Pastorale vocazionale

B263-A5

Pubblichiamo la terza riflessione svolta dal rev. don Giuseppe Pollano, durante il ritiro dell'Unione dell'11 Ottobre 1993, nella sala della S. Sindone alla Sorgente, sul tema « La vocazione ».

Il testo, ricavato dalla registrazione, non è stato rivisto dall'Autore.

Sintesi della riflessione

La chiamata passa di fatto e si realizza attraverso personaggi « chiamanti ».

Perché « chiamanti »? Perché capaci di attrazione caritatevole:

1) mancanza di obiettivi egoistici riguardo agli altri;

2) libertà gioiosa dai bisogni incatenanti, e non per inettitudine ma per signoria;

3) offerta di obiettivi più preziosi ( più umani, vantaggiosi, validi per tutti ).

1. Il signore Gesù ci ha trasmesso il potere di essere personaggi « chiamanti »

« Credevo che vivere fosse la mia esistenza abituale, ma da quando Ti ho incontrato, Maestro, so che non era questo il vivere.

Ti guardo, ti imparo e mi chiami. Ti verrò sempre dietro ».

Con questa invocazione possiamo iniziare la nostra riflessione.

La discepolanza verso Gesù nasce proprio di qua.

Tutto merito suo, potremmo dire.

Sì, è una ricchezza traboccante di grazia, alla quale però siamo destinati, e non finiremo di ringraziare Dio che per noi questo incontro sia ormai la ricchezza quotidiana.

Noi sappiamo che Gesù è Via, Verità e Vita: lo sappiamo benissimo, non dico in modo esauriente e completo, ma lo sappiamo.

Sappiamo che altre vie non ce ne sono, che altre verità non si dichiarano, che altre vite non si danno.

Il Signore è « chiamante » così; ci ha trasmesso di essere personaggi « chiamanti », attraenti tutti i suoi.

Nella misura del partecipare a Gesù Cristo, ciascuno di noi porta in sé questo misterioso potere di chiamata, che si realizza poi in molti modi, ma che è certo.

Tutti i santi sono stati personaggi chiamanti, proprio per come erano.

Prima ancora che aprissero bocca, che enunciassero programmi, che fondassero delle istituzioni, essi avevano già trovato qualcuno che li voleva seguire, che si sentiva continuamente interpellato dal loro modo di essere.

E parimenti avevano incontrato degli irriducibili nemici, che si sentivano ugualmente interpellati e tormentati di aver incontrato un personaggio così.

2. La storia, l'esempio di Gesù Crocifisso

Gesù Cristo per primo, e tutti i suoi, hanno sempre questa duplice sorte: attirarsi l'amore e attirarsi l'odio.

« Hanno odiato me, odieranno voi » ( Gv 15,18 ).

Perché? « Se ho fatto qualcosa di male. Egli disse una volta ai suoi avversar!, perché non me lo rinfacciate? »

« Non hai fatto nulla di male. Ciò che ti rinfacciamo è che essendo uomo, dici di essere figlio di Dio ( Gv 10,32-33 ).

Ma non era l'affermazione che essi contestavano, era la verità che rifiutavano.

Perché se avessero dovuto accettare la verità, avrebbero anche dovuto cambiare vita, e questo non lo volevano fare.

Perché Gesù chiamava? Egli chiamava perché era colmo di carità, era un personaggio che manifestava l'eterna carità di Dio, l'autentica teofania, e si capisce che gli uomini alla carità non erano abituati, non l'avevano mai percepita.

Dio è amore, non l'uomo. E perciò, finché Dio non si manifesta, l'uomo non conosce l'amore.

Farà delle esperienze anche belle, alte e nobili, che chiamerà amore, ma l'amore come è nella sua originaria natura, non può conoscerlo finché l'amore stesso non venga.

Trovandosi di fronte all'amore, gli uomini non hanno potuto non reagire: era un amore che legava l'uomo a Dio in modo indissolubile.

La storia di Gesù Crocifisso è la storia di un uomo che non si è lasciato mai separare dall'amore del Padre e che ha affrontato tutte le prove, superandole tutte, fino al Getzemani, perché fosse chiaro che nulla lo separava dal Padre.

« Io ho un pane che voi non conoscete, fare la volontà del Padre; faccio sempre ciò che è piacevole e gradito al Padre, perché lo amo » ( Gv 4,32 ).

