Summa Teologica - II-II

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Articolo 1 - Se la fede sia ben definita come « sostanza delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono »

Pare che la fede non sia ben definita dall'Apostolo [ Eb 11,1 ] con quelle parole: « sostanza delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono ».

Infatti:

1. Nessuna qualità è una sostanza.

Ma la fede è una qualità, essendo una virtù teologale, come si è detto sopra [ I-II, q. 62, a. 3 ].

Quindi non è una sostanza.

2. Virtù diverse hanno oggetti diversi.

Ma le cose sperate sono oggetto della speranza.

Quindi non devono entrare nella definizione della fede come suo oggetto.

3. La fede riceve più dalla carità che dalla speranza: poiché, come vedremo [ a. 3 ], la carità dà forma alla fede.

Perciò nella definizione della fede si doveva parlare più di cose amate che di cose sperate.

4. Una medesima cosa non può appartenere a generi diversi.

Ora, la sostanza e la prova sono generi diversi e non subalternati.

Perciò non ha senso dire che la fede è sostanza e prova.

5. Una prova ha l'effetto di rendere evidente la verità di ciò che essa dimostra.

Ma quando la verità di una cosa è dimostrata, tale cosa è evidente, o manifesta.

Quindi è contraddittoria l'espressione: « prova delle cose che non si vedono ».

Per cui la suddetta descrizione della fede non pare conveniente.

In contrario:

Basta l'autorità dell'Apostolo.

Dimostrazione:

Sebbene alcuni ritengano che le parole dell'Apostolo qui riferite non siano una definizione della fede tuttavia, a ben riflettere, in tale descrizione si trovano tutti gli elementi per una definizione, anche se le parole non sono ordinate sotto forma di definizione.

Come anche presso i filosofi si riscontrano [ spesso ] gli elementi del sillogismo al di fuori della forma sillogistica.

Per averne l'evidenza si deve ricordare che la fede, essendo un abito, deve essere definita in base al proprio atto in relazione al proprio oggetto, poiché gli abiti si conoscono dagli atti, e gli atti dall'oggetto.

Ora, l'atto della fede è credere, e credere, secondo le spiegazioni date [ q. 2, a. 1, ad 3; aa. 2, 9 ], è un atto dell'intelletto determinato a una data cosa dal comando della volontà.

Perciò l'atto della fede dice ordine sia all'oggetto della volontà, che è il bene e il fine, sia all'oggetto dell'intelletto, che è il vero.

E poiché nella fede, che come sopra [ I-II, q. 62, a. 3 ] si è detto è una virtù teologale, unico deve essere il fine e l'oggetto, è necessario che l'oggetto e il fine della fede si corrispondano perfettamente.

Ora, sopra [ q. 1, aa. 1, 4 ] si è detto che l'oggetto della fede consiste nella prima verità in quanto inevidente, e in altre verità accettate a motivo di essa.

Perciò la stessa prima verità si rapporta all'atto di fede come suo fine, sotto l'aspetto di cosa inevidente.

E questo è appunto l'aspetto delle cose sperate, secondo le parole dell'Apostolo [ Rm 8,25 ]: « Noi speriamo quello che non vediamo ».

Infatti vedere la verità sarebbe possederla.

Ora, uno non spera ciò che già possiede, ma la speranza, come si disse [ I-II, q. 67, a. 4 ], ha per oggetto ciò che non è posseduto.

Così dunque il rapporto dell'atto di fede con il fine, che è oggetto della volontà, viene espresso con quelle parole: « La fede è la sostanza delle cose che si sperano ».

Infatti si suole chiamare sostanza il primo elemento di qualsiasi cosa, specialmente quando tutto lo sviluppo successivo è contenuto virtualmente in quel primo principio: come potremmo dire che i primi princìpi indimostrabili sono la sostanza della scienza, poiché in noi il primo elemento della scienza è dato da questi princìpi, e in essi tutta la scienza è virtualmente racchiusa.

