Un importuno beneficio

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Nell'ordine materiale più si approfondiscono studi ed esperienze, più si scoprono meraviglie.

Nell'ordine soprannaturale lo stesso fatto si verifica in ancor più larga misura.

Nel primo campo si vengono a conoscere sempre meglio le paterne sollecitudini di Dio creatore per l'uomo, costituito da Lui re del creato.

Nel secondo si penetra sempre più nei misteri ineffabili ed inesauribili dell'amore increato, che ha fatto l'incredibile, diciamo così, per l'uomo, fino a sposarne la natura.

Molto tempo prima che il Verbo si facesse carne, era stato predetto che, al suo avvento, erunt prava in directa et aspera in vìas ptanas; tra le varie forme di avveramento di questa profezia, trovasi pure quella cui intendiamo accennare: il rimorso.

Al solo sentirne il nome, si prova una stretta al cuore, sia perché esso presuppone facilmente l'offesa di Dio, sia perché è risaputo quale disagio mantenga in chi ne è roso.

Eppure, spogliato della ruvidissima corteccia con cui abitualmente si presenta, il rimorso procura tali e tanti vantaggi, da suscitare in noi una speciale riconoscenza al Signore, che volle celare nel fondo così misterioso della nostra povera natura malata questa riserva, questa risorsa felice, questa molla possente, destinata a condurre al pentimento, all'umiliazione, al ravvedimento, alla stessa più alta perfezione.

Il rimorso, dunque, che cosa suppone? Come si risveglia?

Come si può utilizzare questo importuno perché sia benefico?

Che cosa suppone il rimorso?

Il rimorso suppone una colpa, vera o apparente.

Vera, se sarà stato provocato da una ribellione grave o veniale a Dio; apparente, se questa ribellione, formale o materiale, non esiste in realtà, ma solo si teme sia esistita, causa errore o scrupolo di coscienza.

Tra la colpa vera e quella apparente si intercala l'imperfezione, la quale rivela una parziale deficienza di cognizione o di volontà, o di tutte e due insieme, in qualsiasi atto morale imputabile, sia nell'evitare il male, sia nel fare il bene, il meglio, l'ottimo.

A dir breve: il rimorso tosto comincia a rodere l'anima, appena questa si crede caduta in qualche colpa, oppure crede di avere mancato di generosità o di delicatezza nel servizio di Dio.

Orbene: dato il nostro stato presente naturae lapsae, il provare rimorsi grandi, mediocri o leggeri, sarà sempre un retaggio comune, finché avremo a peregrinare in questo mondo di miserie.

Nessuno potrà mai coscientemente dire: io non ho mai provato alcun rimorso - e se osasse fare una simile affermazione, sarebbe qualificato per mendace dallo stesso discepolo prediletto di Gesù.

Lasciando queste sintetiche premesse a tutti note, veniamo al punto più importante.

Chi risveglia in noi il rimorso?

Certo non la nostra povera natura ingegnosissima sempre nel trovare scuse, giustificazioni, attenuanti così come seppero fare i nostri progenitori, commesso appena il fallo primo, come fu pronto Adamo a rovesciare la colpa su Eva e questa sul serpe! …

Forse il demonio allora? No, che a lui suscitare rimorsi non torna; troppo preferirebbe, maledettamente la continuazione nella colpa.

Capacissimo poi, a rimorso ridestato, di sfruttarne l'amarezza a modo suo, per far precipitare infelicemente l'anima nel baratro della disperazione.

Chi sarà dunque, l'autore del rimorso, se non quel Dio, padre amantissimo, che troppo soffrendo ( diciamo così ) del nostro male morale ama richiamarci senza indugio sulla retta via, ancorché non avessimo deviato che d'un piede?

Egli potrà servirsi benissimo di questa o quella creatura visibile o invisibile; ma - in sostanza - è sempre il suo occhio, uso a scrutare corda et renes, che noi dobbiamo la salutare scossa, denominata rimorso, con la quale Egli intende spronarci a rimediare sollecitamente al mal fatto e a mai più sprecare, se fosse possibile, né un attimo della nostra esistenza quaggiù, né un palpito del nostro cuore!

La provenienza, dunque, e la finalità del rimorso ridestato da Dio in noi, ce lo collocano nella sua vera luce, rendendolo apprezzabilissimo; anzitutto perché esso è inteso a tenerci costantemente presente la nostra nullità e miseria, originale e acquisita alimentandone nel nostro intimo la convinzione.

E se questa miseria è amata, finirà per profumarci lo spirito di umiltà e prepararci a nuove e maggiori grazie.

Come si deve utilizzare il rimorso?