Un uomo così, che spiegava il suo modo di vivere con questa ragione, ne aveva abbastanza per catturare i cuori e anche per sconvolgere le anime.

Lezione che Paolo riprenderà quando si domanderà: « Chi ci separerà dall'amore di Cristo? »

E risponde: « Nulla potrà separarci dall'amore che Dio ha per noi in Cristo Gesù nostro signore » ( Rm 8,35-39 ).

Gesù, prima di pronunciare le grandi parole che sono nel Vangelo, ha semplicemente cominciato ad agire in modo tale che gli uomini una cosa hanno capito: che era buono.

Quando si è messo a curare i malati, quando si è mostrato così potente, ma di una potenza propria di chi era tutto a servizio gratuito dei sofferenti, la gente ha dovuto capire una cosa: un personaggio potentissimo e buonissimo era arrivato.

Poi quando Gesù ha cominciato a dire altre cose, che avrebbero dovuto incantarli ancora di più, come: « Uomo ti sono perdonati i tuoi peccati », essi, che si accontentavano che Egli dicesse: « Alzati dal tuo lettuccio e va' a casa guarito » ( Mt 9,2-6 ), hanno cominciato a prendere le distanze.

Lui lo sapeva che ciò sarebbe accaduto.

Ormai solo, perché anche i discepoli avevano preso le distanze da lui, si avviò a Gerusalemme, camminando deciso, dice Luca, senza esitazioni, davanti a tutti, ed essi, dice ancora l'evangelista, si stupivano.

A Gerusalemme Gesù andò a morire e a risorgere, ma il segreto era sempre quello: anche loro, che lo abbandonavano, anche Giuda, che lo tradì, non riuscirono a sottrarsi alla sua chiamata.

Anche oggi molti uomini che dicono di essere credenti, non riescono a sopportare il peso del loro tradimento interiore.

Sapere di avere rinnegato Dio fa parte di uno stato della coscienza che non si visita mai, buio e cupo, ma che c'è, e sotto questa falsa pace, questi uomini e queste donne non riescono a smaltire il fatto che hanno rinnegato il Signore, il quale è fedele, e anche se noi siamo infedeli, continua a chiamarci.

Così qui si intreccia tutta la storia.

3. Il signore Gesù ci ha dato il dono di passare in mezzo agli altri come « non insignificanti »

Ma parliamo di noi, di noi che abbiamo non solo il pensiero di Cristo, ma abbiamo anche i suoi sentimenti: « Abbiate in voi i sentimenti di Cristo » ( Fil 2,5 ).

Che cosa magnifica! Ci viene subito da dire: Ma Signore, il mio piccolo e povero cuore lo conosco bene!

No, dice il Signore, non lo conosci bene, io ti posso infondere i miei sentimenti, lo credi? Perché non dovremmo crederlo? Ci è rivelato.

E facciamo esperienza che il nostro piccolo e povero cuore è capace di traboccare dei sentimenti di Cristo.

E diventiamo « chiamanti ».

Ogni volta che abbiamo avuto una presenza buona, comprensiva, un discorso semplice, uno sguardo amichevole, ogni volta che ci siamo messi a servizio degli altri, e chissà quante volte abbiamo potuto farlo, noi abbiamo chiamato, abbiamo lanciato un appello, che anche se lì per lì non ha avuto risposta, è rimasto dentro i cuori.

La gran parte del lavoro di un apostolo è questo, non è quello che egli fa verificando i risultati.

Il Signore, dunque, ci ha dato questo dono: di passare in mezzo agli altri come « non insignificanti ».

E chiediamolo questo dono: « Signore, fa' che io non passi insignificante in mezzo agli altri.

Io che devo essere il segno della tua presenza, fa' che non passi come un'ombra grigia di cui nessuno si accorge; mi benediranno e mi malediranno; come hanno fatto di tE, ma l'insignificanza. Signore, no! ».

Teniamo presente come l'insignificanza sia una sottilissima tentazione dell'antico serpente, quella di non farsi notare.

Ancora una volta l'umiltà, male interpretata, diventata un alibi tanto insidioso.

Noi non accettiamo di non essere persone che chiamano, attraverso cui la chiamata viene, e vogliamo imitare il Signore.

4. « Costui non era egoista »

Una cosa hanno capito coloro che vedevano Gesù: « Costui non era un egoista ».

