il simbolo più frequente è quello di Dio che parla e con esso la Bibbia sottintende che Dio è aperto alla sincera e impegnativa comunicazione del suo interiore progetto: la sua grandezza sta nella volontà di essere per l'uomo la somma libertà che apre con la promessa, impegnativamente enunciata in parole, la possibilità per l'uomo di una responsabile risposta di leale amore.