La Genesi alla lettera

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Libro VIII

11.24 - Perché la Scrittura chiama qui Dio: il Signore

Io penso perciò che non sia privo di significato, ma che ci richiami alla mente qualcosa d'importante, il fatto che dalla prima riga di questo libro della sacra Scrittura, cioè dalla frase iniziale: Nel principio Dio creò il cielo e la terra, fino al passo che qui discutiamo, la Scrittura non dice mai "il Signore Iddio", ma soltanto Dio.

Ora, al contrario, appena giunta al punto in cui racconta che Dio pose l'uomo nel paradiso per coltivarlo e custodirlo in ubbidienza al suo precetto, la Scrittura dice: Il Signore Iddio prese poi l'uomo ch'egli aveva creato e lo pose nel paradiso a coltivarlo e custodirlo. ( Gen 2,15 )

Dice così non perché Dio non fosse il Signore delle altre creature menzionate in antecedenza, ma perché questa frase non era scritta né per gli angeli né per alcun altro degli esseri creati, bensì per l'uomo, al fine di ricordargli quanto gli sia utile aver Dio per Signore; vivere cioè in ubbidienza sotto la sua sovranità piuttosto che secondo il proprio arbitrio, abusando senza alcuna misura del proprio potere.

Ecco perché l'autore sacro non volle usare questa espressione prima di arrivare al punto [ del suo racconto ] in cui l'uomo sarebbe stato messo nel paradiso per coltivarlo e custodirlo.

La Scrittura non dice più, come per le altre opere precedenti: "Dio inoltre prese l'uomo da lui creato", ma dice: Il Signore Dio prese poi l'uomo da lui creato e lo mise nel paradiso per coltivarlo, affinché fosse giusto, e per custodirlo, affinché fosse sicuro operando precisamente sotto la sua sovranità, che è utile non già a Dio, ma a noi.

Non è infatti Dio che ha bisogno della nostra sudditanza, ma siamo noi che abbiamo bisogno della sua sovranità, affinché egli ci coltivi e ci custodisca.

Ecco perché è lui il vero e solo Signore, poiché noi serviamo lui non per la sua ma per la nostra utilità e salvezza.

Se, infatti, fosse lui ad avere bisogno di noi, per ciò stesso non sarebbe il vero Signore, perché saremmo noi a soccorrere la sua indigenza, alla quale sarebbe soggetto anche lui.

Giustamente il Salmista dice in un suo Salmo: Io ho detto al Signore: Mio Dio sei tu, poiché non hai bisogno dei miei beni. ( Sal 16,2 )

Quanto a ciò che abbiamo detto, che cioè noi serviamo Dio per il nostro bene e per la nostra salvezza, non dobbiamo prenderlo nel senso che noi aspettiamo qualcos'altro di diverso da lui ma unicamente lui stesso che è il sommo Bene e la nostra salvezza; è così che lo amiamo disinteressatamente conforme a quanto dice il Salmista: Bene è per me stare unito a Dio. ( Sal 73,28 )

12.25 - L'uomo è incapace di fare il bene senza Dio

L'uomo non è un essere costituito in modo che, una volta creato, possa compiere alcuna buona azione come se potesse farla da se stesso, qualora venisse abbandonato dal suo Creatore.

Tutta la sua azione buona consiste invece nel volgersi verso il proprio Creatore e per opera di lui divenire giusto, pio, saggio e sempre felice; egli però non deve acquisire queste qualità e poi allontanarsi da lui come fa uno che, una volta guarito dal medico del corpo, se ne va per conto suo; poiché il medico del corpo presta solo esternamente la sua opera alla natura che opera internamente sotto l'azione di Dio, che è la causa di tutta la salute con la duplice azione della Provvidenza, di cui abbiamo parlato più sopra.

L'uomo dunque non deve volgersi a Dio in modo che, una volta reso giusto, se ne allontani, ma in modo da ricevere sempre la giustificazione da lui.

Poiché proprio per il fatto che non si allontana da Dio che non cessa di coltivarlo e custodirlo, viene giustificato da lui che gli è presente, viene illuminato e reso felice finché resta ubbidiente e sottomesso ai suoi precetti.

12.26 - Come Dio lavora l'uomo

L'opera di Dio però non è come quella dell'uomo, il quale - come dicevamo - coltiva la terra perché sia in condizione di produrre ed essere fertile, e dopo aver fatto il proprio lavoro se ne va lasciandola arata o seminata o irrigata o in qualsiasi altro modo preparata; anche se l'agricoltore se ne va, rimane tuttavia l'opera compiuta.

Dio invece non fa così: egli coltiva - è vero - l'uomo rendendolo giusto, cioè giustificandolo, ma non in modo che, se egli si allontana, l'opera da lui compiuta rimanga in chi si allontana da lui.

Avviene invece piuttosto come avviene nell'aria che non è luminosa per sé ma lo diventa quando è presente la luce poiché, se fosse già luminosa di per sé e non lo diventasse, rimarrebbe luminosa anche quando manca la luce.

Così l'uomo viene illuminato da Dio se Dio è presente a lui ma, se Dio è assente, piomba subito nelle tenebre.