Il lettore ha già compreso che qui si intende di parlare del rimorso non soltanto nelle sue larghe proporzioni, ma ancora in quelle più lievi, ordinarie, di ogni giorno, comuni a tutti, anche nelle anime più elette, le quali avendo più acuta vista interiore ed essendo chiamate ad un grado più alto di santità, devono appunto passare attraverso ad una purificazione particolarmente minuta, radicale affatto.

Quando si legge che un S. Giovanni della Croce, di austerissima e ostinatissima mortificazione, esterna ed interna, di fronte alla morte, colla più sentita, amara convinzione afferma: « Non trovo nella mia vita un azione completamente pura », non si può a meno di ripetere a se stessi: Se così esclamava quel legno verde, che cosa non potrò ripetere io legna secca, che rassomiglio al santo come la notte al giorno?

V'ha, forse, alcuno al mondo che non abbia a far eco alla confessione di Giobbe: « Verebar omnia opera mea? »

Come ci diporteremo, dunque, di fronte a questo censore interno, estemporaneo ed impreteribile sempre?

Se non vogliamo contristare lo Spirito della grazia che è in noi, guardiamoci bene dall'impugnare la verità conosciuta, sia pure davanti al semplice tribunale della nostra coscienza; arrendiamoci piuttosto, prontamente e cordialmente ai suoi giusti reclami, coll'umiliarci, col pentirci, col ripromettere e confidare.

Umiliarci: accettando la vergogna, la pena che conseguono ad ogni colpa, non solo ma ancora ad ogni imperfezione.

L'una e l'altra ci fanno soffrire; accettiamole insieme alla stessa imperfezione quale giusta punizione perché siamo cattivi, od anche solo meno buoni di quanto dovremmo essere, dopo tante grazie ricevute.

Rileviamo subito che umiliarsi non vuol dire avvilirsi; là c'è virtù, qui c'è ignoranza c'è superbia della più detestabile specie.

Umiliarsi ed avvilirsi sono due cose, per quanto simili, affatto opposte, sia nei motivi che le determinano, sia negli effetti cui danno origine.

Chi si umilia per le sue cadute reiterate, per le sue imperfezioni sempre nuove, è come chi ripete fra sé: da me solo non sono proprio capace a nulla: me ne rincresce perché i miei falli dispiacciono a Dio e non tornano certo di edificazione al prossimo; ma in quanto alla vergogna che procurano a me, ne sono soddisfatto.

Non voglio più tenermi in credito alcuno; voglio esclusivamente confidare nel soccorso del buon Dio.

Invece chi si avvilisce ripete: È inutile che ancor mi c'impegni; troppe volte ho dovuto constatare la mia inettitudine; la strada della perfezione non è fatta per me.

Ritira la mano dall'aratro a solco appena incominciato e poi? …

Quanto questo sbaglio è frequente! Quanto è rovinoso!

Abbiamo detto che il perdersi di coraggio, causa la propria debolezza, è ignoranza.

Difatti, ciò significa che non si è persuasi della propria nullità e miseria.

Di più lo scoraggiamento è superbia della più detestabile specie, ripetiamolo pure, perché rivela un certo dispetto della propria miseria e nullità, mentre all'opposto la vera umiltà è amore della propria abbiezione, il che costituisce il primo gradino dell'umiltà.

C'è forse qualcuno, in via ordinaria, che appena fatto un proponimento, riesca subito sempre a metterlo in esecuzione?

Ma se la perfezione, nella vita presente, non è altro che un jugis conatus ad perectionem, come insegna S. Bernardo!

Perciò, si voglia o non si voglia, è necessario adattarvisi!

Il fatto è confortato da tutto un cumulo di ragioni teologiche.

In primo luogo c'è da tener presente che per giungere alla cognizione di Dio e alla unione con Lui è giocoforza passare per la cognizione di noi stessi: nulla e miseria.

Bisogna, però, pervenire alla cognizione verace di noi, non già in teoria soltanto, ma per pratica convinta, a fondo.

La cosa si comprenderà meglio venendo all'analisi psicologica dell'anima che risolve di allontanarsi dal male per dedicarsi tutta al bene oppure meglio ancora di quella che, già buona, vuole ascendere alla perfezione.

L'anima illuminata dalla luce della grazia vista la deformità del peccato o della tiepidezza, si pronuncia risoluta: « Dixi nunc coepi » e per poco, pur non essendo che agli inizi, crede già di aver raggiunta la meta dorata.

Invece, fatti pochi passi, eccola di nuovo a terra.

Chissà perché? si domanda - ero pur risoluta!

Ritenta forse la prova, ma ai fatti le pare di trovarsi sempre allo stesso punto.

Come si spiega la dolorosa disdetta?

L'anima, sentendosi così ben animata, credeva di potere quanto voleva, perciò stesso che lo voleva seriamente.