Si fa presto a dirlo, ma siamo così abituati al fatto che l'altro, chiunque esso sia, ci venga incontro pensando a sé, badando a sé, calcolando il costo dell'incontro con noi; siamo così abituati a patteggiare il rapporto umano, che un uomo che non sia assolutamente egoista quasi non ce lo immaginiamo.

I santi ci meravigliano sempre.

Noi stessi, quando ci comportiamo con generosità, per un lato risultiamo come gli altri si aspettano che siamo, per l'altro lato non manchiamo di meravigliarci.

Non è forse vero che un atto gratuito, anche il più piccolo, ci stupisce, ci allarga sempre il cuore?

Ci portano un bicchiere d'acqua che non abbiamo chiesto: ciò è giusto, è evangelico; eppure ci meraviglia, ci fa dire un grazie che è lo stupore di un atto totalmente puro dall'egoismo.

Gesù era così; per natura sua egoismi non ne poteva avere.

Egli si donava, e credo che non soltanto il fatto fisico di una guarigione, ma il suo modo di donarla incantasse la gente, perché era questo, suppongo, il suo miracolo.

Anche noi, ormai, con il nostro battesimo, con il nostro stile radicale di vangelo, con la nostra consacrazione, possiamo tendere a vivere senza obiettivi egoistici riguardo agli altri.

Dico « tendere a vivere », perché siamo creature, l'egoismo non è distrutto in noi, non dobbiamo meravigliarci di sentirlo: questo è naturale, sarebbe strano che non ci fosse.

Però la tendenza profonda deve essere quella di vivere senza obiettivi egoistici: « Ti cercherei anche perché mi piaci, ma ti cerco per tè, non per me ».

Quante volte nella vita di ogni giorno noi siamo portati a questo superamento di noi stessi?

É naturale che noi abbiamo delle tendenze positive e negative, delle empatie che ci legano e delle empatie che ci dividono, è naturale che sia così.

Ma poco a poco il cristiano diventa quell'essere che si supera, che non è più mosso da obiettivi egoistici, e gli altri lo intuiscono.

Conferenza di don Pollano a La Sorgente, sul tema « La vocazione ».

5. Se gli altri si accorgono che non siamo egoisti ci mettono nel loro cuore

Oggi siamo molto condizionati dalla sensibilità, meglio ancora dalla sentimentalità, la quale crea troppi dei nostri rapporti, anche tra credenti, tra gruppi ecclesiali, nelle stesse comunità religiose.

Troppo si soffre per ragioni di questo genere, per antipatie, per simpatie, per cose contraccambiate, per piccole alleanze naturali.

Tutto questo è ancora il principato dell'egoismo, e al sentimento risponde il risentimento, lo sappiamo benissimo, con tutte le complicazioni che allora nascono.

Gesù no. E così, se gli altri si accorgono che noi non siamo egoisti, stiamo sicuri che ci mettono nel loro cuore.

Non si dimentica facilmente una persona che si è intuito essere tale.

Un gesto disinteressato si iscrive dentro, lo ricordiamo a distanza di anni.

Spesso un gesto disinteressato ci ha insegnato più vangelo, che cento prediche e tante ore di preghiera.

Siamo stati chiamati, ed è bello, perché è possibile essere così.

La nostra giornata può essere verificata in questo modo.

Noi ci confessiamo con una certa frequenza, siamo abituati a rilevare anche le piccole mancanze.

Ebbene un consiglio molto semplice, quasi tecnico, che posso dare al riguardo è questo: non accontentiamoci mai di quell'aspetto del peccato che emerge, che viene fuori dal suolo, cerchiamo di andare alle radici.

E le radici sono appunto in genere gli egoismi più nascosti, di cui questo o quel peccato sono soltanto delle manifestazioni, per cui non vale molto tagliare puntualmente ciò che emerge, se poi la radice rimane sotto viva e protetta.

Ringraziarne Dio quando, attraverso le circostanze della vita, ci trafigge, senza complimenti, un po' dell'egoismo.

Dio adopera la spada con l'egoismo, perché sa che con le carezze l'egoismo ingrassa e non muore.

E allora, come ha chiesto a suo Figlio stesso, trafigge in noi tutto ciò che ci ama, il nostro amore di noi.

E la vita di ogni giorno, quella immersa in mille cose, quante occasioni ci offre!

Beato colui dunque, di cui gli altri possono dire: « É una persona disinteressata, la ammiro per questo, riconosco di essere egoista al suo confronto », perché la chiamata prima di tutto è un confronto, deve fare arrossire la coscienza degli altri, nel loro segreto; perché c'è un confronto che fa loro capire come si potrebbe diventare, essendo uomini ed essendo donne.

