La dottrina cristiana

Indice

Libro II

7.10 - Lo Spirito Santo per comprendere la Scrittura

Dopo i due gradini, del timore e della pietà, si giunge al terzo gradino che è quello della scienza, del quale ho ora stabilito di trattare.

In esso si esercita ogni appassionato della divina Scrittura, nella quale non vorrà trovare nient'altro se non che occorra amare Dio per se stesso e il prossimo per amore di Dio, e che Dio bisogna amarlo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente, mentre il prossimo lo si deve amare come noi stessi. ( Mt 22,37-39 )

Ciò significa che l'amore del prossimo, come anche quello verso noi stessi, occorre riferirlo totalmente a Dio.

Di questi due precetti abbiamo trattato nel libro precedente quando parlavamo delle cose.

Succede peraltro, e di necessità, che in principio uno, volendo addentrarsi nelle Scritture, si senta avviluppato nell'amore di questo secolo, cioè delle cose temporali.

In questo caso egli necessariamente avverte di essere molto distante da quell'intenso amore di Dio e del prossimo qual è prescritto dalla stessa Scrittura.

Bisogna allora che il timore che lo fa pensare al giudizio di Dio e quella pietà per la quale non può non credere o non arrendersi all'autorità dei Libri santi lo costringano a piangere su se stesso.

In realtà quella scienza che dona la buona speranza non rende l'uomo vanitoso ma lo fa gemere su se stesso: sentimento con il quale, a mezzo di frequenti preghiere, ottiene la consolazione dell'aiuto divino che lo sottrae al peso della disperazione.

Così comincia ad essere nel quarto gradino, che è quello della fortezza, per il quale si ha fame e sete di giustizia. ( Mt 5,6 )

Con questo sentimento poi si tira fuori da ogni mortifero diletto per le cose che passano e, allontanandosi da tale sorta di godimenti, si volge al gusto delle cose eterne, cioè dell'immutabile Unità che è la Trinità.

7.11 - Fine di tutti i doni dello Spirito è la Sapienza

Vedendola, per quanto può, brillare lontano, si accorge che per la debolezza del suo sguardo non può reggere a tanta luce, sicché ascende al quinto gradino, cioè al consiglio, che ha per base la misericordia.

Ivi purifica l'anima che è, in certo qual modo, in tumulto e in preda al chiasso con se stessa per lo sporco che l'ha deturpata desiderando le cose inferiori.

Qui l'uomo è impegnato ad esercitarsi con impegno nell'amore del prossimo e in questo amore compie progressi.

Pieno ormai di speranza e integro nelle forze, arrivato all'amore del nemico, ascende al sesto gradino, dove purifica lo stesso occhio con il quale può vedere Dio, quanto è consentito a coloro che muoiono a questo secolo, quanto è loro possibile.

In realtà in tanto lo possono vedere in quanto muoiono a questo secolo, mentre in quanto vivono in esso, non lo vedono.

È vero che in tal grado lo splendore di quella luce comincia già a farsi vedere più marcato: non solo quindi lo si tollera meglio ma reca anche più godimento; tuttavia è detto che lo si vede ancora in forma enigmatica e come in uno specchio. ( 1 Cor 13,12 )

Questo perché finché siamo pellegrini in questa vita, camminiamo nella fede e non nella visione, ( 2 Cor 5,6-7 ) avendo in cielo la nostra dimora. ( Fil 3,20 )

In questo gradino poi l'uomo purifica talmente l'occhio del cuore che alla verità non preferisce e nemmeno paragona il proprio prossimo e quindi neanche se stesso, perché non le paragona nemmeno colui che ama come se stesso.

Un santo come questo avrà dunque un cuore così semplice e puro che non si lascerà distrarre dalla [ contemplazione della ] verità né dal desiderio di piacere agli uomini né dalla preoccupazione di evitare gli ostacoli che si frappongono al conseguimento d'una tal vita.