Da Dio però ci si allontana non a causa di distanze spaziali tra noi e lui, ma a causa dell'avversione della volontà umana che si volge via da lui.

12.27 - L'uomo diventa buono per mezzo di colui che è immutabilmente buono

È dunque Dio - che è immutabilmente buono - colui che colloca e custodisce l'uomo per renderlo e conservarlo buono.

Da lui noi dobbiamo essere continuamente fatti e continuamente resi perfetti, restando uniti a lui e rivolti verso di lui, del quale la Scrittura dice: Bene è per me restare unito a Dio, ( Sal 59,10 ) e al quale viene detto: Io conserverò la mia forza rivolto verso di te. ( Ef 2,10 )

Noi infatti siamo opera sua non solo perché fossimo esseri umani ma anche perché fossimo buoni.

Anche l'Apostolo infatti, parlando ai fedeli convertiti dall'incredulità, mette in risalto la grazia in virtù della quale sono stati salvati e dice: In virtù di questa grazia infatti voi siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi ma è dono di Dio, né viene dalle opere perché nessuno per caso se ne vanti. Noi infatti siamo opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone predisposte da Dio perché noi le compissimo. ( Ef 2,8-10 )

E in un altro passo, dopo aver detto: Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore, per allontanare da essi il pensiero di attribuire a se stesso il merito d'esser divenuti giusti e buoni, subito soggiunge: È Dio infatti che opera in voi. ( Fil 2,12-13 )

Prese dunque Dio l'uomo da lui creato e lo mise nel paradiso per lavorarlo - cioè perché lavorasse in lui - e custodirlo.

13.28 - Perché all'uomo fu proibito di mangiare il frutto di quell'albero buono?

Il Signore Iddio diede poi questo comando ad Adamo, dicendo: D'ogni albero che si trova nel paradiso tu potrai mangiare sicuramente, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non dovrai mangiare poiché il giorno che ne mangerete morrete certamente. ( Gen 2,16s )

Se quell'albero, di cui Dio aveva proibito all'uomo di mangiare, fosse stato qualcosa di male, sarebbe potuto sembrare che l'uomo sarebbe rimasto avvelenato a morte proprio dalla natura cattiva di quell'albero.

Ma poiché Dio aveva piantato nel paradiso alberi tutti buoni, avendo creato molto buone tutte le cose, ( Gen 1, 12.31 ) e non c'era alcuna natura cattiva, poiché in nessuna cosa c'è alcuna natura di male - ma ciò lo esamineremo con più attenzione, se il Signore vorrà, quando parleremo del serpente - all'uomo fu proibito di toccare quell'albero, che non era cattivo, affinché la stessa osservanza del precetto fosse in se stessa un bene per lui e la trasgressione del male.

13.29 - Il gran bene dell'ubbidienza e il gran male della disubbidienza

Non si sarebbe potuto mostrare meglio e più esattamente qual gran male è la disubbidienza in se stessa, dal momento che l'uomo si rese colpevole di peccato solo per aver toccato, contro il divieto, una cosa che, se l'avesse toccata senza che gli fosse stata proibita, di certo non avrebbe peccato.

Poiché se uno, per esempio, dice: "Non toccate quest'erba", se per caso è velenosa, e predice la morte per chi la toccherà, certamente a colui che disprezzerà il divieto toccherà la morte; ma anche se nessuno lo avesse proibito e qualcuno avesse toccato l'erba, sarebbe tuttavia morto certamente.

Quell'erba infatti sarebbe stata nociva alla sua salute e alla sua vita, avesse ricevuto o no il divieto di toccarla.

Può darsi peraltro che uno vieti di toccare una cosa perché l'azione recherebbe danno non a chi fa l'azione, ma a chi la vieta, come sarebbe il caso di chi mettesse le mani sul denaro altrui contravvenendo al divieto del proprietario del denaro; quell'azione allora sarebbe peccato per chi ne ha ricevuto il divieto, poiché potrebbe risultare dannosa per chi l'ha vietata.

Quando, al contrario, si tocca qualcosa senza che l'azione rechi danno né a chi la tocca - qualora non gli fosse proibito - né ad alcun altro in qualunque momento la si toccasse, perché mai è un'azione vietata, se non per mostrare qual male sia la disubbidienza in se stessa?

13.30 - Il peccato è ribellione alla volontà di Dio

Per conseguenza chi commette un peccato, non brama se non sottrarsi alla sovranità di Dio quando egli commette un'azione ch'è peccaminosa solo in quanto è proibita da Dio.

Se a ciò solo si fosse prestata attenzione, a chi si sarebbe prestata attenzione se non alla volontà di Dio?

Cos'altro si sarebbe amato, se non la volontà di Dio? Cos'altro si sarebbe preferito alla volontà umana, se non quella di Dio?

Lo saprà certo il Signore perché ha dato l'ordine: al servitore tocca solo far ciò che Dio ha ordinato, e solo allora chi ha il merito [ dell'ubbidienza ] potrà vedere perché Dio ha dato quell'ordine.

