La dottrina cristiana

Indice

Libro IV

8.22 - È dono di Dio essere buon interprete della Scrittura

Quanto a noi, siamo soliti prendere degli esempi di eloquenza da quei loro scritti che si comprendono senza difficoltà.

Al contrario non riteniamo di doverli imitare in ciò che dissero in maniera oscura con intenti di utilità e di salvezza.

Con ciò essi si proponevano di esercitare e, per così dire, limare le menti dei lettori, di escludere il tedio e aguzzare l'ingegno di coloro che volevano apprenderne [ il senso ], o anche di nasconderlo agli animi degli empi, sia che lo facessero per convertirli a un profondo senso di rispetto, sia che volessero escluderli dalla comprensione dei misteri.

In effetti essi hanno parlato in modo che quanti fra i posteri li avessero capiti ed esposti rettamente fossero meritevoli di conseguire nella Chiesa di Dio una seconda grazia, certo diversa ma conseguente alla loro.

Chi pertanto si accinge a spiegarli non deve parlare come se avesse la stessa autorità dei libri che espone; ma in tutti i suoi discorsi si sforzi prima di tutto e soprattutto di far capire i libri stessi.

Ciò otterrà, per quanto è possibile, con la chiarezza dell'eloquio, per cui se un uditore non capisce, o dipende dall'essere egli molto tardo d'ingegno ovvero dalla difficoltà ed elevatezza delle cose che intendiamo spiegare e dilucidare, ma non deve esserne motivo il nostro modo di parlare, né deve per questo avvenire che quanto diciamo venga compreso imperfettamente o con ritardo.

9.23 - Come affrontare le questioni difficili e a chi proporle

Succede a volte d'imbattersi in affermazioni che per la loro indole sono incomprensibili o le si comprendono a mala pena, per quanto sia grande e completo il modo di dire di chi parla e ampia la sua spiegazione.

Ora queste cose o molto raramente e solo per necessità o mai assolutamente debbono farsi ascoltare dal popolo.

Tutt'altro è dei libri. Essi si scrivono per conquistare il lettore che li comprende; che se invece non li si comprende, non sono di peso per chi non vuole leggerli.

Lo stesso vale per i colloqui con certe persone: non si deve tralasciare il dovere di portare alla comprensione degli altri le verità che, sebbene difficilissime, noi abbiamo penetrato, qualunque sia lo sforzo richiesto dalla esposizione.

Se un uditore o un interlocutore è preso dal desiderio di imparare e non è privo di intelletto che gli consenta di recepire le cose che gli sono proposte, colui che insegna non deve preoccuparsi dell'eloquenza con cui insegna ma dell'evidenza che vuol conseguire.

10.24 - La scrupolosità linguistica ceda all'appropriata comprensione del senso

Il desiderio profondo di [ ottenere ] questa evidenza porta a volte a trascurare le parole più ricercate e non si prende cura di ciò che suona bene ma di ciò che esprime e manifesta quanto l'oratore ha intenzione di palesare.

In ordine a ciò, disse un tale, parlando di questo genere di eloquenza, che c'è in essa una specie di negligenza diligente.5

Questa negligenza però, se esclude il parlare forbito, non lo fa in modo che cada nella banalità.

Peraltro nei buoni maestri è, o deve essere, tanta cura che, se una parola non può essere latina senza essere nello stesso tempo oscura o ambigua - mentre se la cosa viene detta in termini popolari si evita e l'ambiguità e l'oscurità - non si deve parlare con il linguaggio dei dotti ma piuttosto come sogliono i meno istruiti.

Così i nostri traduttori non ebbero ritegno di dire: Non congregabo conventicula eorum de sanguinibus ( Sal 16,4 ) [ = non radunerò le loro assemblee di sangue ], perché ritennero necessario che in quel passo il nome " sangue " fosse usato al plurale, nonostante che in latino lo si usi solo al singolare.

Perché un oratore sacro dovrebbe quindi aver paura di dire, parlando a degli incolti, ossum invece di os, per impedire che questa sillaba venga presa come derivante non da quel nominativo il cui plurale è ossa ma da quell'altro da cui deriva il plurale ora, dato che gli orecchi degli africani non sono in grado di percepire la brevità o la lunghezza delle sillabe?

Cosa giova infatti una scrupolosità nel parlare che non sia seguita dalla comprensione di chi ascolta, ( mentre l'unica ragione del parlare non è assolutamente altra che questa )?

Se cioè coloro per i quali noi parliamo in effetti non capiscono il nostro dire?

Chi insegna eviterà dunque tutte le parole che non insegnano nulla, e, se in loro vece potrà dirne delle altre corrette e intelligibili, sceglierà queste; se invece non potrà farlo, o perché non ci sono o perché sul momento non gli vengono in mente, si servirà di parole anche meno corrette, purché la cosa in sé sia insegnata e appresa con la necessaria esattezza.