Questo figlio [ di Dio ] è in grado di ascendere fino alla sapienza, che è l'ultimo gradino, il settimo, e gode di lei pacificato e tranquillo.

Inizio della sapienza è infatti il timore del Signore, ( Sal 111,10; Sir 1,16 ) dal quale timore si tende e si giunge alla sapienza attraverso questi gradini.

8.12 - Libri canonici e libri apocrifi. Criteri di canonicità

Quanto a noi, riportiamo la considerazione a quel terzo gradino del quale avevamo stabilito di approfondire ed esporre ciò che il Signore si fosse degnato di suggerirci.

Pertanto sarà diligentissimo investigatore delle divine Scritture colui che, prima di tutto, le legge per intero e ne acquista la conoscenza e, sebbene non le sappia penetrare con l'intelligenza, le conosce attraverso la lettura.

Mi riferisco esclusivamente alle Scritture cosiddette canoniche, poiché, riguardo alle altre le legge con tranquillità d'animo chi è ben radicato nella fede cristiana, per cui non succede che gli disturbino l'animo debole e, illudendolo con pericolose menzogne e fantasticherie, gli distorcano il giudizio in senso contrario alla retta comprensione.

Nelle Scritture canoniche segua l'autorità della maggior parte delle Chiese cattoliche, tra le quali naturalmente sono comprese quelle che ebbero l'onore di essere sede di un qualche apostolo o di ricevere qualche sua lettera.

Riguardo pertanto alle Scritture canoniche si comporterà così: quelle che sono accettate da tutte le Chiese cattoliche le preferirà a quelle che da alcune non sono accettate; in quelle che non sono accettate da tutte preferirà quelle che accettano le Chiese più numerose e autorevoli a quelle che accettano le Chiese di numero inferiore e di minore autorità.

Se poi succedesse che alcune sono ritenute autentiche da più Chiese mentre altre da Chiese più autorevoli, sebbene questo caso non si possa risolvere con facilità, io riterrei che le si debba considerare tutte di pari autorità.

8.13 - Canone biblico accettato da Agostino

Il canone completo delle Scritture, al quale diciamo di voler rivolgere la nostra considerazione, si compone dei seguenti libri: i cinque libri di Mosè, cioè Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio, e poi il libro di Gesù figlio di Nave, un libro dei Giudici, un libretto chiamato di Rut, che peraltro sembra appartenere ai Libri dei Regni, come loro principio.

Vengono poi i quattro Libri dei Regni e i due dei Paralipomeni, che non vengono dopo di essi ma sono a loro congiunti e procedono gli uni a fianco degli altri simultaneamente.

Sono libri di storia, che contengono indicazioni temporali collegate fra loro e insieme la successione ordinata dei fatti.

Ci sono poi narrazioni storiche poste, per così dire, in ordine differente, narrazioni che non rispettano né l'ordine storico né si collegano le une con le altre.

Così è Giobbe, Tobia, Ester, Giuditta, e i due Libri dei Maccabei e di Esdra, i quali piuttosto sembrerebbero proseguire quella storia ordinata che si protraeva fino ai Libri dei Regni e dei Paralipomeni.

Successivamente vengono i Profeti, tra i quali un libro di Davide, i Salmi, e tre di Salomone: i Proverbi, il Cantico dei Cantici e l'Ecclesiaste.

Difatti gli altri due libri, intitolati l'uno la Sapienza e l'altro l'Ecclesiastico, per una certa somiglianza vengono detti di Salomone.

È in effetti tradizione quanto mai costante che li abbia scritti Gesù figlio di Sirach;1 tuttavia, siccome sono stati accolti fra i Libri aventi autorità, li si deve annoverare al gruppo dei profetici.

Restano i Libri di coloro che propriamente si chiamano Profeti: un libro per ciascuno di coloro che si chiamano i dodici Profeti, i quali, collegati fra loro ( mai infatti hanno avuto esistenza separata ), costituiscono un unico libro.

I nomi di questi Profeti sono i seguenti: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia.

