Dialogo della Divina Provvidenza

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Capitolo CLIX

De la excellenzia de li obedienti e de la miseria de li inobedienti, li quali vivono ne lo stato de la religione.

- Poi che i luoghi sonno trovati, cioè queste navicelle ordinate dallo Spirito sancto per lo mezzo di questi padroni, e però ti dixi che lo Spirito sancto era padrone di queste navicelle fondate col lume della sanctissima fede, cognoscendo con questo lume che la clemenzia mia ( esso Spirito sancto ) ne sarebbe governatore, hotti mostrato il luogo, dicendoti della sua perfeczione.

Ora ti parlarò de l’obbedienzia e disobbedienzia di quegli che sono in questa navicella, parlandoti insieme di tucti, e non in particulare: cioè non parlandoti piú d’uno ordine che d’un altro, mostrando insiememente il difecto del disobbediente con la virtú de l’obbediente, acciò che meglio cognosca l’uno per l’altro, e come debba andare, cioè in che modo, colui che va ad intrare nella navicella de l’ordine.

Come debba andare colui che vuole intrare alla perfecta obbedienzia particulare?

Col lume della sanctissima fede, col quale lume cognosca che gli conviene uccidere la propria volontá col coltello de l’odio d’ogni propria passione sensitiva, pigliando la sposa che gli dará la caritá e la sorella.

La sposa, dico, della vera e prompta obbedienzia con la sorella della pazienzia e con la nutrice de l’umilitá; ché, se egli non avesse questa nutrice, l’obbedienzia perirebbe di fame, perché ne l’anima, dove non è questa virtú piccola de l’umilitá, l’obbedienzia vi muore di subbito.

La umilitá non è sola, ma ha la serva della viltá e spregio del mondo e di sé, che fa l’anima tenere vile: non appetisce onori, ma vergogne.

Cosí morto debba andare alla navicella de l’ordine quello che è in etá da ciò; ma, per qualunque modo egli v’entra ( perché ti dixi che in diversi modi Io gli chiamavo ), egli debba acquistare e conservare in sé questa perfeczione: pigliare largamente e festinamente la chiave de l’obbedienzia de l’ordine.

La quale chiave diserra lo sportello che è nella porta del cielo, sí come la porta che ha lo sportello.

Cosí questi cotali hanno preso a diserrare lo sportello, passando dalla chiave grossa de l’obbedienzia generale che diserra la porta del cielo, sí com’Io ti dixi.

In questa porta hanno presa una chiave sottile, passando per lo sportello basso e strecto.

Non è separato però dalla porta: anco è nella porta, sí come materialmente tu vedi.

Questa chiave la debbono tenere, poi che essi l’hanno presa, e non gictarla da loro.

E perché i veri obbedienti hanno veduto, col lume della fede, che col carico delle ricchezze e col peso della loro volontá essi non possono passare per questo sportello senza grande loro fadiga e che non vi lassi la vita, né andare col capo alto che non sel rompano, chinandolo, vogliano essi o no, con loro pena; però gittano via el carico delle ricchezze e della propria loro volontá, observando il voto della povertá volontaria, e non vogliono possedere, perché veggono, col lume della fede, in quanta ruina essi ne verrebbero.

Egli trapassarebbero l’obbedienzia, ché non observarebbero il voto promesso della povertá.

Essi ne vengono nella superbia, portando il capo ricto della volontá loro; e, convenendo lo’ alcuna volta pure obbedire, essi non il chinano per umilitá, ma passanla con superbia, chinando il capo per forza.

La quale forza rompe il capo a la volontá, facendo quella obbedienzia con dispiacimento de l’ordine e del prelato loro.

A mano a mano essi si vedrebbero ruinare ne l’altro, trapassando il voto della continenzia; però che colui, che non ha ordinato l’appetito suo, né spogliatosi della substanzia temporale, piglia le molte conversazioni e truova degli amici assai, che l’amano per propria utilitá.

