Summa Teologica - II-II

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Articolo 3 - Se l'ingratitudine sia sempre un peccato mortale

Pare che l'ingratitudine sia sempre un peccato mortale.

Infatti:

1. La riconoscenza è dovuta soprattutto a Dio.

Ma col peccato veniale non si è ingrati verso Dio: altrimenti tutti sarebbero ingrati.

Quindi l'ingratitudine non è mai un peccato veniale.

2. Abbiamo visto sopra [ q. 24, a. 12; I-II, q. 72, a. 5 ] che un peccato è mortale perché si contrappone alla carità.

Ora l'ingratitudine, come si è notato [ q. 106, a. 6, ad 2 ], si contrappone alla carità, dalla quale deriva il debito della gratitudine.

Perciò l'ingratitudine è sempre un peccato mortale.

3. Seneca [ De benef. 2,10 ] ha scritto: « La legge della beneficenza è questa: il benefattore deve subito dimenticare, mentre il beneficato deve sempre ricordare ».

Ma il primo deve dimenticare, a quanto pare, per non rilevare il peccato del beneficato, qualora questi mancasse di gratitudine.

Il che però non sarebbe richiesto se l'ingratitudine fosse un peccato leggero.

Quindi l'ingratitudine è sempre un peccato mortale.

In contrario:

A nessuno si deve dare occasione di peccare mortalmente.

Ora, Seneca [ ib. 2,9 ] insegna che « talora bisogna ingannare il beneficato in modo che egli non sappia da chi ha ricevuto »: il che pare offrire al beneficato l'occasione di essere ingrato.

Perciò l'ingratitudine non è sempre un peccato mortale.

Dimostrazione:

Nell'articolo precedente abbiamo chiarito che si può essere ingrati in due modi.

Primo, per semplice omissione: quando uno p. es. non riconosce internamente o esternamente il beneficio, oppure non lo contraccambia.

E questo non sempre è un peccato mortale.

Poiché il debito della gratitudine, come sopra [ q. 106, a. 6 ] si è notato, abbraccia anche un sovrappiù a cui non si è strettamente tenuti: per cui se uno lo tralascia non fa peccato mortale.

Tuttavia si ha un peccato veniale: poiché ciò deriva da una certa negligenza, oppure da una scarsa inclinazione alla virtù.

In certi casi però tale ingratitudine può anche essere un peccato mortale: o per il disprezzo del beneficio ricevuto, oppure per il compenso che viene negato e che è dovuto rigorosamente al benefattore, o in modo assoluto, o in caso di necessità.

- Secondo, si può essere ingrati non solo trascurando il debito della riconoscenza, ma anche rendendo male per bene.

E anche in questo caso il peccato può essere mortale o veniale a seconda delle azioni che vengono compiute.

Si deve però notare che l'ingratitudine commessa con un peccato mortale ha la perfetta natura dell'ingratitudine, mentre quella compiuta con un peccato veniale è un'ingratitudine imperfetta.

Analisi delle obiezioni:

1. Col peccato veniale non si è ingrati verso Dio con un'ingratitudine perfetta.

Tuttavia la colpa veniale ha un certo aspetto di ingratitudine: in quanto sacrifica un atto virtuoso col quale l'uomo deve rendere onore a Dio.

2. L'ingratitudine implicita nel peccato veniale non è contraria, ma estranea alla carità: poiché essa non esclude la carità, bensì un qualche atto della medesima.

3. Lo stesso Seneca [ De benef. 7,22 ] spiega: « Sarebbe un errore credere che quando affermiamo che il benefattore deve dimenticare il beneficio vogliamo proibirgli il ricordo di un'azione, e per di più virtuosa.

Perciò quando diciamo che non deve ricordarla vogliamo intendere che non deve farne pubblicità o vantarsene ».

4. [ S. c. ]. Chi non sa di essere stato beneficato non cade nell'ingratitudine se non contraccambia, purché sia disposto a farlo qualora lo venga a sapere.

Ma talvolta è cosa lodevole che il beneficato non lo sappia: sia per evitare la vanagloria, sull'esempio di S. Nicola che per fuggire la lode umana gettò di nascosto del danaro dentro una casa, sia anche perché così compie un beneficio più grande, risparmiando al beneficato la vergogna della sua indigenza.

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