Dono e mistero

Nel 50° del mio sacerdozio

I - Agli inizi … il mistero!

La storia della mia vocazione sacerdotale?

La conosce soprattutto Dio.

Nel suo strato più profondo, ogni vocazione sacerdotale è un grande mistero, è un dono che supera infinitamente l'uomo.

Ognuno di noi sacerdoti lo sperimenta chiaramente in tutta la sua vita.

Di fronte alla grandezza di questo dono sentiamo quanto siamo ad esso inadeguati.

La vocazione è il mistero dell'elezione divina: « Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga » ( Gv 15,16 ).

« E nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne » ( Eb 5,4 ).

« Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo; prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni » ( Ger 1,5 ).

Queste parole ispirate non possono non scuotere con un profondo tremore ogni anima sacerdotale.

Per questo, quando nelle più diverse circostanze - per esempio, in occasione dei Giubilei sacerdotali - parliamo del sacerdozio e ne diamo testimonianza, dobbiamo farlo con grande umiltà, consapevoli che Dio « ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia » ( 2 Tm 1,9 ).

Contemporaneamente ci rendiamo conto che le parole umane non sono in grado di reggere il peso del mistero che il sacerdozio porta in sé.

Questa premessa mi è sembrata indispensabile, perché si possa comprendere in modo giusto quello che dirò del mio cammino verso il sacerdozio.

I primi segni della vocazione

L'Arcivescovo Metropolita di Cracovia, Principe Adam Stefan Sapieha, visitò la parrocchia di Wadowice quando ero studente di ginnasio.

Il mio insegnante di religione, P. Edward Zacher, mi affidò il compito di porgergli il benvenuto.

Ebbi allora per la prima volta l'occasione di trovarmi di fronte a quell'uomo molto venerato da tutti.

So che, dopo il mio discorso, l'Arcivescovo domandò all'insegnante di religione quale facoltà avrei scelto dopo la maturità.

P. Zacher rispose: « Studierà Filologia polacca ».

Il Presule avrebbe risposto: « Peccato che non sia la teologia ».

In quel periodo della mia vita la vocazione sacerdotale non era ancora matura, anche se intorno a me non pochi erano del parere che dovessi entrare in seminario.

E forse qualcuno avrà supposto che, se un giovane con così chiare inclinazioni religiose non entrava in seminario, era segno che in gioco v'erano altri amori o predilezioni.

Di fatto, a scuola avevo molte colleghe e, impegnato com'ero nel circolo teatrale scolastico, avevo svariate possibilità di incontri con ragazzi e ragazze.

Il problema tuttavia non era questo.

In quel periodo ero preso soprattutto dalla passione per la letteratura, in particolare per quella drammatica, e per il teatro.

A quest'ultimo m'aveva iniziato Mieczyslaw Kotlarczyk, insegnante di lingua polacca, più avanti di me negli anni.

Egli era un vero pioniere del teatro dilettantistico e coltivava grandi ambizioni di un repertorio impegnato.

Gli studi all'Università Jaghellonica

Nel maggio 1938, superato l'esame di maturità, mi iscrissi all'Università per seguire i corsi di Filologia polacca.

Per questo motivo mi trasferii insieme con mio padre da Wadowice a Cracovia.

Ci sistemammo a via Tyniecka 10, nel quartiere di Debniki.

La casa apparteneva ai parenti di mia madre.

Intrapresi gli studi alla Facoltà di Filosofia dell'Università Jaghellonica, seguendo i corsi di Filologia polacca, ma riuscii a finire soltanto il primo anno, perché il 1° settembre 1939 scoppiò la seconda guerra mondiale.

A proposito degli studi, desidero sottolineare che la mia scelta della Filologia polacca era motivata da una chiara predisposizione verso la letteratura.

Tuttavia, già durante il primo anno, attirò la mia attenzione lo studio della lingua stessa.

Studiavamo la grammatica descrittiva del polacco moderno ed insieme l'evoluzione storica della lingua, con un particolare interesse per il vecchio ceppo slavo.

Questo mi introdusse in orizzonti completamente nuovi, per non dire nel mistero stesso della parola.

La parola, prima di essere pronunciata sul palcoscenico, vive nella storia dell'uomo come dimensione fondamentale della sua esperienza spirituale.

In ultima analisi, essa rimanda all'imperscrutabile mistero di Dio stesso.

