Libro delle fondazioni

Capitolo 3

In che modo si cominciarono le trattative circa la fondazione del monastero di San Giuseppe in Medina del Campo.

1. Mentre ero dunque fra tante preoccupazioni, mi venne in mente di ricorrere all'aiuto dei padri della Compagnia, che erano assai ben visti in quel luogo, cioè a Medina.

Con costoro, come ho già scritto a proposito della prima fondazione, trattai per molti anni delle cose inerenti alla mia anima; ad essi sono particolarmente devota per il gran bene che sempre mi fecero.

Scrissi ciò che il nostro padre generale mi aveva ordinato al rettore di quel collegio, il quale per combinazione era proprio quello che mi aveva confessato per molti anni, come ho già detto, senza tuttavia farne il nome.

Si chiama Baltasar Alvarez, ed è attualmente provinciale.

Egli e gli altri del collegio risposero che avrebbero fatto tutto il possibile per aiutarmi in quella circostanza.

Infatti si adoperarono molto per ottenere il permesso dalla città e dal vescovo perché, trattandosi di un monastero senza rendite, è una cosa che presenta ovunque difficoltà: la negoziazione si prolungò quindi alcuni giorni.

2. Allo scopo di affrettarla, si recò lì un sacerdote, gran servo di Dio, profondamente staccato da tutte le cose del mondo e assai dedito all'orazione.

Era cappellano del nostro monastero dove mi trovavo io e, poiché il Signore gli ispirava gli stessi miei desideri, mi aiutò molto, come si vedrà in seguito.

Si chiama Giuliano d'Avila.

Pur avendo ormai il permesso, non aveva però casa e nemmeno un centesimo per comprarla.

Quanto al credito necessario per valermi di un prestito, se il Signore non mi aiutava, come poteva ottenerlo una povera pellegrina qual ero io?

Per la provvidenza del Signore, una giovane molto virtuosa, che non aveva potuto trovare posto in San Giuseppe, sapendo che si fondava un'altra casa, mi venne a pregare di accoglierla in essa.

Aveva un po' di soldi, ben pochi, che non potevano bastare per comprare una casa, ma solo per prenderla in affitto – ciò che noi facemmo – e per sopperire alle spese del viaggio.

Senza alcun'altra risorsa, all'infuori di questa, partimmo da Avila, io, due consorelle di San Giuseppe e quattro dall'Incarnazione, che è un monastero della Regola mitigata dove stavo io prima che si fondasse quello di San Giuseppe.

Era con noi il nostro padre cappellano, Giuliano d'Avila.

3. Quando ciò si seppe in città, ci furono grandi mormorazioni: gli uni dicevano che ero pazza, gli altri aspettavano la fine di quella mia insensatezza.

Al vescovo – com'ebbe a dirmi poi – tale insensatezza sembrava enorme, anche se allora non me lo fece capire né volle ostacolarmi, perché aveva per me molto affetto e temeva di addolorarmi.

I miei amici, sì, mi avevano mosso una quantità di obiezioni, ma io vi facevo poco caso: mi sembrava infatti così facile ciò che essi ritenevano malsicuro, che non potevo convincermi dell'impossibilità di una buona riuscita.

Già quando lasciammo Avila avevo scritto a un padre del nostro Ordine, chiamato fra Antonio de Heredia, pregandolo di comprarmi una casa.

Egli era allora priore del convento tenuto in quella città dai frati del nostro Ordine, cioè il convento di Sant'Anna.

Ne parlò con una signora che gli era devota, la quale ne aveva una che era andata tutta in rovina, tranne un appartamento, ma in ottima posizione.

Fu così buona che promise di vendergliela.

Pertanto si misero d'accordo, senza che ella esigesse garanzie né altra obbligazione che la sua parola; se avesse richiesto cauzioni, ci saremmo viste perse, ma il Signore andava sistemando tutto.

Le mura della casa erano talmente rovinate che per questa ragione ne prendemmo in affitto un'altra, in attesa che si riparasse quella, perché il lavoro da fare non era certo poco.

4. All'arrivo ad Arévalo, la sera del primo giorno di viaggio, stanche per il cattivo equipaggiamento, ci venne incontro un sacerdote nostro amico, che ci aveva preparato un alloggio in casa di alcune pie donne.

Mi disse in segreto che eravamo senza casa, perché quella presa in affitto si trovava vicino a un convento di Agostiniani, i quali si opponevano al nostro ingresso lì, ragion per cui bisognava per forza fare una causa.

Ma, mio Dio, quanto servono a poco tutte le opposizioni, quando voi vi compiacete di dar coraggio!