Dalle conversazioni vengono alle strecte amistá.

Il corpo loro tengono in delizie, perché non hanno la baglia de l’umilitá, non hanno la sorella sua della viltá; e però stanno nel piacere di loro medesimi, stando agiatamente e dilicatamente, non come religiosi, ma come signori; non con la vigilia e orazione.

Per queste e molte altre cose, le quali l’adivengono e fanno perché hanno che spendere ( ché, se non avessero che spendere, non l’adiverrebbe ), caggiono nella inmondizia corporale o mentale: ché, se alcuna volta, per vergogna o per non avere il modo, essi se n’astengono corporalmente, non si asterranno mentalmente.

Ché inpossibile sarebbe a quegli che sta in molta conversazione, in dilicatezza di corpo, in prendere disordenatamente i cibi e senza la vigilia e orazione, conservare la mente sua pura.

E però il perfecto obbediente vede dalla longa, col lume della sanctissima fede, il male e il danno che ne gli verrebbe del possedere la substanzia temporale, e l’andare col peso della propria volontá.

E vede bene che pure passare gli conviene per questo sportello, e che egli el passarebbe con morte e non con vita, perché non l’avarebbe diserrato con la chiave de l’obbedienzia.

Perché ti dixi che pure passare gli conveniva, e cosí è: cioè che, non partendosi dalla navicella de l’ordine, pure, voglia egli o no, gli conviene passare per la strectezza de l’obbedienzia del prelato suo.

E però il perfecto obbediente leva sé sopra di sé e signoreggia la propria sensualitá.

Levandosi sopra e’ sentimenti suoi con fede viva, ha messo l’odio nella casa de l’anima sua, come servo perché cacci il nemico de l’amore proprio, perché non vuole che la sposa sua de l’obbedienzia ( la quale gli fu data dalla madre della caritá, sposata col lume della fede ) sia offesa.

E però ne caccia il nemico, e mectevi la compagna e la nutrice della sposa sua, e l’odio ha cacciato il nemico.

L’amore de l’obbedienzia vi mecte dentro gli amatori della sposa sua, che amano la sposa de l’obbedienzia: ciò sonno le vere e reali virtú e costumi e l’observanzie de l’ordine.

Unde questa dolce sposa entra dentro ne l’anima con la sorella della pazienzia e con la nutrice de l’umilitá, acompagnata con la viltá e dispiacere di sé.

Poi che ella è intrata dentro, ella possiede la pace e la quiete, perché ha messi di fuore i nemici suoi.

Sta nel giardino della vera continenzia col sole del lume de l’intellecto dentrovi la pupilla della fede, ponendosi per obiecto la mia Veritá, perché l’obiecto suo è veritá.

Èvi el fuoco che rende caldo a tucti e’ servi e compagni suoi, perché observa l’observanzie de l’ordine con fuoco d’amore.

Quali sonno e’ nemici suoi che stanno di fuore?

El principale è l’amore proprio, che produce superbia, nemico della caritá e umilitá, la inpazienzia contra la pazienzia, la disobbedienzia contra la vera obbedienzia.

La infidelitá è contraria alla fede, il presummere e sperare in sé non s’acorda con la speranza vera, che l’anima debba avere in me.

La ingiustizia non si conforma con la giustizia, né la inprudenzia con la prudenzia, né la intemperanzia con la temperanzia, né il trapassare e’ comandamenti de l’ordine con l’observanzia de l’ordine, né le gattive conversazioni di coloro che scelleratamente vivono con la buona conversazione ( anco so’ nemici ), né escire de’ costumi e delle buone consuetudini de l’ordine.

Questi sonno i nemici crudeli suoi: èvi l’ira contra la benivolenzia, la crudeltá contra la pietá, l’iracundia contra la benignitá, l’odio delle virtú contra l’amore d’esse virtú, la inmondizia contra la puritá, la negligenzia contra la sollicitudine, la ingnoranzia contra al cognoscimento, e il dormire contra la vigilia e continua orazione.

