Summa Teologica - II-II

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Articolo 4 - Se un vescovo possa lecitamente abbandonare l'incarico pastorale per entrare in religione

Infra, q. 189, a. 7; De perf. vitae spir., c. 25

Pare che un vescovo non possa abbandonare lecitamente l'incarico pastorale per entrare in religione.

Infatti:

1. Non è lecito a nessuno passare da uno stato più perfetto a uno stato meno perfetto, poiché ciò sarebbe un « volgersi indietro », meritando così la condanna del Signore [ Lc 9,62 ]: « Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio ».

Ora, lo stato episcopale è più perfetto dello stato religioso, come si è visto [ q. 184, a. 7 ].

Come quindi non è lecito dallo stato religioso tornare al secolo, così non è lecito dallo stato episcopale passare alla vita religiosa.

2. L'ordine della grazia è più armonico dell'ordine della natura.

Ora, nell'ordine della natura un identico essere non si muove verso direzioni opposte: se la pietra, p. es. , si muove per natura verso il basso, non può per natura ritornare in alto.

Ma nell'ordine della grazia è lecito passare dallo stato religioso all'episcopato.

Quindi non è lecito passare inversamente dall'episcopato allo stato religioso.

3. Nelle opere della grazia non ci deve essere nulla di inutile.

Ora, chi una volta è stato consacrato vescovo conserva in perpetuo il potere di conferire gli ordini e di compiere altre funzioni del genere proprie dell'ufficio episcopale; ma questo potere diviene inutile in colui che abbandona la cura pastorale.

Perciò il vescovo non può abbandonare la cura pastorale entrando nella vita religiosa.

In contrario:

Nessuno può essere costretto a compiere una cosa per se stessa illecita.

Ora, coloro che chiedono di essere esonerati dall'episcopato sono costretti dai Canoni [ Decretales 1,5,12 ] a rinunziarvi.

Quindi rinunziare alla cura pastorale non è illecito.

Dimostrazione:

La perfezione dello stato episcopale consiste nel fatto che uno per amore di Dio si obbliga ad attendere alla salvezza delle anime.

Perciò uno è obbligato a conservare la cura pastorale fino a che è in grado di giovare alla salvezza delle anime a lui affidate.

Compito questo che egli non deve trascurare neppure per attendere alla contemplazione di Dio; poiché l'Apostolo per il bene dei fedeli tollerava con pazienza persino il differimento della contemplazione propria della vita futura.

Così infatti scriveva [ Fil 1,22ss ]: « Sono messo alle strette fra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d'altra parte è più necessario per voi che io rimanga nella carne.

Per conto mio, sono convinto che resterò ».

E neppure deve abbandonare il suo ufficio per evitare avversità di qualsiasi genere, o per altri vantaggi; poiché, come dice il Vangelo [ Gv 10,11 ], « il buon Pastore offre la vita per le pecore ».

Talvolta però può capitare che a un vescovo, in una maniera o nell'altra, venga impedito di procurare il bene dei suoi sudditi.

Qualche volta per un difetto personale, o di ordine morale, come in caso di omicidio o di simonia, o di ordine corporale, come in caso di vecchiaia o di infermità, o anche di scienza, nel caso che questa risultasse insufficiente per il governo delle anime; ovvero a motivo di qualche irregolarità, p. es. se è stato sposato due volte.

- Talora invece l'impedimento può nascere da un difetto dei sudditi, ai quali egli non è più in grado di fare del bene.

Da cui le parole di S. Gregorio [ Dial. 2,3 ]: « È giusto sopportare i cattivi là dove ci sono dei buoni che è possibile aiutare.

Ma dove manchi ogni frutto nei buoni, il travaglio che si sopporta per i cattivi diventa inutile.

E così talora i perfetti, considerando la sterilità dei loro sforzi, pensano di andare altrove, per lavorare con frutto in altri luoghi ».

- Talora infine l'impedimento può derivare da terze persone: come quando l'elezione di un individuo suscita gravi scandali.

L'Apostolo [ 1 Cor 8,13 ] diceva infatti: « Se un cibo scandalizza un mio fratello, piuttosto non mangerò mai più carne ».

Purché tuttavia lo scandalo non sia dovuto alla malizia di chi vuole osteggiare la fede o i diritti della Chiesa.

In tal caso infatti lo scandalo non deve far deporre la cura pastorale, sull'esempio di Cristo, il quale a proposito di chi si scandalizzava della verità del suo insegnamento diceva [ Mt 15,14 ]: « Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi ».

È tuttavia necessario che come uno riceve l'incarico da un prelato superiore, così anche nei casi indicati lo deponga con la sua autorizzazione.

Da cui le parole di Innocenzo III [ Decretales I,9,10,11 ]: « Se anche hai le ali per tentare il volo verso la solitudine, tuttavia esse sono così legate dai precetti che tu non lo puoi fare liberamente senza il nostro permesso ».

Infatti solo il Papa ha la facoltà di dispensare dal voto perpetuo con cui il vescovo si è obbligato alla cura dei suoi sudditi.

Analisi delle obiezioni:

1. La perfezione dei religiosi e quella dei vescovi non vengono desunte dalle stesse cose.

Infatti la perfezione religiosa è costituita dall'impegno personale a curare la propria salvezza, mentre la perfezione dello stato episcopale implica la cura della salvezza del prossimo.

Perciò fino a che un vescovo può essere utile alla salvezza del prossimo, egli si volgerebbe indietro se volesse entrare nello stato religioso per attendere solo alla propria salvezza, dopo essersi obbligato a procurare anche quella degli altri.

Per questo Innocenzo III [ ib. ] scrive che « è più facile permettere a un monaco di salire all'episcopato che a un vescovo di discendere allo stato monastico: se però egli non è più in grado di procurare la salvezza degli altri, è bene che attenda alla propria salvezza ».

2. Nessun ostacolo può impedire a un uomo di attendere alla propria salvezza, che è il fine dello stato religioso.

Ci possono essere invece ostacoli nel procurare la salvezza altrui.

Per questo un religioso può essere assunto all'episcopato, in cui è sempre in grado di curare la propria salvezza.

E così pure un vescovo, se è impedito di attendere alla salvezza altrui, può passare alla vita religiosa.

Venuto poi a cessare l'impedimento uno può essere assunto di nuovo all'episcopato: nel caso p. es. di resipiscenza dei sudditi, di cessazione dello scandalo, di guarigione dalla propria infermità o di acquisto della scienza sufficiente.

O ancora, nel caso che uno sia passato alla vita religiosa per essere stato promosso con simonia a propria insaputa, può essere di nuovo promosso a un'altra sede episcopale.

- Se invece uno è stato deposto per colpa propria e chiuso in un monastero per fare penitenza, non può essere di nuovo promosso all'episcopato.

Infatti nel Decreto [ di Graz. 2,7,1,45 ] si legge: « Il santo concilio ordina che chiunque dalla dignità episcopale è stato ridotto per punizione allo stato monacale, non sia mai più assunto all'episcopato ».

3. Anche nell'ordine naturale ci sono delle facoltà che rimangono prive del loro atto per il sopraggiungere di qualche impedimento: come una malattia dell'occhio può impedire l'atto della vista.

E così nulla impedisce che il potere episcopale rimanga inoperoso per il sopraggiungere di un ostacolo esterno.

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