Un francescano su fra Leopoldo

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La parola incarnata

Quando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa su fra Leopoldo la domanda che mi sono posto è stata precisamente questa: Che cosa posso dire?

Naturalmente, nella Vice postulazione delle cause dei santi c'è tutto un traboccare di documenti, ma il posto da dove mi arrivava la richiesta mi imponeva di meditare: cosa posso dire di nuovo?

Tutto quello che io potrei ricavare dai miei archivi su fra Leopoldo, forse i Catechisti del Crocifisso possono dirlo meglio di me … non voglio dire qualcosa di ripetitivo, oppure buttare lì quattro chiacchiere tanto per poter dire: Ebbene, mi avete chiamato e qualcosa bene o male vi ho risposto!

A un certo punto, mi sono chiesto: E perché, invece di quello che si può dire, o di quello che c'è da dire, non potrebbe essere meglio parlare di quello che non c'è da dire?

Qualcosa che è meglio non dire, in quanto è già stato detto?

Dopo tutto, il Padre non ha detto che una sola parola in tutta l'eternità, il Verbo.

Ed in questo Verbo tutto è stato creato.

Perché non rifarsi, per dire qualcosa di nuovo, di continuamente nuovo, alla parola del Verbo?

Diciamo tre volte al giorno nell'Angelus: La Parola si è incarnata e si è accampata in mezzo a noi.

Rifacciamoci allora a questa parola incarnata, e cerchiamo di dire il meno possibile di nostro.

Le nostre dopo tutto sono solo chiacchiere.

Ma come si fa a scrivere un articolo con le parole del Verbo?

Diciamo: L'unica cosa possibile è di adattarci al suo vocabolario.

Perché esiste un vocabolario del Verbo, quello che è stato ufficializzato nella sua lettera, contenuta nei Vangeli e nelle Scritture.

Ci sono delle parole che ci danno il punto di partenza per dire qualcosa.

Partiamo allora alla ricerca di una di queste parole nella vita di fra Leopoldo.

E deve essere una parola che vale.

Una parola sofferta, perché è la croce che da il valore a tutte le cose, e quindi anche a tutte le parole.

Una parola sofferta nel vocabolario di fra Leopoldo è carità.

C'è un evento interessante nella storia dell'opera congiunta tra fra Leopoldo e fr. Teodoreto: la creazione della casa di carità arti e mestieri.

Ci sono state delle lotte da parte di gente che non accettava questo termine: Casa di carità.

Fra Leopoldo ha tenuto duro.

E direi che non aveva motivi personali per tener duro.

I motivi potevano venirgli da chi gli parlava.

A questo punto uno può chiedersi: Ma parlava veramente Qualcuno a fra Leopoldo?

E se qualcuno gli parlava, chi era questo Qualcuno?

Possiamo anche lasciar perdere la maiuscola, se sembra troppo impegnativa.

Io non voglio mettermi sui sentieri della teologia, che possono essere bisbetici, ma semplicemente sui sentieri della linguistica, e chiedermi: Cosa vuol dire carità?

Perché per tener tanto duro su quella parola: carità, bisogna saper cosa significa quella parola.

Gli oppositori, probabilmente ottimi piemontesi testa quadra, pensavano che carità volesse dire quel che vuol dire in quasi tutti i dialetti italiani.

Una facile equazione, carità eguale elemosina.

Una facile equazione, che aveva solo il difetto, pessimo per qualsiasi equazione che si rispetti, di essere sbagliata.

Perché la carità non si identifica affatto coll'elemosina.

Ma per sapere cosa significa veramente carità non è sufficiente sapere il dialetto, piemontese o altro, non è neanche sufficiente sapere l'italiano, o come dicevano i professori d'altri tempi, il toscano.

Occorre sapere almeno il latino, ma è molto più utile sapere il greco.

Ora fra Leopoldo sapeva il dialetto, sapeva l'italiano più o meno, non sapeva certamente il latino, e credo che non avesse neanche il sospetto che esistesse il greco.

Per lui la Grecia doveva essere una strana appendice sulla carta geografica, e non molto di più.

Su queste basi non aveva nessun fondamento per fare tanti problemi sulla parola « carità ».

Allora questi problemi glieli faceva fare qualcuno che sapeva il greco. Chi?

Continuo a non volermi pronunciare sulla teologia, continuo a limitarmi alla linguistica.

Nei miei ricordi di frate, ho visto nel convento di S. Tommaso dei ricordi di fra Leopoldo, una statua della Madonna e un crocifisso, come la scritta: Crocifisso che parlò a fra Leopoldo, e: Madonna che parlò a fra Leopoldo.