Poi ci sono i Profeti autori di libri più grandi: Isaia, Geremia, Daniele, Ezechiele.

Con questi quarantaquattro libri si chiude l'autorità canonica del Vecchio Testamento.2

Compongono il Nuovo Testamento i quattro libri del Vangelo: secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni; le quattordici Lettere dell'apostolo Paolo: ai Romani, due ai Corinzi, una ai Galati, agli Efesini e ai Filippesi, due ai Tessalonicesi, una ai Colossesi, due a Timoteo, una a Tito, a Filemone, e agli Ebrei; due lettere di Pietro, tre di Giovanni, una di Giuda, una di Giacomo; e finalmente il libro degli Atti degli Apostoli e quello dell'Apocalisse di Giovanni.

9.14 - Retto modo di procedere nello studio della Scrittura

In tutti questi Libri le persone animate dal timore di Dio e divenute miti in virtù della religione cercano la volontà di Dio.

Ora, riguardo a questo lavoro di ricerca, a volte faticosa, la prima esigenza da rispettare è, come dicevamo, prendere conoscenza di questi libri anche se non si giunge ancora a comprenderli.

Se ne dovrà comunque farne lettura, per impararli a memoria o almeno non essere del tutto nell'ignoranza.

In seguito si debbono ricercare con più acume e diligenza le cose che in tali libri sono esposte in forma più chiara, si tratti di norme di vita o di princìpi di fede.

Ognuno ne troverà tanto di più quanto più è dotato di penetrazione.

In concreto, fra le cose che nella Scrittura sono dette in modo palese ci sono tutte quelle che hanno per contenuto la fede e la condotta di vita, cioè la speranza e la carità, di cui abbiamo trattato nel libro precedente.

Giunti a questo stadio, quando cioè si è acquistata una certa familiarità con la lingua propria delle Sacre Scritture, bisogna inoltrarsi a scoprire ed esaminare ciò che in esse vi è di oscuro.

Per illustrare le espressioni più oscure si prenderanno esempi dai passi più accessibili, di modo che le testimonianze dei passi certi, anche se limitate di numero, tolgano il dubbio ai passi incerti.

In questo lavoro giova moltissimo la memoria, la quale, se manca, non possiamo fornirla noi a forza di regole.

10.15 - Difficoltà create dai segni in uso nella Bibbia

Il contenuto della Scrittura non lo si comprende per due motivi: perché è nascosto o in segni sconosciuti o in segni ambigui.

I segni poi sono o propri o traslati.

Si chiamano segni propri quelli che si usano per significare quelle cose per cui sono stati inventati.

Così quando diciamo " bue " vi intendiamo quell'animale che ogni uomo che parli latino designa, come noi, con questo nome.

Sono segni traslati quelli nei quali le cose che significhiamo col termine proprio vengono usate per significare qualcos'altro.

Così quando diciamo " bue ", con queste due sillabe vi intendiamo quell'animale che di solito va sotto questo nome ma con quell'animale a sua volta intendiamo l'Evangelista cui allude la Scrittura, secondo l'interpretazione dell'Apostolo, che dice: Non metterai la museruola al bue che trebbia. ( 1 Cor 9,9 )

11.16 - Indispensabile la conoscenza delle lingue, specialmente il greco e l'ebraico

Nel caso dei segni propri, se li si ignora, grande rimedio è la conoscenza delle lingue.

E in concreto la gente che parla latino, alla quale è diretta la presente istruzione, per conoscere le divine Scritture ha bisogno di altre due lingue: l'ebraico e il greco.

Con queste si può ricorrere ai testi anteriori, se la quantità delle traduzioni latine, ormai infinita e ricca di varianti, presenta dei dubbi.

È noto che nei libri sacri troviamo anche parole ebraiche che non sono state tradotte, come Amen, Alleluia, Racha, Osanna ed altre ancora.

Di queste alcune furono conservate nell'antica origine per il prestigio di particolare santità, sebbene le si potesse tradurre.

