Senza la carità siamo niente

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Per carità non s'intende l'elemosina, come molti intendono.

L'elemosina è un lodevole atto di carità, non la carità.

Perciò nessun ricco creda di essere nella carità, solo perché ha dato una grossa somma per gli affamati, per gli alluvionati, per i terremotati, per i lebbrosi.

È un atto buono, specie se è restituzione del quadruplo di ciò che è stato rubato, come fece Zaccheo, istantaneamente convertito da Gesù.

Ma la carità è la sostanza di Dio, poiché sta scritto: Dio è carità.

Quindi è sostanza della nostra elezione alla dignità di figli di Dio.

Però la carità è anche quella virtù in forza della quale si arriva a fondersi con Dio, in quella unione beatificante che è detta il matrimonio con Dio.

Il matrimonio tra l'uomo e la donna secondo natura, è segno di tale unione consumante con Dio, e non viceversa.

Carità vuol dire amore, l'amore più caro, più prezioso, prediletto, che ci fa simili a Dio, in Dio.

Nel famoso inno alla carità ( 2 Cor 13 ), S. Paolo riassume plasticamente il concetto della nullità degli atti umani, ai fini dei meriti e della salvezza, se compiuti fuori della sfera fecondatrice della carità.

Se anche dessi il mio corpo al fuoco, dice l'Apostolo - come hanno fatto certi buddisti nel Vietnam per protestare contro la guerra o come ha fatto quello studente di Praga per protestare contro la tirannide - se non ho la carità, non serve a niente.

Se io conoscessi tutte le Scritture, continua S. Paolo, più di tutti i bibblisti dell'Istituto biblico di Roma o della Scuola di Gerusalemme, o addirittura come lo stesso Spirito Santo che ha dettato la Bibbia, ma non ho la carità, non serve a niente.

E quand'anche parlassi la lingua degli angeli e conoscessi tutte le profezie, sì da sbalordire il mondo intero - in ascolto per via satellite - ma non ho la carità, sono un bronzo sonante, un cembalo squillante, vale a dire un fanfarone.

Tali categorici principi sono più che convincenti.

Ma S. Paolo continua con insistenza, ciccando tutta una serie di qualità della carità, evidentemente per ribadire i concetti e pedagogicamente per fissarli bene nella memoria, poiché siamo tanto facili a dimenticare.

Sono indicazioni la cui smagliante efficacia ci da l'idea di apparecchi di precisione che richiamano l'attenzione circa qualsiasi guasto in un complesso elettronico o la presenza della più impercettibile incrinatura in una diga.

Ne riassumiamo soltanto tre.

1) La carità non offende.

Se nelle nostre azioni offendiamo, possiamo essere certi che siamo fuori della carità e che perciò siamo niente.

Anche una parola di dovuta correzione, del superiore al suddito o del suddito al superiore ( che è un dovere di correzione fraterna ), non deve offendere.

Chi offende, potrà essere ancora qualcuno per le sue capacità naturali, anzi, la prepotenza e l'altezzosità gli darà tono agli occhi del mondo, ma dinanzi a Dio sarà niente, se pur basta.

Saremo infatti giudicati sulla carità.

2) La carità non cerca il suo.

Anche la generosità più commovente, anche l'eroismo più convincente possono essere del tutto distorti da quello che sarebbe il fine della carità, perché il proprio interesse, l'egoismo, l'amore di sé si insinuano anche nelle azioni più belle.

La bellezza non è ancora la sostanza delle cose.

Chi nella carità non cerca davvero l'amore di Dio, quand'anche fosse l'amore per il prossimo, non serve a niente.

3) La carità non finisce mai.

Arriva un momento della vita, sul finire della vita specialmente, quando si è dato tutto sé stesso per sincero e meritorio amore di carità, e si è avuto soltanto ingratitudine e persecuzione, che uno dice: « Adesso basta ».

C'è chi si ritira sotto la tenda, c'è chi prende il cappello e se ne va.

Sbaglia il primo e sbaglia il secondo, perché la carità non finisce mai.

Un conto è dire: « Non ce la faccio più, perdonatemi »; un altro è il terribile: « Adesso basta! Adesso arrangiatevi! Adesso andate tutti all'inferno! ».

Gesù stesso disse ai suoi prediletti: « Fin quando vi sopporterò? ».

Però non disse mai « basta », né nel giardino degli ulivi, né sulla croce, che anzi qui culminò la sua carità.

Nonostante tutto, anche questi richiami, anche i più congeniati sistemi ascetici per ricordarci il dovere sommo della carità, possono risultare inutili, perché la vita è come un oceano in tempesta o un deserto flagellato dal vento, in cui si dimentica tutto, salvo l'istinto del proprio successo.

In realtà non c'è che un promemoria veramente efficace, e questo è la preghiera.

La preghiera presuppone un raccoglimento interiore e un gran silenzio esteriore; dopo di che la preghiera diventa il respiro dell'anima, il dialogo vivificante con Dio, la Parola di Dio che ci assimila a Lui, conversando, cioè pregando.

La preghiera vocale si fa preghiera mentale e la preghiera mentale diventa preghiera d'unione trasformante.

L'unione con Dio vitalizza la memoria, perché le cose che dovremmo ricordare le possediamo così in Dio.

È una conoscenza per connaturalità sperimentale, che è conoscenza per intuito di Spirito Santo.

E siccome lo Spirito Santo è la carità personificata, ognuno vede che a questo punto non c'è più pericolo di obliare che cosa ci sia da fare per essere uomini di carità, vale a dire autentici cristiani.

È stato detto: « chi prega difficilmente si danna », più precisamente si dirà: « chi prega resta sicuramente nella carità ».

P. Giacinto Scaltriti o.p.