Bene, ora giunto fresco fresco all'incarico di vice-postulatore, ho visto cambiate queste diciture.

Non si diceva più: che ha parlato, ma che ha ispirato.

L'intenzione dell'autore era evidente: evitare un giudizio affrettato su delle rivelazioni private che la Chiesa avrebbe dovuto antecedentemente approvare.

Purtroppo l'improvvido correttore si era dato la zappa sui piedi.

Perché dire: ispirato, non significa dire meno di chi ha parlato, ma significa dire molto di più.

Ispirare è un termine estremamente impegnativo, se ce n'è uno.

Di libri ispirati dall'origine del mondo fino alla data odierna ce ne sono soltanto settantadue, e la Chiesa ci assicura che non ce ne saranno più, e sono esattamente quei settantadue libri che noi riconosciamo ufficialmente come parola di Dio.

E su questo punto allora siamo d'accordo: Gli scritti di fra Leopoldo non fanno parte della Sacra Scrittura.

Ma allora chi è quell'infelice che osa dire che fra Leopoldo è stato « ispirato » come Daniele, come Mosè o come Luca, per non osar dire che Gesù e la Madonna gli hanno « parlato »?

Sarebbe come se uno dicesse che un alpinista ha scalato l'Everest per non osar dire che ha scalato il Cervino.

Gesù non ha « ispirato » fra Leopoldo per farlo suo rappresentante come un profeta o come un evangelista.

Semplicemente gli ha « parlato « , come si parla tra amici, per dare una commissione.

Un Cardinale, facciamo un esempio, può parlare ufficialmente al suo segretario per dargli un messaggio, mettiamo, per Clinton.

Oppure può parlargli molto più alla buona per fargli dire che non andrà a cena alle otto ma alle otto e mezza.

Bene, questo discorso, questo parlare di Gesù a fra Leopoldo è appunto il discorso alla buona, amichevole, non per un messaggio universale ma per un messaggio rivolto a una ristretta cerchia di amici.

Ma è essenziale che in questa cerchia di amici si parli la medesima lingua.

E che le parole vogliano dire la stessa cosa.

Ora se questa gente che osteggiava il termine « carità » non capiva la lingua di fra Leopoldo, c'è il rischio che non capisse la lingua del Crocifisso.

Cosa significava per loro questa parola?

Luigi Musso, prima di entrare in convento.

Probabilmente significava « elemosina », « compassione » qualcosa di simile.

Che sono tutti termini da prendersi con le molle, perché se risaliamo al significato fondamentale avremmo delle sorprese anche qui.

Ma fermiamoci al valore diciamo così tradizionale di queste parole: Elemosina. Compassione.

Nell'eccezione comune, si tratta di gente che guarda gli altri dall'alto in basso come si guarderebbe un cagnolino che muova la coda in attesa di qualcosa da mangiare.

Come si guarda un gatto che sta sotto la finestra ad aspettare che gli buttino giù una lisca di pesce.

Si capisce allora ( e con tutta ragione ) che queste persone, in ottima buona fede, rifiutassero il termine di casa di carità.

Non volevano, ed avevano tutto il buon diritto di non volerla, una casa che significasse un osso buttato al cagnolino affamato.

Il fatto è che carità significa essenzialmente altro.

Significa mettersi completamente a disposizione.

Dalla testa ai piedi, dal di fuori al di dentro.

Allo stesso modo il dottore della legge che interrogava Gesù, non aveva idee molto chiare sulla parola « prossimo ».

Mettiamoci nei panni di quel bravo prete che osserva sulla strada di Gerico il viandante ferito, bastonato dai briganti, lasciato lì sulla strada come quei gatti che vediamo ogni tanto calpestati dagli autotreni.

Il bravo prete forse vorrebbe fermarsi a vedere cosa succede, se non altro.

Ma come può farlo? La strada è malsicura, piena di burroni di sopra e di sotto.

E i briganti dove sono andati? Magari sono capaci di saltar fuori di nuovo, da un momento all'altro.

Ed allora che cosa rischio? Di mettermi nei guai anch'io senza poter fare niente per lui.

È a questo punto, ambientata in questo ambiente selvaggio, quasi da western, forse anche senz'altro peggio di un western, che si coglie al completo il significato della parabola del Samaritano.

È un Ebreo, uno che non mi può vedere.

Ed io dovrei metter a rischio la pelle per quello lì? Ma facciamo ridere!

Ebbene, il Samaritano non ride.

Si ferma, rischia la pelle, si ferma non un istante ma tutto il tempo necessario per medicarlo.