Tali sono Amen e Alleluia.

Di altre invece si dice che non possano essere tradotte in altra lingua, come le ultime due poste nell'esempio citato.

In determinate lingue ci sono infatti parole che non possono entrare mediante traduzione nell'uso di un'altra lingua.

Questo accade soprattutto per le interiezioni, che esprimono un moto dell'animo piuttosto che una parte, sia pur piccola, di frase concepita con la mente.

Tali, a quanto si riferisce, dovrebbero essere quelle ultime due.

Dicono infatti che Racha sia espressione di uno arrabbiato, Osanna di uno in preda alla gioia.

Ma non è per queste poche parole, che sarebbe facilissimo ricercare o domandare, che è necessaria la conoscenza di quelle lingue.

La necessità sorge, come è stato detto, dalle divergenze esistenti fra i diversi traduttori.

Si possono infatti contare coloro che tradussero le Scritture dall'ebraico in greco, ma è impossibile contare i traduttori latini.

Fin dai primi tempi della fede, infatti, man mano che uno veniva in possesso d'un codice greco ed era convinto di possedere un po' di conoscenza dell'una e dell'altra lingua, subito si metteva a tradurre.

12.17 - Grande utilità forniscono i testi paralleli

È stato, questo, un fatto che, anziché ostacolare, ha favorito la comprensione dei testi, purché chi li va a leggere non sia persona trascurata.

Difatti il confronto fra parecchi codici spesso ha giovato a rendere chiare le frasi oscure, come il testo del profeta Isaia, che un interprete ha reso: E i domestici della tua stirpe non disprezzerai; ( Is 58, 7 sec. LXX ) mentre un altro: E non disprezzerai la tua carne. ( Is 58, 7 Volgata )

I due, confrontati fra loro, si confermano a vicenda. In realtà, l'uno si chiarisce mediante l'altro, poiché il termine carne si potrebbe prendere in senso proprio, nel senso cioè che ognuno dovesse ritenersi avvisato a non disprezzare il proprio corpo, mentre i domestici della stirpe, in senso traslato, potrebbero essere i cristiani, nati spiritualmente dallo stesso seme della parola.

Orbene, confrontato fra loro il senso dei due traduttori, ci viene alla mente, come più probabile, l'idea che ivi propriamente si dia il precetto di non trascurare i parenti, poiché se confronti i domestici della stirpe con carne, vengono alla mente soprattutto i consanguinei.

Di tale portata penso che sia anche quel che dice l'Apostolo: Se in qualche modo potrò suscitare la gelosia fra quelli della mia carne per salvare qualcuno di loro, ( Rm 11,14 ) cioè che, ingelositi di quelli che avevano creduto, anche loro abbracciassero la fede.

Chiama sua carne i Giudei a motivo della identità di sangue.

Allo stesso modo è di quel detto dello stesso profeta Isaia: Se non crederete, non comprenderete, ( Is 7, 9b sec. LXX ) che un altro ha tradotto: se non crederete, non avrete stabilità. ( Is 7, 9b Volgata )

Chi dei due abbia riprodotto a paroletta l'originale, è incerto, se non si leggono i testi originali stessi nella lingua madre; è comunque certo che chi sa leggerli con cognizione di causa, dai due testi ricava un profondo significato.

È infatti difficile che due traduttori differiscano talmente fra loro che non si tocchino per qualche elemento di vicinanza.

Orbene, l'intelletto riguarda la visione eterna di Dio, la fede invece nutre i piccoli quasi col latte in mezzo alle cose temporali che sarebbero una specie di culle.

Adesso dunque camminiamo nella fede, non nella visione; ( 2 Cor 5,7 ) e solo se avremo camminato nella fede potremo giungere alla visione, che non è transitoria ma rimane per sempre, quando noi aderiremo alla verità con l'intelletto purificato.

Per questo uno diceva: Se non crederete, non avrete stabilità, l'altro invece: Se non crederete, non comprenderete.

