Madre e figlio: un'unica vita da amare

B218-A6

Verso la Giornata della Vita

Il presidente della Commissione Episcopale Nazionale per la famiglia ci chiede di pubblicare il seguente articolo, in preparazione alla « Giornata per la vita » fissata per la prima domenica di febbraio.

Accogliamo ben volentieri la richiesta, anche se non siamo sicuri di poter fare uscire il Bollettino n. 1 / 1981 prima di quella data.

In ogni caso servirà a richiamare l'attenzione dei lettori sopra un argomento così importante.

Se si pensa al dilagare dell'aborto, e a ciò che è l'aborto, è impossibile non sentire un profondo raccapriccio per quello che l'uomo sta facendo.

Ma il raccapriccio non c'è più.

Il moltiplicarsi delle violenze e le notizie quotidiane di fatti luttuosi che accadono vicino e lontano, ci fanno camminare abbastanza tranquilli e pacati, tra i cadaveri.

I morti fanno più chiasso, suscitano più emozione quando sono pochi che non quando sono molti.

Il sobbalzo di terrore e di indignazione di fronte al cadavere di un professionista, di un magistrato, di un capo-operaio, di un politico ucciso dai terroristi è molto più forte di quello che suscitano le centinaia di migliaia di morti dell'Afganistan.

Se poi delle uccisioni e delle morti si danno appena notizie, senza presentare nessuna sequenza visiva all'ascoltatore o allo spettatore, allora la reazione è minima.

È quello che avviene per i caduti della 194, della legge abortista: non hanno l'onore delle cronache.

Sono diventati dei numeri, senza nome e senza storia, buoni solo per i registri, disposti dalla legge.

Questi numeri, che pure offrono una crescita incalzante, non rappresentano soltanto la morte dei figli, sono anche l'espressione della morte delle madri.

Col figlio che cade ucciso, su richiesta della madre, in qualche modo cade anche essa; cade di essa una parte, si voglia o non si voglia, essenziale: la maternità.

Nessuno può dire, se vuole essere onesto, che non accade nulla nella vita della madre, dopo l'uccisione del figlio, per l'uccisione del figlio.

Tra madre e figlio, come c'è una vita comune, c'è una morte comune.

Che importa se nella esistenza della madre tutto sembra continuare come prima?

Che importa se tu non vedi nella donna che ti siede accanto sul tram o in treno, o al cinema, o in chiesa, o con la quale parli in ufficio, al mercato, in un cerchio di amici, i segni esteriori del misfatto che ha compiuto?

Ciò che in lei è morto e muore, è dentro, è nella sua vita, è nella sua carne, più ancora, nel suo cuore.

I pensieri, gli istinti, le emozioni, la mentalità, tutto questo è cambiato da prima.

Essa è morta.

Quella che resta, quella che vedi e con cui parli è un'altra: una povera creatura che ha tradito la maternità.

E se anche i figli superstiti continuano a chiamarla « madre », quel nome è dolente.

Può pretendere di essere chiamata madre, chi ha ucciso un figlio?

Eppure dobbiamo sentire un'immensa pena e un grande amore per queste creature.

Si è rovesciato su di loro un ciclone devastatore di tutto ciò che di meglio recavano in dote dalla natura e dal costume.

Le cose si sono addirittura rovesciate: se fino a un passato abbastanza recente era una colpa tradire la maternità, ora è una colpa difenderla, rispettarla, portarla a compimento.

Quando una donna, giovane o meno giovane, sposata o non sposata, diventa madre, per poco che questo fatto presenti difficoltà vere o presunte, si leva un coro, che sembra concertato, a biasimarla, non più per la eventuale colpa di rapporti illeciti, ma per la volontà di voler portare a compimento ciò che ha concepito, per la scelta di voler difendere il figlio che porta in seno.

La povera creatura, con ciò, viene a trovarsi sola a vivere la sua vicenda.

Sotto la spinta di voci molteplici che la vogliono piegare a liberarsi di ciò che definiscono o un intruso, o un qualcosa che non è più di un fastidioso ingombro, la sua vicenda diviene drammatica: un dramma intimo.

Le voci delle creature umane e quelle di una certa comodità insita nel liberarsi dall'incomodo, sono in sanguinoso contrasto con le voci della carne e del sangue.

Poi a poco a poco queste sono sopraffatte da quelle, e il dramma diventa tragedia.

La tragedia dell'uccisione.

* * *

Madre e figlio un'unica vita da amare.

Madre e figlio: o si perdono ambedue o si salvano ambedue.

È inutile, forse è anche ipocrita, puntare il dito di condanna contro la povera creatura che si è lasciata vincere, che ha ceduto.

Chi c'era ad aiutarla? Chi si è fatto presente a sostenerla, non solo con le parole, che è facile, ma con i fatti, nel momento della decisione?

Se hanno bisogno di amore le madri che attendono con tutto il trasporto del cuore la creatura che portano in grembo, quelle che la pensano con orrore, per le conseguenze familiari e sociali che comporta la sua presenza nel mondo, ne hanno bisogno di più.

Immensamente di più.

Non si tratta di allargare le maglie di una legge, già assurdamente larga, perché la soppressione del nascituro possa essere decisa e realizzata senza alcuna difficoltà; si tratta di fare leggi per difendere la vita e la maternità; per assistere la madre, non a uccidere il figlio, ma a farlo vivere; per aiutarla a restare madre nella mente e nella carne.

Si tratta di rendere sempre più fitta ed efficiente quella rete di assistenza e di aiuto che il volontariato cristiano offre già da tempo alle madri in difficoltà.

Sono anni che si parla delle madri che uccidono, per detestarne il gesto delittuoso: è inevitabile, è giusto, è doveroso.

Ma non basta. Ora meno che mai.

Ora più che mai è necessario apprestarsi ad amarle, non per il delitto commesso, ma perché non lo commettano.

Amarle di un amore che è incoraggiamento e aiuto.

Amarle di un amore che apra le loro menti a capire, che faccia loro toccare con mano, che per noi non esistono solo i figli, esistono anche le madri.

Madre e figlio: un'unica vita da amare.

Costanzo Micci

Vescovo di Fano-Fossombrone, Cagli e Pergola Pres. Comm. Episcopale per la famiglia