La chiamata dunque è tutta intEriore: non sono le persone mediocri che ci fanno problema, sono le persone sante, proprio perché le persone sante ci fanno nascere dentro quella certa dignità che nessun altro è capace di suscitare.

Questo accade nella vita di tutti i giorni.

Ad esempio, quando entriamo in un ambiente dove si parlava male, ci capita che si taccia.

Ma non perché siamo dei controllori, perché portiamo una dignità e risvegliamo una dignità.

Questo è un fenomeno abituale laddove accade.

Purtroppo di queste persone portatrici di valori non ne abbiamo molte, ma qualcuna c'è ancora; ed è un primo richiamo.

Si dice proprio così: mi sento richiamato ad essere quello che dovrei essere.

E questa è un'economia che va avanti.

6. Un uomo così è libero: la « contagiosa » libertà di Gesù

Un altro aspetto importante è stato notato in Gesù, così da parte di Van Buren, che ci parla della « contagiosa libertà » di Gesù: non si tratta tanto di vederlo svincolato da questo o da quel legame: la sua è la gioiosa libertà da tutti quei bisogni incatenanti, e li conosciamo, che condizionano pesantemente la vita.

Quando Gesù diceva: « Io sono venuto e sono tra voi come un servo » ( Mt 20,25-28 ), non parlava come uno schiavo che dica: « Eh già, mi tocca servire ».

No, parlava come l'uomo libero dal bisogno di essere importante, prestigioso e potente.

Era servo per scelta, ma non con fatica: l'amore lo faceva servire.

Quando diceva: « Il Figlio dell'uomo non ha dove appoggiare il capo per dormire » ( Lc 9,58 ), non esprimeva una povertà faticosa e dolorosa, esprimeva la sua totale libertà da tutto.

Non che magari non gli costasse fatica poggiare la testa per terra, però era libero.

É un uomo che non rimpianga nulla di ciò che non ha, un uomo che è libero da tutto, un uomo che, con sincerità di cuore, riesce a dire: « Mia madre, i miei fratelli, ma chi sono?

Chi osserva la Parola è mia madre, è tutto » ( Lc 8,21 ).

Un uomo così è libero, proprio delle nostre libertà cristiane, perché queste libertà, grazie a Dio, tanto o poco le conosciamo anche noi.

Sappiamo cosa vuol dire essere liberi da un'avidità che tormenta il fratello al nostro fianco, sappiamo conoscere una certa pace che gli altri non hanno: siamo cristiani e questa libertà, ancora una volta, crea una meraviglia sconfinata in coloro che ci stanno accanto.

« Ma perché tu, che potresti fare come me, non lo fai? ».

E come se ponessimo una domanda a chi ci sta vicino.

Chi viene in tal modo interpellato riconosce la nostra maggiore libertà, pur in una situazione praticamente uguale.

É un effetto choccante, a colpo sicuro, perché siamo fatti tutti per questa libertà.

L'aspirazione alla libertà dello spirito è propria di ogni uomo.

Che poi ci siano tante schiavitù interiori, questo è frutto della nostra povertà d'animo per cui ci vuole misericordia e pazienza.

Dobbiamo puntare sempre forte sulla libertà, dobbiamo amabilmente rilevare agli altri le loro schiavitù, come quella ad esempio di perdere la pace soltanto perché non si può avere una automobile più bella, o di mentire simulando di aver comprato un bene pur senza averne la possibilità.

Tutte queste miseriole costituiscono l'intreccio di mille nostri discorsi, e ci fanno perdere la pace.

Affermato con il tono della libertà, che non è il tono del rimprovero, ma il tono di un fraterno stupore, questo richiamo risulta una chiamata detta e soprattutto vissuta.

Allora molti stimoli, che sono tanto condizionanti in questa nostra società e cultura delle emozioni ed istinti, sono delle ottime occasioni per mostrare quanto siamo liberi.

E colui che è libero lo è in modo gioioso, ciò va accuratamente notato; infatti non ci immaginiamo Gesù frustrato dalla sua condizione, sarebbe un controsenso presentarlo così.

Egli è nella pienezza della libertà per natura, Egli è il Signore, che comanda al cielo, al vento, al mare, alla malattia e alla morte.

E non si lascia incantare da nessuna attrattiva terrena.