Mi parve perfino che quella notizia mi rianimasse, ritenendo che, se il demonio cominciava ad agitarsi, voleva dire che in quel monastero si sarebbe servito il Signore.

Ciò nonostante pregai quell'ecclesiastico di mantenere la cosa segreta, per non turbare le mie compagne, specialmente le due del monastero dell'Incarnazione, perché le altre avrebbero sofferto per amor mio qualunque difficoltà.

Una di esse era allora sottopriora di quel monastero, e l'uscita da esso le era stata assai contrastata; tutt'e due appartenevano a una buona famiglia e venivano contro la volontà dei loro parenti, perché il nostro progetto sembrava a tutti una follia.

Vidi io stessa, da quanto seguì, che avevano ragione da vendere, ma allorché piace al Signore che io fondi una di queste case, nessuna ragione mi sembra sufficiente per tralasciare di farlo, per lo meno è così fino ad opera compiuta.

Allora mi si presentano tutte insieme le difficoltà, come dirò in seguito.

5. Arrivate al nostro alloggio, seppi che nel paese si trovava un religioso domenicano, esemplare servo di Dio, dal quale mi ero confessata durante la mia permanenza a San Giuseppe.

Avendo parlato a lungo della sua virtù a proposito di quella fondazione, qui mi limiterò a dirne il nome: è il maestro fra Domingo Báñez.

Ha grande dottrina e discrezione, ragion per cui cercavo di agire secondo il suo parere.

Ora, secondo lui, la fondazione non presentava le difficoltà che vi scorgevano tutti gli altri, perché chi più conosce Dio trova più facile le sue opere.

Ed egli, conoscendo alcune grazie di cui mi favoriva Sua Maestà e ricordando quanto aveva visto circa la fondazione di San Giuseppe, riteneva il progetto molto fattibile.

Mi fu di grande consolazione vederlo perché, forte del suo parere, mi sembrava che tutto sarebbe andato per il meglio.

Venuto dunque a farmi visita, gli dissi in segreto ciò che accadeva.

Egli ritenne che per la faccenda degli Agostiniani saremmo potute arrivare presto a una conclusione, ma per me ogni ritardo era cosa ben dura, non sapendo che fare di tante religiose.

Così tutte passammo quella notte in ansia, perché l'intera casa non tardò ad essere al corrente della situazione.

6. L'indomani mattina, poi, arrivò lì il priore del nostro Ordine, il padre Antonio.

Ci disse che la casa di cui aveva concordato l'acquisto era sufficiente per noi e disponeva di un portico dove si poteva fare una cappella, adornandolo con alcuni drappi.

Seguimmo il suo consiglio che, almeno a me, pareva il migliore; quello che più ci conveniva era, infatti, agire con la massima celerità possibile, sia perché eravamo fuori dai nostri monasteri, sia anche perché temevo qualche opposizione, avendone fatto l'esperienza a mie spese durante la prima fondazione.

Volevo pertanto che, prima della divulgazione di questa notizia, si fosse già preso possesso della casa.

Risolvemmo, dunque, di farlo subito.

Il padre maestro fra Domingo fu di questo stesso parere.

7. Raggiungemmo Medina del Campo la vigilia dell'Assunzione della Vergine, a mezzanotte.

Per non far rumore, scendemmo al convento di Sant'Anna, e a piedi ci recammo alla nostra casa.

Fu gran misericordia del Signore che a quell'ora in cui si rinchiudevano i tori destinati a correre l'indomani, non ne incontrassimo nessuno.

Assorbite com'eravamo dal nostro intento, dimenticavamo tutto il resto.

Ma il Signore, sempre memore di coloro che desiderano servirlo, poiché noi non avevamo altro scopo, ci liberò da questo pericolo.

8. Giunte alla casa, entrammo in un patio.

Le mura mi sembrarono alquanto rovinate, ma non come quando le vidi di giorno.

Pare che il Signore avesse voluto che quel benedetto padre diventasse cieco per non vedere come lì non si addiceva porre il Santissimo Sacramento.

Visto il portico, costatammo che c'era da sgombrarlo di molta terra; il tetto era di tegole senza assito, i muri senza intonaco.

Io non sapevo che fare, non sembrandomi quello il posto adatto a porvi un altare.

Piacque al Signore, il quale voleva che la cosa avesse subito compimento, che il maggiordomo di quella signora a cui apparteneva la casa tenesse lì molti arazzi suoi, oltre una coltre di damasco azzurro, e ch'ella, buona com'era, gli avesse ordinato di darci quanto avessimo desiderato.

9. Io, quando vidi così bell'arredo, ne lodai Dio, come avranno fatto anche le altre anche se non sapevamo in che modo procurarci i chiodi, perché quella non era ora di comprarli.