E perché col lume della fede cognobbe che questi erano tucti nemici, che avevano a contaminare la sposa sua della sancta obbedienzia, però mandò l’odio che gli cacciasse, e l’amore che mectesse dentro gli amici suoi.

Unde l’odio col coltello suo uccise la propria perversa volontá; la quale volontá, notricata da l’amore proprio, dava vita a tucti questi nemici della vera obbedienzia.

Mozzo il capo al principale, per cui si conservano tucti gli altri, rimane libero e in pace, senza veruna guerra.

Non ha chi li li faccia, perché l’anima ha tolto da sé quello che la tenea in amaritudine ed in tristizia.

E che guerra ha l’obbediente?

Fagli guerra la ingiuria?

No, ché egli è paziente; la quale pazienzia è sorella de l’obbedienzia.

Sonnoli gravi e’ pesi de l’ordine?

No, ché l’obbedienzia nel fa observatore.

Dágli pena la grave obbedienzia?

No, ché egli ha conculcata la sua volontá e non vuole investigare la volontá del prelato suo né giudicarla, ma col lume della fede giudica la volontá mia in lui, credendo in veritá che la clemenzia mia gli fa comandare e non comandare, secondo che è di necessitá alla salute sua.

Recasi egli a schifezza e dispiacere di fare le cose vili de l’ordine? o sostenere le beffe e rimprovèri e gli scherni e villanie, che spesse volte gli sonno facti e decti? e l’essere tenuto vile?

No, perch’egli ha conceputo amore a la viltá e dispiacimento a se medesimo, con perfectissimo odio: anco gode con pazienzia, exultando con gaudio e giocunditá con la sposa sua della vera obbedienzia.

Egli non si contrista se non de l’offesa che vede fare a me, suo Creatore; la sua conversazione è con quegli che temono me in veritá.

E se pure conversa con quelli che sono separati dalla volontá mia, non il fa per conformarsi co’ difecti loro, ma per sottrarli dalla loro miseria, perché, con caritá fraterna, quel bene che egli ha in sé vorrebbe porgere a loro, vedendo che piú loda e gloria tornarebbe al nome mio avere di molti di quelli che observassero l’ordine, che pure di lui.

E però s’ingegna di chiamare e religiosi e secolari con la parola e con l’orazione: per qualunque modo egli può, s’ingegna di trarli della tenebre del peccato mortale.

Sí che le conversazioni del vero obbediente sonno buone e perfecte, o con giusti o con peccatori che sieno, per l’ordinato affecto e larghezza di caritá.

Della cella si fa uno cielo, dilectandosi di parlare e conversare in me, sommo e etterno Padre, con affecto d’amore, fuggendo l’ozio con l’umile e continua orazione.

E quando e’ pensieri, per illusione del dimonio, gli abbondano in cella, non si pone a sedere nel lecto della negligenzia, abbracciando l’ozio, né vuole investigare per ragione le cogitazioni del cuore, né i suoi pareri: ma fugge l’ozio, levando sé sopra di sé con odio sopra el sentimento sensitivo, e con vera umilitá e pazienzia a portare le fadighe che sente nella mente sua; resiste con la vigilia e umile orazione, veghiando l’occhio de l’intellecto suo in me, vedendo col lume della fede che Io so’ suo subvenitore, e che Io posso, so e voglio subvenirlo; apro le braccia della mia benignitá, e però gli li permecto perché sia piú sollicito a fugire da sé e venire a me.

E se l’orazione mentale, per la grande fadiga e tenebre della mente, paresse che gli venisse meno, egli piglia la vocale o l’exercizio corporale, acciò che con la vocale ed exercizio corporale fugga l’ozio.

Con lume raguarda in me, che per amore gli li do, unde traie fuore il capo della vera umilitá, reputandosi indegno della pace e quiete della mente, come gli altri servi miei, e degno delle pene.