In questo senso dunque si dice che la fede è la sostanza delle cose che si sperano: poiché il primo inizio in noi delle cose sperate viene dall'assenso della fede, la quale contiene virtualmente tutte le cose che si sperano.

Noi infatti speriamo di conseguire la beatitudine con l'aperta visione della verità a cui abbiamo aderito con la fede, come si disse nel trattato sulla beatitudine [ I-II, q. 3, a. 8; q. 4, a. 3 ].

Invece il rapporto dell'atto di fede con l'oggetto dell'intelligenza, in quanto oggetto di fede, è indicato dalle parole: « prova delle cose che non si vedono ».

E qui « prova » sta per l'effetto della prova.

Infatti l'intelletto è indotto dalle prove ad accettare qualche verità; e così qui viene chiamata prova la stessa ferma adesione dell'intelletto alle verità di fede inevidenti.

Cosicché altre versioni hanno il termine « convincimento »: poiché l'intelletto del credente viene convinto dall'autorità di Dio ad accettare le cose che non vede.

Se quindi uno volesse ridurre le parole suddette in forma di definizione, potrebbe dire che « la fede è un abito intellettivo con cui inizia in noi la vita eterna, e che fa aderire l'intelletto a realtà che non appaiono ».

Così infatti la fede viene distinta da tutte le altre funzioni intellettive.

Col termine « prova » infatti viene distinta dall'opinione, dal sospetto e dal dubbio, nelle quali funzioni l'intelletto non ha un'adesione radicale e ferma a qualcosa.

Con le parole « che non appaiono » la fede viene invece distinta dalla scienza e dall'intuizione intellettiva, che rendono le cose evidenti.

Con l'espressione « sostanza delle cose che si sperano » la virtù della fede viene infine distinta dalla fede in genere, che non è ordinata alla beatitudine.

Del resto tutte le altre definizioni della fede non sono che spiegazioni di quella dell'Apostolo.

Infatti le parole di S. Agostino [ In Ioh. ev. tract. 40 e 79 ]: « La fede è una virtù con la quale sono credute cose che non si vedono », e quelle del Damasceno [ De fide orth. 4,11 ], che dichiarano la fede « un consenso privo di ricerca », e ancora quelle di altri, per cui la fede è « una certezza dell'animo su cose lontane, superiore all'opinione e inferiore alla scienza », coincidono con l'espressione dell'Apostolo: « prova delle cose che non si vedono ».

E l'affermazione di Dionigi [ De div. nom. 7 ] che la fede è « il fondamento stabile dei credenti, che colloca essi nella verità e la verità in essi », si identifica con quelle parole: « sostanza delle cose che si sperano ».

Analisi delle obiezioni:

1. Si parla qui di sostanza non in quanto genere universalissimo contraddistinto dagli altri generi, ma in quanto in qualsiasi genere c'è una analogia con la sostanza, nel senso cioè che si può denominare sostanza, in qualsiasi genere di cose, il primo elemento che contiene virtualmente in se stesso gli altri elementi.

2. La fede appartiene all'intelletto in quanto è sotto l'impero della volontà: perciò è necessario che abbia per fine l'oggetto di quelle virtù che risiedono nella volontà, tra le quali c'è la speranza, come vedremo [ q. 18, a. 1 ].

E così nella definizione della fede entra l'oggetto della speranza.

3. L'amore può avere per oggetto cose che si vedono e cose che non si vedono, cose assenti e cose presenti.

Perciò le cose amate non si addicono così bene alla fede come quelle sperate: poiché la speranza è sempre di cose assenti e che non si vedono.

4. Sostanza e prova, così come suonano nella definizione della fede, non implicano diversi generi di fede, né atti diversi di essa, ma solo una diversità di rapporti che un unico atto ha con oggetti diversi, come risulta evidente dalle cose già dette [ nel corpo ].

5. Una prova che è desunta dai princìpi propri di una cosa la rende evidente, ma una prova che viene desunta dall'autorità di Dio non rende la cosa in se stessa evidente.

E tale è la prova di cui si parla nella definizione della fede.

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