Si cominciò a cercarli nei muri e, alla fine, non senza sforzo, si riuscì a raccapezzarli.

Allora gli uomini si diedero a stendere la tappezzeria, noi a pulire per terra, così di buona lena che, quando albeggiava, l'altare era sistemato, la campanella posta in un corridoio, e subito si celebrò la Messa.

Questo era sufficiente per una presa di possesso, ma non avendoci pensato, vi ponemmo anche il santissimo Sacramento, e da certe fessure di una porta che era lì di fronte, non disponendo di altro posto, assistemmo alla Messa.

10. Fin qui io ero molto contenta, perché è per me di grande consolazione vedere una chiesa di più dove sia il santissimo Sacramento.

Ma il mio entusiasmo durò poco: finita la Messa, infatti, avvicinatami allo spiraglio di una finestra per vedere il patio, mi accorsi che in certe parti i muri erano completamente a terra e che, per ripararli, sarebbero occorsi molti giorni.

Oh, mio Dio! Quando vidi Sua Maestà in mezzo alla strada, in un momento così pericoloso come il nostro a causa di questi malaugurati luterani, quale non fu l'angoscia da cui mi sentii stringere il cuore!

11. Per giunta, mi si presentarono alla mente tutte le difficoltà sollevate da coloro che più mi avevano criticata, e mi resi chiaramente conto che erano obiezioni ragionevoli.

Mi sembrava impossibile proseguire il lavoro intrapreso e, come prima tutto mi appariva facile al pensiero che si lavorava per Dio, così ora la tentazione riduceva talmente il suo potere che non ricordavo d'aver ricevuto alcuna grazia da lui; mi erano presenti solo la mia miseria e la mia incapacità.

Appoggiata dunque alle mie miserabili forze, che buon esito potevo sperare?

Se almeno fossi stata sola, credo che mi sarebbe riuscito più facile sopportare tale delusione; ma mi era estremamente duro pensare che le mie compagne sarebbero dovute tornare al proprio monastero, dal quale erano uscite dopo molti contrasti.

Mi sembrava inoltre che, fallito quest'inizio dell'impresa, non sarebbe più avvenuto tutto ciò che io sapevo che il Signore avrebbe fatto in seguito.

Per giunta poi c'era il timore che le parole da me udite nell'orazione fossero un'illusione: pena non certo piccola ma più grave di tutte, perché il pensiero che il demonio potesse ingannarmi mi procurava una grande apprensione.

Oh, mio Dio! Quale è mai lo stato di un'anima che voi volete lasciare nell'angoscia!

Non c'è dubbio che quando ricordo tale afflizione e qualche altra che ho sofferto in queste fondazioni, mi sembra che, al loro confronto, non debba far caso delle sofferenze corporali, anche se sono state molte.

12. Nonostante questa grande angoscia che mi stringeva fortemente il cuore, non lasciavo capire nulla alle mie compagne perché non volevo affliggerle più di quanto già lo fossero.

Rimasi con questo tormento fino a sera, quando il rettore della Compagnia mandò a visitarmi uno dei suoi padri, che m'incoraggiò e mi consolò molto.

Io non gli raccontai tutte le mie pene, ma solo quella che mi procurava il vederci sulla strada.

Cominciai a occuparmi di far cercare, qualunque ne fosse il prezzo, una casa in affitto, dove trasferirci finché si riparasse l'altra.

Una prima consolazione fu per me vedere l'affluenza della gente alla nostra cappella.

Fu per la misericordia di Dio che nessuno si accorse della nostra imprudenza per quella sistemazione; diversamente sarebbe stato ben fatto toglierci il santissimo Sacramento.

Ora io considero la mia idiozia e mi chiedo come nessuno abbia avuto l'idea di consumare le sacre specie.

Mi pareva che, se si fosse fatto questo, era bell'e finita per la nostra fondazione.

13. Per quante ricerche si compissero, non si riuscì a trovare in tutta la città una casa da prendere in affitto.

Passavo i giorni e le notti in grande angoscia, perché anche se lasciavo sempre alcuni uomini a vegliare il santissimo Sacramento, avevo la preoccupazione che potessero addormentarsi.

Per questo motivo mi alzavo di notte, per guardarli da una finestra, essendoci un bel chiaro di luna che permetteva di vedere bene tutto.

Frattanto continuava a venire gran folla di gente, che non solo non trovava nulla da criticare, ma si sentiva presa da devozione nel vedere un'altra volta nostro Signore in un portico.

E Sua Maestà, da quello che egli è, mai stanco di umiliarsi per noi, sembrava non volesse abbandonarlo.