12.18 - Esempi per inculcare la conoscenza delle lingue originali

Il più delle volte il traduttore viene tratto in inganno dal termine ambiguo che reca la lingua antecedente, e, non conoscendo bene il senso della frase, le dà un significato del tutto alieno da quello datole dallo scrittore.

Così alcuni codici leggono: Aguzzi i loro piedi a spargere sangue ( Sal 14, 3 sec. LXX ) όξύς. infatti in greco significa tanto " aguzzo " quanto " veloce ".

Pertanto intese bene la frase chi tradusse: Veloci sono i loro piedi a spargere il sangue, ( Sal 14, 3 Volgata) mentre l'altro cadde in errore trascinato nell'altra direzione da una parola a doppio senso.

Traduzioni simili non sono soltanto oscure ma false, e la situazione in tali casi è ben diversa: si deve imporre che i codici siano non compresi ma emendati.

Uno di tali errori si ha in quest'altro caso.

μόσχος in greco significa " vitello ": motivo per cui alcuni hanno tradotto μοσχεύμαυα non " germogli di vite " ma " mandrie di vitelli ".

Questo errore si è diffuso in tanti codici che se ne trova sì e no qualcuno con l'altra dicitura.

Eppure, l'espressione è chiarissima in quanto manifestata dalle parole che la seguono, e cioè: I vitigni bastardi non metteranno radici profonde, ( Sap 4,3 sec. LXX ) espressione molto più aderente al testo che non " mandrie di vitelli ", animali che camminano per terra con le zampe e non aderiscono alla terra mediante radici. In quel passo però anche gli altri testi similari hanno conservato la stessa traduzione.

13.19 - Le finezze del latino, gradite ai puristi, non necessarie ai pii

Ci sono stati dei traduttori, e parecchi, che si sono espressi ciascuno secondo la sua capacità e il suo giudizio.

In tal caso quale sia il significato della frase non appare se non si consulta la lingua da cui traducono; anzi, succede che il più delle volte il traduttore, se non è dotto al massimo grado, cada in errore allontanandosi dal senso dell'autore.

Occorre pertanto esigere la conoscenza di quelle lingue dalle quali la Scrittura è passata in latino o avere sott'occhio le traduzioni di coloro che si tennero scrupolosamente fedeli alla paroletta.

Queste traduzioni, certo, non sono sufficienti ma da esse si può ricavare la libertà o l'errore di quelli che traducendo preferirono attenersi non tanto alle parole quanto piuttosto alle intere frasi.

Spesso infatti si traducono non solo singole parole ma anche intere frasi in modo che assolutamente non possono tollerarsi nell'uso della lingua latina, almeno se uno vuol conservare l'uso degli antichi che parlavano latino.

Queste traduzioni, a volte, possono non nuocere al significato, ma disgustano coloro che sono assuefatti a dilettarsi maggiormente del contenuto quando anche nei segni vedono osservata, per quanto si può, la necessaria purezza.

Il solecismo, ad esempio ( come lo si chiama ), non è altro se non l'unione di parole fatta non secondo quella legge con cui le unirono coloro che non senza autorità parlarono prima di noi.

Così a chi va in cerca delle cose non interessa se uno dica: Fra gli uomini, o: Fra degli uomini.

Così il barbarismo, il quale cos'è mai se non una parola pronunciata non con quelle lettere o quell'accento con cui suole essere pronunciata da quelli che hanno parlato latino prima di noi?

Ad esempio il verbo ignoscere [ perdonare ].

Colui che chiede a Dio di perdonare i propri peccati non si interessa molto se la terza sillaba debba pronunciarsi in forma lunga o breve, qualunque sia il modo secondo cui quel verbo può suonare.

Cos'è dunque la purezza della fraseologia se non l'osservanza della consuetudine introdotta dagli altri e confermata dall'autorità degli antichi autori?

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1 Retract. 2, 4, 2
2 Retract. 2, 4, 2