Le tre tentazioni del racconto evangelico sono molto significative.

La sua umanità è circondata da questa fortissima seduzione: « pensa che cosa potresti essere? » ( Lc 4,1-13 ).

E vero. Lui lo sa. Eppure è così libero.

Non sono forse tutti in attesa di quel Messia che Lui sembra incarnare così bene?

Non è Lui che con il suo potere potrebbe sbaragliare i Romani e fare Israele libera e ricca?

Se Lui, uomo giusto, con un dito scaccia i demoni, come può non scacciare le legioni dei Romani?

Il Signore è libero da queste cose, non si lascia incantare.

E noi che siamo misurati secondo il nostro censo, la nostra importanza, le nostre relazioni politiche, le nostre varie attinenze, noi che siamo giudicati importanti, solo se siamo liberi non ci sentiamo umiliati dal nostro orientamento anticonformista e di rottura, solo se siamo liberi nelle situazioni in cui possiamo avere prestigio, importanza e stima, siamo in grado di procedere a fronte alta e lietamente, magari destando invidia e poi ammirazione; ma infine saremo certamente interpellati sulle motivazioni della nostra condotta.

Dobbiamo sperimentare la grazia di essere chiamati anche nel piccolo, nel poco.

Paolo dice addirittura: « La vostra affabilità sia nota a tutti » ( Fil 4,4-7 ).

E ci sembra un richiamo perfino circoscritto, come se Paolo si accontentasse che fossimo delle persone ben educate.

Ma non è così: l'affabilità è qualcosa che nasce dal profondo, dal come si è, poiché è la libertà di essere lieti al di là di tutto.

Come traspare questo nei momenti del dolore profondo, quando, dinanzi alla morte, ad esempio, o dinanzi ad un cancro che non guarisce, o dinanzi alle cose della vita, noi sappiamo mantenerci sereni, ed esprimiamo questo stato d'animo senza bisogno di dire una parola!

Saremo andati qualche volta dove si soffriva, magari non avremo detto nulla e ci avranno ringraziato.

Di che cosa? Del fatto che eravamo lì, con una presenza inconfondibile.

Passano mille messaggi invisibili, non pronunciati tra chi è ricco di essere e chi ne è povero.

E questo perché? Perché è così, perché l'essere si comunica tra noi in molteplici modi.

E questo uomo libero e non egoista è stato capace di offrire a tutti, come possibili per tutti, degli obiettivi più preziosi di quelli che avevano già.

Per esemplificare, cruciale tra questi obiettivi è quello di amare.

Gesù al riguardo si è espresso così: « Vi insegno io come si fa a voler bene. Si da la vita per gli altri » ( Gv 15,13 ).

Noi sappiamo che questo annuncio, buttato nel cuore di un egoista, gli fa digrignare i denti, appunto perché il nostro cuore è fatto per questo annunzio; siamo creature di Dio e non del diavolo, dunque siamo predestinati a sentircelo dire.

Ma bisogna avere il coraggio di dirlo, e spesso siamo reticenti a formulare la chiamata.

Occorre insistere molto sul fatto che la vocazione non è soltanto un fatto interiore, che si vada a confidare a un confessore, ma è già di per sé un fatto.

La vocazione è la voce della Chiesa che dice: « Vieni », sulla base di ciò che il chiamato ha nel cuore, ma è la Chiesa che chiama.

E la fisica voce di qualcuno che ti dice: « Perché non segui Dio più da vicino? Perché non ti doni a Dio? »

La sua libertà risponderà sì o no, ma risponderà perché qualcuno lo ha interpellato.

E il Signore le ha detto queste cose: « Vuoi essere perfetto? Va', vendi ciò che hai e seguimi » ( Mt 19,21 ).

Quella volta il chiamato non adempì, ma Lui si pronunciò.

7. Essere cristiani intensamente

Essendo cristiani, crediamo in obiettivi più umani, per tutti, più vantaggiosi per tutti, più preziosi e validi, e li diciamo.

Cosa comporta affermare questa convinzione nella vita politica? E facile da immaginare.

Il politico è colui che si prende la responsabilità del bene altrui: questa è la sua straordinaria audacia.

Soltanto i padri e le madri, che hanno per natura la responsabilità dei figli, sono superiori ai politici, ma i politici si prendono la responsabilità del bene di tutti gli altri.

Verrebbe da chiedersi: « Chi glielo fa fare? ».