10.25 - Insistenza doverosa e verbosità nociva

Questa cosa, cioè il farsi capire, dobbiamo ad ogni costo proporcela non solo nei dialoghi tenuti o con una persona o con molte ma anche, e molto più, quando si tengono discorsi al popolo.

In realtà, nei dialoghi ognuno può fare delle interrogazioni, mentre invece là, dove tutti tacciono perché sia udita la voce di uno a cui sono rivolti gli sguardi attenti dell'uditorio, lì non è uso né convenienza porre domande su ciò che non si è compreso.

Per questo motivo la premura di chi parla deve con ogni sforzo andare incontro a chi è costretto a tacere.

È vero che una folla smaniosa di conoscere suole con determinati gesti indicare se abbia capito, ma finché non lo ha indicato bisogna trattare in molti modi l'argomento che si spiega e sempre con molta varietà di esposizione, cosa impossibile a coloro che espongono cose imparate antecedentemente e mandate a memoria a paroletta.

Quando poi ci si accorgerà che l'argomento è stato compreso, si deve o por fine al discorso o passare ad altro tema.

Difatti, come è gradito colui che rende chiare le cose da conoscersi, così diviene pesante chi insiste su cose ormai note ripetendole all'ascoltatore le cui attese miravano esclusivamente a che venisse dilucidata la difficoltà di ciò che si stava esponendo.

È vero che a volte si parla anche di cose note al fine di dilettare; ma lì non si bada tanto alle cose in se stesse quanto al modo di presentarle.

Che se anche questo è conosciuto e piace agli uditori, poco o nulla interessa se chi lo riferisce sia lo stesso oratore o un lettore.

In effetti le cose scritte in maniera appropriata vengono poi lette con gusto non solo da coloro che ne vengono a conoscenza per la prima volta ma vengono rilette, non senza pari gusto, anche da coloro che da tempo le conoscevano e non se ne erano dimenticati.

Gli uni e gli altri le ascoltano volentieri.

Quanto poi alle cose di cui ci si è dimenticati, quando le si ricorda è come se venissero insegnate daccapo.

Ma ora non voglio trattare del modo di rendersi piacevoli; parlo solo del modo di insegnare le cose a coloro che desiderano impararle.

E il modo migliore è questo: far sì che chi ascolta ascolti la verità e comprenda ciò che ha ascoltato.

Quando un tale scopo sia stato raggiunto, non ci si deve affannare più oltre intorno alla stessa cosa, quasi per insegnarla più diffusamente, ma si deve solo - se del caso - raccomandarla perché si fissi nel cuore.

Che se si riterrà opportuno fare questo, lo si faccia con moderazione per non tediare.

11.26 - L'eloquenza rende manifesto ciò che è oscuro

In fatto di insegnamento l'eloquenza consiste precisamente in questo: parlare non perché piaccia ciò che incuteva orrore né perché si compia ciò che creava difficoltà, ma perché appaia manifesto ciò che era oscuro.

Se tuttavia questo si fa in maniera sgradevole, il suo frutto è percepito solo da quei pochi appassionati che desiderano sapere le cose da apprendersi anche se dette in modo scadente e disadorno.

Quando si sono appropriati della verità, si nutrono del gusto di lei, poiché la nota caratteristica dei buoni ingegni sta in questo: nelle parole, amare la verità non le parole.

Cosa giova infatti una chiave d'oro se non è in grado di aprire ciò che vorremmo?

O che male c'è se una chiave è di legno ma riesce ad aprire?

In effetti noi non ci preoccupiamo d'altro che di aprire ciò che è chiuso.

Ma poiché hanno fra loro una certa somiglianza quelli che mangiano e quelli che apprendono, ecco che per evitare il disgusto dei più si debbono condire anche quegli alimenti senza i quali non si può vivere.

12.27 - L'oratore deve istruire, piacere, convincere

Un personaggio celebre per la sua eloquenza ha detto - e diceva la verità - che l'oratore deve parlare in modo da istruire, da piacere e da convincere.

E aggiungeva: Istruire è necessità; piacere, dolcezza; convincere, vittoria.6

Di queste tre cose quella che è stata segnalata al primo posto, cioè la necessità di istruire, appartiene all'essenza stessa delle cose che diciamo, mentre le altre due riguardano il modo come le diciamo.

Chi dunque parla allo scopo di istruire, finché non è stato compreso non ritenga di aver comunicato il suo sapere a colui che si proponeva di istruire.

In effetti, sebbene abbia detto le cose che egli personalmente comprende, non deve ritenere di averle dette a colui dal quale non è stato compreso.

