Summa Teologica - III

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Articolo 1 - Se la penitenza sia una virtù

In 4 Sent., d. 14, q. 1, a. 1, sol. 2

Pare che la penitenza non sia una virtù.

Infatti:

1. La penitenza è uno dei sette sacramenti, come si è visto sopra [ q. 65, a. 1; q. 84, a. 1 ].

Ora, nessun altro sacramento è una virtù.

Quindi non lo è neppure la penitenza.

2. Secondo il Filosofo [ Ethic. 4,9 ] la vergogna non può essere detta una virtù, sia perché è una passione implicante un'alterazione fisiologica, sia perché non è una « disposizione di chi è perfetto » [ Phys. 7,3 ], in quanto nasce in rapporto ad atti turpi, che non possono trovarsi in un uomo virtuoso.

Ma anche la penitenza è una passione accompagnata da un'alterazione fisiologica, cioè dal pianto, secondo le parole di S. Gregorio [ In Evang. hom. 34 ]: « Fare penitenza significa piangere i peccati commessi ».

Inoltre ha per oggetto delle azioni vergognose, cioè i peccati, che non possono riscontrarsi in un uomo virtuoso.

Quindi la penitenza non è una virtù.

3. Il Filosofo [ Ethic. 4,3 ] afferma che « nessuno è stolto tra le persone virtuose ».

D'altra parte pare da stolti il dolersi di ciò che si è commesso in passato, poiché il passato non può non essere: il che invece appartiene alla penitenza.

Perciò la penitenza non è una virtù.

In contrario:

I precetti della legge hanno per oggetto gli atti delle virtù: poiché, come dice il Filosofo [ Ethic. 2,1 ], « il legislatore tende a rendere virtuosi i cittadini ».

Ora, nella legge di Dio [ Mt 3,2 ] c'è un precetto che comanda la penitenza: « Fate penitenza », ecc.

Quindi la penitenza è una virtù.

Dimostrazione:

Come si è già visto [ q. 84, a. 8; a. 10, ad 4 ], fare penitenza significa dolersi di un'azione propria commessa precedentemente.

Abbiamo però anche detto [ q. 84, a. 9, ad 2 ] che il dolore, o tristezza, si presenta sotto due aspetti.

Primo, quale passione dell'appetito sensitivo.

E da questo lato la penitenza non è una virtù, ma una passione.

Secondo, quale atto della volontà.

E sotto questo aspetto essa è dovuta a una certa scelta.

Scelta che necessariamente è un atto di virtù, quando è retta: poiché, come insegna Aristotele [ Ethic. 2,6 ], la virtù è « un abito elettivo conforme alla retta ragione ».

Ora, spetta alla retta ragione far sì che uno si addolori di ciò di cui si deve dolere.

Ed è appunto ciò che si riscontra nella penitenza di cui parliamo: infatti il penitente concepisce un dolore ragionevole dei peccati commessi, con l'intenzione di rimuoverli.

Perciò è evidente che la penitenza di cui parliamo o è una virtù, oppure è un atto di virtù.

Analisi delle obiezioni:

1. Nel sacramento della penitenza, come si è notato sopra [ q. 84, a. 1, ad 1,2; aa. 2,7 ], gli atti umani costituiscono la materia: il che non avviene nel battesimo o nella cresima.

Essendo quindi la virtù principio di atti umani, la penitenza, a preferenza del battesimo o della cresima, o è una virtù, oppure si accompagna a una virtù.

2. La penitenza in quanto passione non è una virtù, come si è detto [ nel corpo ].

Ora, è così che essa implica un'alterazione fisiologica.

È invece una virtù in quanto implica, quale atto della volontà, una scelta retta.

E ciò può dirsi più della penitenza che della vergogna.

Quest'ultima infatti riguarda un'azione turpe attuale, mentre la penitenza riguarda un'azione turpe già passata.

Ora, è incompatibile con la perfezione della virtù che uno abbia attualmente un agire turpe, di cui si è costretti a vergognarsi, mentre non è incompatibile con la perfezione della virtù il fatto che nel passato uno abbia commesso delle azioni turpi di cui debba fare penitenza, quando da vizioso diventa virtuoso.

3. Addolorarsi del passato con l'intenzione di voler far sì che non sia avvenuto sarebbe certamente una stoltezza.

Ma il penitente non mira a questo, poiché il suo dolore è il dispiacere del passato con l'intenzione di eliminarne le conseguenze, cioè l'offesa di Dio e il debito della pena.

E questa non è una stoltezza.

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