Carica il ferito sul suo somaro, sapendo che se verranno fuori i briganti sarà ancora più difficile scappare, con un viaggiatore in più e per altro così ingombrante.

Ebbene, Gesù non mette in scena un western.

Non racconta la favoletta buona per i bambini prima di metterli a letto. Dà un ordine.

Non un suggerimento, non un consiglio, come distinguono tanto bene gli esegeti.

Da un ordine: Và e fa come lui.

Scusa, non sei stato tu a chiedermi cosa devi fare per entrare nel regno?

Non sei tu che mi hai chiesto chi è il tuo prossimo? Adesso lo sai.

È scomodo? Arrangiati.

Sei tu che ti sei messo nei guai.

Va e fa come lui. Renditi conto che dopo tutto questo, se non ti comporti così fai una figuraccia.

Carità è questo: Agape, si dice in greco.

È quella di cui parla Paolo nella seconda ai Corinti.

Anche qui li prende in contropiede.

Volete sapere quali sono i carismi? Ebbene, siete serviti.

I carismi sono questi. Il carisma è la carità.

Completamente al servizio dell'altro.

A questo punto viene veramente la voglia di cambiar nome.

Ma non perché il nome voglia dire qualcosa di riduttivo, tutto il contrario.

Perché è un nome che ti carica di una responsabilità enorme.

A questo punto comprendiamo la grandezza spaventosa di questa parola.

E comprendiamo anche, per riflesso, la grandezza spaventosa del messaggio affidato a fra Leopoldo.

È un messaggio di carità, cioè di amore, cioè di donazione.

E nei nostri tempi questo messaggio è veramente sovraccarico.

Perché abbiamo lasciato per troppo tempo che questi termini diventassero senza senso.

Ora c'è da fare un lavoro titanico.

Alcuni anni fa tenni una conferenza ad un gruppo di pastori protestanti su S. Francesco.

E cercai di incentrare il discorso proprio in questi termini, d'un Francesco visto come centro di carità.

Alla fine uno di loro mi disse: Ma allora secondo lei la vera francescana vivente in questo momento è Madre Teresa?

Ho il vago sospetto che abbia colpito nel segno, solo che la domanda era troppo restrittiva.

Non è « secondo me » ma è nella realtà più completa che Madre Teresa è un segno di francescanesimo.

E se permettete, un segno di cristianesimo.

Il cristianesimo visto da Francesco è questo: occuparsi degli ultimi, di quelli che sono i lebbrosi di Galilea del 30 dopo Cristo e i lebbrosi di Calcutta del 1990 dopo Cristo.

Occuparsi di quelli che nessuno ricorda, di quelli che gli ambienti ufficiali vedono giacenti sulla strada e scappano a gambe levate.

Mi direte: tu vuoi fare il furbo e ti servi di fra Leopoldo per fare un discorso cento volte più grosso.

Non è di fra Leopoldo il discorso, ma è il discorso di Cristo.

I discorsi di Cristo sono sempre più grandi degli intermediari e questo capita anche a qualcuno molto più importante di fra Leopoldo.

Basta rileggere l'epistola di Pietro.

Siate buoni con i vostri padroni, dice agli schiavi.

Non dice quello che era vero allora come oggi, che la schiavitù è una vergogna per l'uomo.

Neanche Paolo osava dirlo, vedi Filemone.

Ma Gesù voleva dire quello.

Ed attraverso i secoli abbiamo capito cosa voleva dire.

Qualunque essere umano serva di tramite a Cristo si trova a portare un messaggio più grande di lui.

Allora, se vogliamo rientrare a fra Leopoldo, ricordate la devozione delle 5 piaghe? ricordate quella figura femminile che si aggrappa al crocifisso e che agli zelanti censori ( gente piena di buone intenzioni, anche in questo caso ) sembrava troppo emotiva, troppo drammatica?

Ebbene, guardatela con attenzione.

Quella immagine non è fatta da un Raffaello e non è fatta da un Picasso, e si vede.

Ma parla lo stesso un linguaggio di simbolo.

L'anima si aggrappa al crocifisso, e i piedi non toccano terra.

Non ci sono speranze umane, non ci sono appoggi umani, l'impresa di portare la carità nel mondo ( in questo nostro mondo ) è veramente disperata.

Non sarebbe meglio se quella donnetta si staccasse dal crocifisso e poggiasse i piedi per terra?

Sì, non sarebbe meglio se scendessi dalla croce?

E non sarebbe più spettacolare se ti facessi mandare dodici legioni di Angeli?

Ma allora le Scritture come si compirebbero?

fr. Gabriele Valponte

V. postulatore cause santi francescani