Eppure questo è l'essere politico, cioè assumersi una responsabilità pubblica per l'altrui bene.

Ma se non c'è dentro questa capacità di offrire davvero obiettivi migliori per tutti, allora si cade negli inconvenienti che ben conosciamo.

Ma può accadere anche il bene.

Sicché ciascuno, in quanto sia chiamante per orientamento e per testimonianza, in realtà è una persona politica: non può non avere relazioni sociali molto penetranti, non può non crearsi una piccola sfera di persone che si trovano, per così dire, sotto l'ombrello della sua benevolenza e che quindi vivono, respirano, sono promosse alla vita per questo insieme di affetti, fatti tutti di rapporti individuali fini e personalizzati, fatti di dialogo, di comunione, di ascolto, di quelle mille cose che sono l'accompagnamento dell'altro.

Ecco, allora ci ritroviamo nell'icona di Emmaus, ma il discorso è sempre il medesimo, che interiormente ci sentiamo così simili al Pastore, che siamo pastori anche noi.

La pastoralità non è propria solo dei pastori che hanno il ministero gerarchico e ordinato, cioè non è solo dei Vescovi, dei Sacerdoti e dei Diaconi: tutto il popolo di Dio è pastore nella storia del mondo.

Conduce, va avanti: le mie pecore mi conoscono e mi seguono, io vado avanti, non le spingo, io vado avanti ed esse mi seguono perché conoscono la mia voce e si fidano di me.

Chiunque di noi sia promotore di forme varie di propaganda - ma tenga presente che la pastorale vocazione è quella prospettata e deve attenersi ad essa - si ispira a questo orientamento.

Ciò significa allora che ci sono preti e suore che chiamano, e altri che non chiamano.

Le nostre scuole cattoliche, si dice, sono povere di potenza vocazionale, producono poca consacrazione, pur essendo state da tempo gestite da consacrati.

É una valutazione delicata questa, bisogna stare attenti a non dare giudizi avventati per le semplificazioni che ne possono derivare, ma senza dubbio lì ci sono uomini e donne chiamanti.

Quanti ex allievi potrebbero attestare che la loro vita è stata precisamente impostata da un incontro, magari neppure lungo, ma con l'influsso chiamante di una persona sufficientemente iconica, attraversata, insomma, da Gesù Cristo.

E questa è una bellissima constatazione che ci fa credere che la Chiesa è feconda, che di persone « chiamanti » ce ne possono essere sempre, che possono indebolirsi le istituzioni, ma questo profondo carisma non si indebolisce mai perché Dio è fedele.

Guardiamoci attorno dunque, consideriamo le persone come creature che Dio mette vicino a noi come destinatari di chiamate; non facciamo programmi, siamo semplicemente quello che siamo con intensità, e allora percepiremo quando la chiamata parte da noi e arriva a qualcuno.

É questa rete invisibile, questo tessuto fine di altri rapporti, che non sono quelli usuali, eppure sono i più importanti, sarà in effetti la nostra gloria: nel Regno non si andrà mai da soli, no, si dice, mentre all'inferno si va da soli.

In altri termini, nell'egoismo si resta terribilmente soli, ma nella comunione si entra sempre con qualcuno.

É una bella sorte questa.

Spiega tra l'altro, per concludere con una icona mariana, come la Madonna nient'altro abbia fatto che Cristo.

Lei non ha avuto il carisma della evangelizzazione per esempio, per quel che ne sappiamo non ha evangelizzato nessuno.

Visse e disse parole significanti.

Eppure è l'icona della Chiesa, estremamente chiamante, così chiamante che è, e la invochiamo: Madre; così chiamante che nel Regno non si entra se non attraverso la sua intercessione.

Lei è la potenza misteriosa, che ci rende molto più forti di quel che non crediamo.

Dobbiamo avere molta fiducia, non scoraggiamoci mai se qualche volta il lavoro, così come si dice, non ha successo, se l'apostolato sembra infecondo.

Sono convinto che non c'è attimo di una vita cristiana che non abbia il suo frutto.

Poi lo vedremo, certo, ma nel libro della vita sta scritto tutto.

Allora, la chiamata ci investe, attraverso di noi passa, crea un po' di storia e poi, quando saremo chiamati in modo definitivo, potremo constatare.

Per adesso lavoriamo nella fede: è ciò che ci auguriamo a vicenda.

( dalla registrazione della conferenza di don Giuseppe Pollano, non rivista dall'Autore )