Se al contrario è stato compreso, in qualunque modo le abbia dette le ha dette bene.

Se invece vuol dilettare o convincere colui a cui parla, ciò otterrà non parlando come gli viene sulla lingua ma ricercando anche il modo di porgere.

Pertanto come si deve piacere all'uditore per cattivarsene l'ascolto così lo si deve convincere per farlo passare all'azione; e come gli si piace parlando con gradevolezza, così lo si convince se si riuscirà a fargli amare quel che gli si promette, a temere ciò che gli si minaccia, a odiare ciò che gli si rimprovera, ad accettare ciò che gli si raccomanda, a dolersi di ciò che a fosche tinte gli si descrive come spiacevole.

Così quando predichi che goda di ciò che procura gioia, che abbia compassione di coloro che a parole gli dipingi come persone meritevoli d'essere compatite, che eviti coloro che spaventandolo gli proponi di dover fuggire.

Lo stesso si dica di ogni altra cosa che con l'eloquenza solenne può conseguirsi in ordine all'eccitare gli animi degli uditori non a conoscere ciò che si deve fare, ma a fare ciò che già conoscono come necessario a farsi.

12.28 - Il compito primario dell'oratore è istruire

Se peraltro gli uditori ancora non conoscono [ la cosa ], è necessario, certo, che prima li si istruisca e poi commuova.

E può capitare che, conosciute in se stesse le cose, se ne entusiasmino in modo che non occorra spronarli con maggiore sforzo di eloquenza.

Quando invece è necessario, lo si deve fare, e la necessità sussiste quando, pur conoscendo quel che è da farsi, in realtà essi non lo fanno.

Da ciò appare come l'istruire sia una cosa necessaria, in quanto gli uomini possono fare o non fare quel che conoscono, mentre chi direbbe che essi sono obbligati a fare quel che non conoscono?

Ne segue che il convincere non sempre è di necessità, in quanto non sempre ne sussiste il bisogno: così nel caso che l'uditore abbia dato l'assenso all'oratore che insegna o riesce ad attirare piacevolmente.

Che poi il consentire rappresenti la vittoria lo si ricava dal fatto che uno può insegnare e piacere ma non ottenere l'assenso.

E allora cosa giovano le altre due cose, se manca questa terza?

Ma nemmeno il piacere è cosa strettamente necessaria.

Può succedere infatti che nello stesso discorso divenga palese la verità, e fin qui si resta nell'ambito dell'insegnamento.

Non si tratta quindi del modo di parlare, né si bada a che rechi gusto o la verità o il modo di porgerla, ma sono le cose che di per se stesse, una volta chiarite, recano diletto, per essere conformi a verità.

Ecco perché capita, e di frequente, che piacciano anche le cose false, una volta chiarite e dimostrate.

Non piacciono perché sono false ma, essendo vero che sono false, piace l'argomentazione per la quale si dimostra essere vera la loro falsità.

13.29 - Per ottenere conseguenze pratiche positive occorrono varie doti nell'oratore

Per andare incontro a quei tali cui, per essere schizzinosi, la verità non piacerebbe se la si presentasse in qualsiasi modo, ma la si deve porgere solo in modo che insieme piaccia anche il discorso dell'oratore, è stata attribuita nell'eloquenza non piccola importanza anche alla piacevolezza del dire.

Questa tuttavia, anche se presente, non basta per certi animi induriti cui non reca giovamento né l'aver capito né l'aver gustato l'eloquenza dell'oratore.

Che vantaggio infatti recano queste due doti del discorso all'uomo che confessa la verità e loda l'eloquenza, tuttavia non presta l'assenso, che è l'unico scopo a cui tende l'oratore nelle cose che dice volendo creare una persuasione?

Se si insegnano infatti cose in cui sia sufficiente credere o conoscere, il consentire ad esse altro non è che confessare la loro verità; ma quando si insegnano cose che si debbono fare e le si insegna appunto perché le si faccia, è vano rendere l'uditore persuaso della verità di ciò che si dice, è vano anche il fatto che piaccia il modo di porgere, se le cose non le si imparano in modo che vengano tradotte in pratica.

Occorre dunque che l'oratore ecclesiastico, quando inculca cose da praticarsi, non solamente insegni per istruire o piaccia per impressionare ma anche che convinca in modo da vincere [ le resistenze ].

Se infatti in un uditore la verità esposta anche con l'aggiunta d'una suadente dizione non consegue l'effetto d'essere accettata, non resta che lo si pieghi a prestare il consenso mediante la forza di una eloquenza solenne.

Indice

5 Cicero, De orat. 1, 78
6 Cicero, De orat. 1, 69