Summa Teologica - I-II

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Articolo 5 - Se una circostanza possa cambiare un peccato da veniale a mortale

In 4 Sent., d. 16, q. 3, a. 2, sol. 4; De Malo, q. 2, a. 8, q. 7, a. 4

Pare che una circostanza possa cambiare un peccato da veniale a mortale.

Infatti:

1. S. Agostino [ Serm. ad pop. 104 ] insegna che « se l'ira ha lunga durata, e se l'ubriachezza è frequente, passano nel numero dei peccati mortali ».

Ora, l'ira e l'ubriachezza nel loro genere non sono peccati mortali, ma veniali: altrimenti sarebbero sempre mortali.

Quindi una circostanza rende mortale un peccato veniale.

2. Il Maestro delle Sentenze [ 2,24,12 ] afferma che la dilettazione, se è morosa, è peccato mortale; se invece non è morosa, è peccato veniale.

Ma la morosità è una circostanza.

Quindi una circostanza può cambiare in mortale un peccato veniale.

3. C'è più distanza tra il bene e il male che tra un peccato veniale e uno mortale, che sono entrambi mali.

Ma una circostanza può rendere cattivo un atto buono: come è evidente quando uno fa l'elemosina per vanagloria.

Perciò è assai più facile per essa far cambiare un peccato da veniale a mortale.

In contrario:

Essendo la circostanza un accidente, la sua grandezza non può sorpassare la grandezza specifica dell'atto a cui appartiene: infatti il soggetto è sempre superiore al proprio accidente.

Se quindi l'atto nel suo genere è un peccato veniale, non potrà diventare mortale per le circostanze: poiché un peccato mortale, come si è detto [ q. 72, a. 5, ad 1; q. 87, a. 5, ad 1 ], sorpassa infinitamente, in un certo senso, la grandezza del peccato veniale.

Dimostrazione:

Sopra [ q. 7, a. 1; q. 18, a. 5, ad 4; aa. 10,11 ], trattando delle circostanze, abbiamo detto che esse, in quanto tali, sono degli accidenti dell'atto morale: tuttavia può capitare che una circostanza sia considerata come una differenza specifica dell'atto morale, e allora perde il carattere di circostanza e costituisce la specie morale dell'atto.

Ora, ciò avviene quando una circostanza aggiunge al peccato una deformità di altro genere.

Quando uno, p. es., si unisce a una donna che non è la propria moglie, si ha nell'atto la sola deformità contraria alla castità; se però si unisce alla moglie di un altro, allora si aggiunge la deformità contraria alla giustizia, che proibisce di usurpare il bene altrui.

E in questo caso la circostanza costituisce una nuova specie di peccato, cioè l'adulterio.

È quindi impossibile che una circostanza renda mortale un peccato veniale se non implica una deformità di altro genere.

Infatti la deformità del peccato veniale consiste in un disordine relativo ai mezzi, mentre la deformità del peccato mortale implica un disordine rispetto al fine ultimo.

Per cui è evidente che una circostanza non può cambiare un peccato da veniale a mortale rimanendo circostanza, ma solo quando fa passare l'atto a una nuova specie, e diviene in qualche modo la sua differenza specifica.

Analisi delle obiezioni:

1. La durata non è una circostanza che fa passare l'atto a un'altra specie; e lo stesso si dica della ripetizione e della frequenza, se non intervengono altri elementi.

Infatti un'azione non acquista una nuova specie per il fatto che si ripete o si prolunga, a meno che nell'atto così ripetuto o prolungato non intervenga qualcosa che ne muti la specie, come la disobbedienza, il disprezzo o altre cose del genere.

Perciò si deve rispondere che, essendo l'ira un moto dell'animo tendente a nuocere al prossimo, se il danno a cui tende è, nel suo genere, un peccato mortale, come l'omicidio o il furto, l'ira nel suo genere è un peccato mortale.

E solo l'imperfezione dell'atto ne fa un peccato veniale, quando cioè è un moto improvviso della sensualità.

Se però è prolungata, ritorna alla natura del suo genere, per il consenso della ragione.

- Se invece il danno a cui tende fosse nel suo genere veniale, come quando uno si adira con un altro col proposito di contristarlo con una parola leggermente offensiva o giocosa, allora non si ha un peccato mortale, per quanto tale ira possa essere prolungata.

Tutt'al più lo può essere per accidens, cioè per un eventuale scandalo grave che ne derivasse, o per altri motivi del genere.

A proposito dell'ubriachezza si deve invece rispondere che essa per sua natura è un peccato mortale: che infatti un uomo, senza una necessità e per il solo piacere del vino, si renda incapace di usare la ragione, con la quale deve ordinare se stesso a Dio ed evitare eventuali peccati, è espressamente contrario alla virtù.

Se dunque talora è peccato veniale, ciò è dovuto solo all'ignoranza o alla fragilità, cioè al fatto che uno ignora la gradazione del vino, o la propria debolezza, e quindi non pensa di ubriacarsi: infatti allora non gli viene imputata come peccato l'ubriachezza, ma il solo eccesso nel bere.

Quando però uno si ubriaca spesso non può più essere scusato da questa ignoranza: perché allora la sua volontà mostra di preferire l'ubriachezza alla moderazione nell'uso del vino.

Perciò il peccato torna alla propria natura.

2. La dilettazione morosa è peccato mortale solo in quella materia che nel suo genere è peccato mortale; e se in questa materia non è morosa, allora è veniale per l'imperfezione dell'atto, come si è detto [ a. 1 ] a proposito dell'ira.

Infatti si dice che l'ira è prolungata, e che la dilettazione è morosa, per il consenso deliberato della ragione.

3. Come si è spiegato in precedenza [ q. 18, a. 5, ad 4 ], le circostanze non rendono cattivo un atto buono se non costituiscono direttamente la specie del peccato.

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