Tuttavia non dobbiamo indagare più a lungo il motivo di quell'ordine, dal momento che un gran vantaggio per l'uomo è proprio quello di servire Dio.

Iddio con il comandare rende vantaggioso tutto ciò che vorrà comandare, poiché non dobbiamo temere che egli possa comandare qualcosa che non sia per il nostro bene.

14.31 - Dal disprezzo del precetto di Dio l'esperienza del male

È impossibile che la volontà propria dell'uomo non si abbatta su di lui con il peso di una grande sventura, se nella sua superbia la preferisce alla volontà di Colui che gli è superiore.

Ecco quel che ha sperimentato l'uomo nel disprezzare il precetto di Dio, e da questa esperienza ha imparato quale differenza c'è tra il bene e il male, ossia tra il bene dell'ubbidienza e il male della disubbidienza, vale a dire della superbia e della ribellione, della perversa imitazione di Dio e della dannosa libertà.

Anche se l'albero poté essere l'occasione di questa esperienza, esso prese il nome dall'azione stessa [ della disubbidienza ], come ho già detto più sopra.

Infatti noi non conosceremmo il male se non lo provassimo per esperienza, poiché non esisterebbe, se non lo avessimo commesso.

Poiché il male non è una sostanza, ma ciò a cui diamo il nome di "male" è la perdita del bene.

Il Bene immutabile è Dio, l'uomo invece relativamente alla sua natura in cui è stato creato da Dio, è sì un bene, ma non il bene immutabile come Dio.

Ora un bene mutevole, che è inferiore al Bene immutabile, diventa migliore quando si tiene unito a Dio, il Bene immutabile, amandolo e servendolo con la propria volontà razionale e personale.

Ecco perché questa natura è anch'essa un gran bene poiché ha ricevuto la facoltà di unirsi alla natura del sommo Bene.

Se però l'uomo lo rifiuterà, priverà se stesso del bene e questo rifiuto è per lui un male, dal quale a causa della giustizia di Dio deriva anche il tormento.

Che cosa infatti potrebbe essere più contrario alla giustizia che il benessere di chi ha abbandonato il Bene?

È assolutamente impossibile che sia così.

Talora però la perdita d'un bene superiore non è percepita come un male quando si possiede un bene inferiore che si ama.

La giustizia divina vuole tuttavia che, se uno ha perduto volontariamente un bene che avrebbe dovuto amare, soffra la pena d'aver perduto il bene da lui amato, venendo così ad essere lodato in tutte le cose il Creatore delle nature.

È comunque anche un bene che l'uomo senta dolore per il bene da lui perduto poiché, se non rimanesse un qualche bene nella natura, non sentirebbe il castigo che egli ha nel soffrire per il bene perduto.

14.32 - Duplice maniera di conoscere il bene e il male

Chi ama il bene senza aver fatto esperienza del male, chi cioè, prima di provare [ dolore per ] la perdita del bene, sceglie di mantenersi il bene per non perderlo, è degno d'essere lodato al di sopra di tutti gli altri uomini.

Ma se questa dote non fosse d'un pregio singolare, non sarebbe attribuita al Bambino che, nato dalla stirpe d'Israele, divenuto Emmanuele, cioè "Dio con noi", ( Is 7,14; Mt 1,23 ) ci riconciliò con Dio, come Uomo mediatore tra gli uomini e Dio, ( 1 Tm 2,5 ) Verbo con Dio, carne con noi, ( Gv 1, 1.14 ) Verbo incarnato tra Dio e noi.

Di lui infatti il Profeta dice: Prima che il bambino conosca il bene e il male, rigetterà il male per scegliere il bene. ( Is 7, 16 sec. LXX )

Ma come fa [ il Bimbo ] a rigettare o a scegliere ciò che non conosce, se non perché queste due cose sono conosciute in due modi diversi: in un modo per via della sapienza con cui si sceglie il bene, in un altro per via dell'esperienza che si è avuta del male?

Il male, anche se non se ne fa l'esperienza, è conosciuto mediante la sapienza di conservare il bene: uno si tiene stretto al bene per evitare di perderlo e sperimentare così il male.

Così pure il bene si conosce mediante l'esperienza del male, perché comprende che cosa ha perduto colui che soffre il male per la perdita del bene.

Ancor prima dunque che il Bambino conoscesse il bene, di cui fosse rimasto privo, o il male che avrebbe potuto provare per la perdita del bene, rigettò il male per scegliere il bene, non volle cioè perdere quel che aveva, per tema di provare [ il dolore per ] la perdita di ciò che non avrebbe dovuto perdere.

Singolare esempio d'ubbidienza è questo poiché [ il Signore ] non venne per fare la volontà propria ma quella di Colui dal quale era stato inviato, ( Gv 6,38 ) a differenza di colui che preferì di far la propria volontà e non quella del suo Creatore.

Giustamente perciò [ la Scrittura ] dice: Come, per causa della disubbidienza di un solo uomo, molti sono stati fatti peccatori, così anche per l'ubbidienza di un solo Uomo molti sono fatti giusti ( Rm 5,19 ), poiché allo stesso modo che tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. ( 1 Cor 15,22 )

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