Perché giá ha avilito nella mente sua se medesimo con odio e rimproverio di sé, non pare che si possa saziare delle pene, non mancandoli la speranza né la providenzia mia, ma con fede e con la chiave de l’obbedienzia passa per questo mare tempestoso nella navicella de l’ordine; e cosí è abitatore della cella, fuggendovi l’ozio, come decto è.

L’obbediente vuole essere il primo che entri in coro e l’ultimo che n’esca.

E quando vede il frate piú obbediente e sollicito di lui, egli piglia una sancta invidia, furandoli quella virtú: non volendo però che ella diminuisca in colui.

Ché, se egli volesse, sarebbe separato dalla caritá del proximo suo.

L’obbediente non abandona il refectorio, anco il visita continuamente, e dilectasene di stare alla mensa co’ povarelli.

E in segno che egli se ne dilectava, per non avere materia di stare di fuore, ha tolta da sé la substanzia temporale, observando perfectamente il voto della povertá; e tanto perfectamente, che la necessitá del corpo tiene con rimproverio.

La cella sua è piena de l’odore della povertá, e non di panni: non ha pensiero ch’e’ ladri vengano per inbolarli, né che la ruggine o tigniuole li rodino e’ vestimenti suoi.

E se gli è donato alcuna cosa, non ha pensiero di riponerla, ma liberamente la comunica co’ fratelli suoi, non pensando el dí di domane; ma nel dí presente tolle la sua necessitá, pensando solo del reame del cielo, e della vera obbedienzia in che modo meglio la possino observare.

E perché per la via de l’umilitá meglio si conserva, egli si soctomecte al piccolo come al grande e al povaro come al ricco; di tucti si fa servo: non rifiutando mai labore, ogniuno serve caritativamente.

L’obbediente non vuole fare l’obbedienzia a suo modo, né eleggere tempo né luogo, ma a modo de l’ordine e del prelato suo.

Tucto questo fa senza pena o tedio di mente il vero obbediente e perfecto.

Egli passa, con questa chiave in mano, per lo sportello strecto de l’ordine agiatamente e senza violenzia, perché ha observato e observa il voto della povertá, de l’obbedienzia vera e della continenzia, levata l’altezza della superbia e chinato il capo a l’obbedienzia per umilitá.

E però non rompe il capo per inpazienzia, ma è paziente con fortezza e longa perseveranzia, che sonno amici de l’obbedienzia.

Passa l’assedio delle dimonia, mortificando e macerando la carne sua, spogliandola delle delizie e dilecti, e vestela delle fadighe de l’ordine con fede e senza sdegno.

Come parvolo, che non tiene a mente la bactitura del padre né ingiuria che gli fusse facta, cosí questo parvolo non tiene a mente né ingiurie né fadighe né bactiture che ricevesse ne l’ordine dal prelato suo; ma, chiamandolo, umilemente torna a lui, non passionato d’odio, d’ira né di rancore, ma con mansuetudine e benivolenzia.

Questi sonno quelli parvoli che contòe la mia Veritá, quando dixe a’ discepoli, che contendevano insieme qual di loro fusse il maggiore, facendosi venire uno fanciullo, dicendo: - « Lassate li parvoli venire a me, ché di questi cotali è il reame del cielo; e chi non si umiliará come questo fanciullo, cioè che egli abbi la condizione sua, non intrarrá nel reame del cielo ».

- Però che chi s’aumiliará, carissima figliuola, sará exaltato, e chi sé exalta sará umiliato: anco questo medesimo dixe la mia Veritá.

Dunque, giustamente, questi parvoli umili, che per amore si sonno umiliati e facti subditi con vera e sancta obbedienzia, non ricalcitrando a l’ordine e al loro prelato, sonno exaltati da me, sommo ed etterno Padre, co’ veri cittadini della vita beata, dove sonno remunerati d’ogni loro fadiga, e in questa vita gustano vita etterna.

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