La liberazione dall'Egitto

Fonti; canto di Myriam ( Es 15,21 ); racconti relativi all'Esodo ( Es 1-14 ).

Nelle professioni di fede del Deuteronomio ( Dt 6.26 ) incontriamo l'affermazione secondo cui gli antenati d'Israele furono asserviti e oppressi dagli Egiziani, ma vennero liberati da Yahweh «con mano potente e con braccio teso, fra prodigi grandi e terribili».

Dimora e oppressione in Egitto vanno inquadrate nel contesto delle condizioni di vita di pastori seminomadi che mutavano periodicamente i propri pascoli.

Durante l'inverno, quando in Palestina le precipitazioni erano scarse o mancavano del tutto, scoppiavano inevitabilmente delle carestie; nella stagione secca, conseguentemente, la terra non poneva più offrire alcun sostentamento alle popolazioni seminomadi provenienti dal deserto.

Non rimaneva allora che un'unica via di scampo, e cioè migrare nella fertile valle del Nilo, la cui fertilità non dipendeva dalle piogge.

Questa è la situazione presupposta in alcuni passi dei racconti dei patriarchi ( Gen 12,10 ss.; Gen 26,1 ss.; Gen 42,1 ss.; Gen 43,1 ss.; Gen 46,1 ss. ).

Fu in circostanze analoghe che gli antenati d'Israele giunsero in Egitto.

Avvenimenti del genere sono documentati da fonti egizie: un'iscrizione risalente al 1350 circa riferisce che un gruppo di seminomadi «che non sapeva dove vivere, venne a chiedere una sede nel territorio del faraone»; intorno al 1200 un funzionario di confine egiziano comunica al suo superiore di aver concesso a tribù di beduini provenienti dalla steppa di passare le fortificazioni di confine, «per mantenere in vita se stessi e le loro bestie nel grande possedimento del faraone, LI buon sole di ogni terra».

Ora, poteva accadere che dei gruppi di seminomadi che cercavano di sfuggire alla carestia rifugiandosi in Egitto venissero impiegati in lavori gravosi e fossero trattenuti contro la loro volontà come manodopera a buon mercato.

La cosa è confermata dal fatto che gli antenati degli Israeliti che lavoravano come servi in Egitto venivano indicati col termine di «Ebrei» ( Es 2,11.13 ).

Incontriamo l'appellativo di «Ebrei» in testi egizi nella forma «'pr» e in documenti mesopotamici nella forma «Habiru», mentre in forme simili esso ricorre in testi hittiti e ugaritici.

Tale appellativo non indica, in nessuna di queste fonti, un organismo nazionale o etnico, bensì essenzialmente una categoria sociale, e cioè gruppi di seminomadi che avevano uno stato giuridico inferiore e dovevano lavorare al servizio di altri.

In una lettera egizia risalente al XIII secolo a.C. si parla, per esempio, di Ebrei «che trascinavano pietre per la grande colonna di Ramses Miamun».

Dalle concrete indicazioni di Es 1,11, secondo cui gli antenati degli Israeliti vennero impiegati nella costruzione delle città di Pithom e di Ramses, possiamo desumere che il faraone della servitù fu Ramesse II ( 1301-1234 ); da scavi archeologici e notizie letterarie apprendiamo inoltre che la costruzione di queste città fu portata a termine al tempo di Ramesse II, ma che prima e dopo d'allora esse furono scarsamente popolate.

È un'antichissima professione di fede, spesso ricorrente nell'Antico Testamento, quella secondo cui fu Yahweh a liberare Israele dall'Egitto.

Essa è contenuta, per esempio, nella nota introduzione al decalogo, i dieci comandamenti: «Io sono Yahweh, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù» ( Es 20,2 ).

I tre documenti del Pentateuco sono concordi circa gli elementi fondamentali del racconto, ma presentano i fatti in modo differente per quanto concerne i particolari.

Troviamo quella che è la versione storicamente più antica dell'evento dell'Esodo in una notizia fornitaci di passaggio dall'elohista, secondo cui gli antenati d'Israele riuscirono a sottrarsi, con la fuga, alla servitù in cui erano tenuti dagli Egiziani ( Es 14,5 a ).

Tutti i documenti del Pentateuco narrano che i fuggiaschi furono inseguiti da un reparto di carri da combattimento egiziano, che «presso il mare» si trovarono in una situazione senza via d'uscita, e che li salvò dalla mano degli Egiziani un prodigio compiuto da Yahweh.

Questo salvataggio presso il mare costituisce il contenuto del cosiddetto canto di Maria, che è da annoverare fra il più antico materiale innico e fra le parti più antiche dell'Antico Testamento in generale: «Cantate a Yahweh / perché ha mirabilmente trionfato: / ha gettato in mare / cavallo e cavaliere!» ( Es 15,21 ).

Nelle fonti del Pentateuco lo svolgimento di questo evento viene diversamente rielaborato.

Secondo il jahvista la colonna di fumo e di fuoco si frappose come uno schermo fra Israeliti ed Egiziani; durante la notte Yahweh prosciugò il mare con un forte vento da est, e al mattino precipitò gli Egiziani nel terrore e nella confusione, tanto che questi, fuggendo in direziono del mare, perirono nelle onde che rifluivano ( Es 14,9b.20.21a/b.24.25b.27b ).

L'elohista narra che l'angelo di Dio si frappose tra Israeliti ed Egiziani, e che questi ultimi furono impediti in modo misterioso dal proseguire il cammino ( Es 14,19a.25a ).

Il carattere miracoloso dell'episodio è accresciuto al massimo nel documento sacerdotale: Dio ha diviso il mare, così che le acque stanno da ambo i lati come muri.

Gli Israeliti attraversarono il mare con piede asciutto, mentre le acque precipitarono all'improvviso sugli Egiziani lanciati al loro inseguimento ( Es 14,22.23.26.28.29 ).

Le differenze presenti nel racconto ci fanno capire che i redattori dei documenti non disponevano, sull'argomento, di una tradizione unitaria.

Non è più possibile, basandoci sulle fonti a nostra disposizione, riprodurre nei particolari il modo in cui effettivamente si svolsero i fatti.

Sullo sfondo stanno probabilmente eventi naturali, per cui una catastrofe piombò improvvisa sul reparto di carri da guerra egiziano, mentre i seminomadi in fuga poterono sottrarsi alla morte.

Sulla base della descrizione jahvistica, per esempio, si potrebbe pensare ad un maremoto, che ebbe come conseguenza il sorgere improvviso di una grande ondata; sulla base del frammento del racconto elohistico si potrebbe pensare ad una tempesta di sabbia, che impedì ai carri da guerra egiziani di proseguire l'inseguimento.

Molto più difficile è rispondere alla questione circa la localizzazione del prodigio del mare, poiché le indicazioni delle fonti sono non solo discordi, ma anche assai generiche, e noi non siamo informati sulla geografia dei luoghi di quel tempo.

Il canto di Maria e il jahvista parlano semplicemente del «mare» ( Es 15,21; Es 14,9 ); nell'elohista ( Es 13,18 ) e in altri passi si parla del «mar Rosso» o «mare di canne» ( Dt 2,1; Gs 4,23 e altri ).

Si è pensato al golfo di 'Aqaba, che in 1 Re 9,26, per esempio, è detto «mare di canne».

Altri, più verosimilmente, pensano ad un lago, forse un lago salato, nella regione dell'odierno canale di Suez.

Le precise indicazioni del peraltro recente documento sacerdotale ( Es 14,2 ) ci additano invece la regione del lago sirbonico.