Riscoprendo la parola attraverso gli studi letterari e linguistici, non potevo non avvicinarmi al mistero della Parola, di quella Parola a cui ci riferiamo ogni giorno nella preghiera dell'Angelus: « E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi » ( Gv 1,14 ).

Capii più tardi che gli studi di Filologia polacca preparavano in me il terreno per un altro genere di interessi e di studi.

Predisponevano il mio animo ad accostarsi alla filosofia e alla teologia.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale

Ma torniamo al 1° settembre 1939.

Lo scoppio della guerra cambiò in modo piuttosto radicale l'andamento della mia vita.

In verità i professori dell'Università Jaghellonica tentarono di avviare ugualmente il nuovo anno accademico, ma le lezioni durarono soltanto fino al 6 novembre 1939.

In quel giorno le autorità tedesche convocarono tutti i professori in un'assemblea che si concluse con la deportazione di quei rispettabili uomini di scienza nel campo di concentramento di Sachsenhausen.

Finiva così nella mia vita il periodo degli studi di Filologia polacca e cominciava la fase dell'occupazione tedesca, durante la quale inizialmente tentai di leggere e di scrivere molto.

Proprio a quell'epoca risalgono i miei primi lavori letterari.

Per evitare la deportazione ai lavori forzati in Germania, nell'autunno del 1940 cominciai a lavorare come operaio in una cava di pietra collegata con la fabbrica chimica Solvay.

Si trovava a Zakrzówek, a circa mezz'ora dalla mia casa di Debniki, ed ogni giorno vi andavo a piedi.

Su quella cava scrissi poi una poesia.

Rileggendola dopo tanti anni, la trovo ancora particolarmente espressiva di quella singolare esperienza: « Ascolta, il ritmo uguale dei martelli, così noto, io lo proietto negli uomini, per saggiare la forza d'ogni colpo.

Ascolta, una scarica elettrica taglia il fiume di pietra, e in me cresce un pensiero, di giorno in giorno: tutta la grandezza del lavoro è dentro l'uomo … » . ( La cava di pietra: I, Materia, 1 )

Ero presente quando, durante lo scoppio d'una carica di dinamite, le pietre colpirono un operaio e lo uccisero.

Ne rimasi profondamente sconvolto: « Sollevarono il corpo.

Sfilarono in silenzio.

Da lui ancora emanava fatica ed un senso d'ingiustizia » … ( La cava di pietra: IV, In memoria di un compagno di lavoro, 2-3 )

I responsabili della cava, che erano polacchi, cercavano di risparmiare a noi studenti i lavori più pesanti.

A me, per esempio, assegnarono il compito di aiutante del cosiddetto brillatore: si chiamava Franciszek Labus.

Lo ricordo perché, qualche volta, si rivolgeva a me con parole di questo genere: « Karol, tu dovresti fare il prete.

Canterai bene, perché hai una bella voce e starai bene … ».

Lo diceva con tutta semplicità, esprimendo così una convinzione abbastanza diffusa nella società circa la condizione del sacerdote.

Le parole del vecchio operaio mi si sono impresse nella memoria.

Il teatro della parola viva

In quel periodo rimasi in contatto con il teatro della parola viva, che Mieczyslaw Kotlarczyk aveva fondato e continuava ad animare nella clandestinità.

L'impegno nel teatro fu all'inizio favorito dall'avere ospiti in casa mia Kotlarczyk e sua moglie Sofia, che erano riusciti a passare da Wadowice a Cracovia entro il territorio del « Governatorato Generale ».

Abitavamo insieme.

Io lavoravo come operaio, lui inizialmente come tramviere e, in seguito, come impiegato in un ufficio.

Condividendo la stessa casa, potevamo non solo continuare i nostri discorsi sul teatro, ma anche tentarne attuazioni concrete, che assumevano appunto il carattere di teatro della parola.

Era un teatro molto semplice.

La parte scenica e decorativa era ridotta al minimo; l'impegno si concentrava essenzialmente nella recitazione del testo poetico.

Le recite avvenivano davanti ad un ristretto gruppo di conoscenti e di invitati, i quali avevano uno specifico interesse per la letteratura ed erano, in qualche modo, degli « iniziati ».

Mantenere il segreto intorno a questi incontri teatrali era indispensabile; si rischiavano altrimenti gravi punizioni da parte delle autorità d'occupazione, non esclusa la deportazione nei campi di concentramento.

Devo ammettere che tutta quella esperienza teatrale mi si è impressa profondamente nell'animo, anche se ad un certo momento mi resi conto che in realtà non era questa la mia vocazione.

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