La poverina, però, aveva fatto i conti senza l'oste!

Il suo errore è tutto qui: a sua insaputa si fidava delle proprie forze; ma siccome queste non sono sufficienti a nessuno, per conseguenza naturale s'è arenata.

Ella non pensava che se per risolversi a compiere un bene occorrono la luce e l'eccitamento della grazia, l'una e l'altra sono egualmente necessari per cominciare, proseguire, completare l'opera santa; in altre parole occorre una nuova grazia ad ogni minimo passo nel bene.

Le numerose fallite sono semplicemente necessario per toglierci di mente qualunque idea di essere capaci ad alcunché da noi, di riuscire in qualcosa con le sole forze nostre e così finire per confidare unicamente in Colui che solo è la nostra sufficienza completa.

Ne ci vuol meno di quest'urtare, più o meno forte, contro gli ostacoli per perdere finalmente così ogni fiducia in noi stessi e lasciare alla grazia libero campo d'azione.

Non è vero che l'anima, pur cadendo e ricadendo, resti sempre allo stesso punto; lo sforzo di volontà incluso nel proponimento è pur qualcosa essendo il risultato della grazia iniziale e del buon volere inteso a secondarla.

Sarà un passo da formica, ma è pur sempre qualcosa di positivo, di attivo: è un avanzamento, ancorché scarso così da passare inavvertito all'anima stessa che lo compie.

Il breve passo poi si ripete ogni volta che l'anima rinnova il suo: ecce dixi nunc coepi - per modo che, a furia di questi piccoli avanzamenti, può giungere, finalmente alla meta sospirata, benché forse in un tempo non breve.

Frattanto ad ogni fallimento essa può fare un duplice guadagno: perdere un'oncia almeno di fiducia in sé e acquistare maggior confidenza in Dio; ben inteso che non caschi nello scoramento.

Intanto, quasi condotta da mano invisibile, essa resta portata ad umiliarsi volentieri; e sprofondandosi nella sua debolezza e miseria, va scavando sempre più profondo quell'abisso che la grazia si compiace colmare, precipitandovisi con credibile avidità di arricchire l'anima umile e volonterosa.

Chi mai avrebbe detto che il nulla attira l'Essere, che la miseria è calamitata alla ricchezza?

Siamo convinti che al caso nostro tornano a meraviglia quelle frasi di S. Paolo: « Cum infirmor tunc potens sum »; perciò « complaceo mihii infirmatatibus meis, ut inhabitet in me virtus Christi ».

Questo prodigio, però, non si può verificare se l'anima si ritira avvilita dall'impresa, se per iscoraggiamento smette di ritentare indefinitivamente la prova.

L'anima che s'accinge a una buona opera è simile a persona che si è messa per difficile via; in breve eccola a terra, purtroppo perde un passo; ma non perciò s'arresta; si rialza tosto, non importa se per cadere un'altra volta; intanto, avanza; i capitomboli si fanno via via più radi, il rialzarsi più pronto, il cammino meno malagevole e più proficuo; infine, con più o meno celerità ( il che dipende anche da molte altre cause ) si troverà ad aver percorsa tutta la strada.

Chi invece, caduto appena, sta troppo a rammaricarsene per finire poi di sedersi immobile sul paracarro dello scoraggiamento, tutto il tempo che sta seduta, è chiaro non s'avanzerà, si avanzerà solo quando torna a muoversi, epperò certo farà poca strada.

Da quanto abbiamo esposto risulta chiaro che lo scoraggiamento è il peggior nemico dell'anima.

È necessario, dunque, superarlo prontamente col perseverare costanti nello sforzo diuturno contro le passioni e nel coltivare le virtù, persuasi che tale costanza, non importa se apparentemente sterile, è caparra sicura di avanzamento nel bene.

Eccellente dono di Dio è il rimorso che a guisa di pungolo incalzante ci spinge innanzi nella via del cielo.

Dobbiamo utilizzarlo sempre nell'umiltà e nella speranza; ad ogni caduta dobbiamo pentircene, ripromettendo di ricominciare da capo, diffidando sempre più delle nostre forze, per confidare unicamente e in sempre più larga misura nell'aiuto divino, di cui è felice caparra lo stesso rimorso, al quale andremo sinceramente debitori in morte del maggior male evitato e d'un più gran bene compiuto.

Can. L. Boccardo

Il compianto Can. L. Boccardo poco tempo prima delta sua dipartita ci inviava il suddetto articolo da stralciare dalla rivista « Il Prete Apostolo », Anno 1 n. 11, Novembre 1935.

All'unanime cordoglio della Chiesa torinese, uniamo l'umile nostra voce, che suoni riconoscenza e suffragio per l'anima del piissimo Sacerdote.

n. d. r.