14. Passati ormai otto giorni, un mercante che abitava in una casa molto buona, vedendo la nostra necessità, ci offrì di andare al piano superiore di essa, dicendo che vi saremmo potute stare come in casa nostra.

Disponeva di una grande sala decorata da dorature che ci mise a disposizione per farne la cappella.

Inoltre una signora, gran serva di Dio, chiamata donna Elena de Quiroga, che abitava vicino alla casa da noi comprata, mi promise di aiutarmi affinché si cominciasse subito a costruire una cappella ove potesse stare il santissimo Sacramento e anche ove potessimo provvedere alla nostra sistemazione come in clausura.

Altre persone ci facevano molte elemosine perché avessimo di che vivere, ma il maggior aiuto mi venne da questa signora.

15. Ciò mi valse a godere subito un po' di pace, perché lì dove andammo stavamo in stretta clausura, e cominciammo a recitare le Ore.

Per la riparazione della casa il buon priore si dava molta fretta ed ebbe a faticare non poco.

Malgrado tutto, si dovette aspettare circa due mesi, ma riuscì ad essere sistemata in modo tale che vi potemmo stare discretamente alcuni anni.

In seguito, il Signore ha permesso che andasse ancora migliorando.

16. Mentre stavo a Medina continuavo ad avere il pensiero ai conventi dei frati, e poiché non v'era alcun soggetto adatto allo scopo – come ho detto – non sapevo che fare.

Mi decisi a parlarne in gran segreto al priore di là, per sentire il suo parere.

Lo feci, dunque, ed egli, appena venne a conoscenza del mio disegno, se ne rallegrò molto e promise di esser lui il primo ad aderirvi.

Io credetti che scherzasse, e glielo dissi.

Infatti, benché sia stato sempre un buon frate, raccolto in se stesso, molto studioso e amante della sua cella, in quanto uomo dotto, non mi sembrava che sarebbe stato adatto per dare inizio a tale opera, né che avesse l'energia sufficiente a promuovere l'austerità necessaria, essendo di salute delicata e non fatto per questo.

Egli si sforzava di rassicurarmi, affermando che da molto tempo il Signore lo chiamava a una vita più austera; e che aveva ormai deciso di entrare tra i Certosini i quali gli avevano già promesso di riceverlo.

Ciò malgrado, non mi sentivo pienamente soddisfatta, pur ascoltandolo con piacere.

Lo pregai, perciò, di attendere qualche tempo e di esercitarsi frattanto a praticare le osservanze cui doveva impegnarsi.

Fu deciso così, e passò un anno durante il quale egli ebbe a patire tante prove e persecuzioni, divenuto oggetto di false testimonianze, da far pensare che il Signore volesse provarlo.

Il priore sopportava tutto così bene e faceva tali progressi che io ne rendevo lode a nostro Signore, sembrandomi che lo andasse preparando alla realizzazione del nostro disegno.

17. Poco tempo dopo capitò in città un giovane padre, ancora studente a Salamanca; venne come compagno di un altro, il quale mi raccontò cose mirabili del suo genere di vita.

Si chiama fra Giovanni della Croce.

Io resi lode di ciò a nostro Signore e, dopo avergli parlato, ne rimasi soddisfattissima.

Seppi da lui stesso che anch'egli voleva entrare tra i Certosini.

Allora gli parlai del mio progetto e lo pregai vivamente di aspettare fino a quando il Signore ci desse un convento.

Gli feci osservare quanto meglio sarebbe stato, se voleva condurre una vita più perfetta, che lo facesse nel suo stesso Ordine e quanto avrebbe servito di più il Signore.

Egli s'impegnò ad aderire alla mia richiesta, purché non si dovesse tardare troppo.

Quando vidi che avevo già due frati con cui cominciare, mi sembrò che la cosa fosse ormai fatta.

Non ero però ancora del tutto soddisfatta del priore, pertanto tardavo un po', anche perché bisognava trovare dove sistemarsi per dare inizio all'opera.

18. Frattanto le monache andavano acquistando ogni giorno di più la fiducia degli abitanti.

La gente nutriva per loro grande venerazione e, secondo me, a ragione, perché ognuna di loro non si preoccupava se non di come potesse servire meglio nostro Signore.

In tutto si attenevano alla maniera di vivere seguita a San Giuseppe di Avila, essendo una sola la Regola e le Costituzioni.

Il Signore cominciò a chiamare alcune a prendere il nostro abito, ed erano tante le grazie di cui le favoriva, ch'io ne rimanevo stupita.

Sia per sempre benedetto! Amen.

Sembra che per amare non aspetti altro che d'essere amato.

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