Libro delle fondazioni

Capitolo 21

In cui si tratta della fondazione del glorioso San Giuseppe del Carmine in Segovia, avvenuta lo stesso giorno di San Giuseppe, l'anno 1574.

1. Ho già detto come, dopo aver fondato il monastero di Salamanca e quello di Alba, e prima che quello di Salamanca disponesse di una casa propria, il padre maestro fra Pedro Fernández, allora commissario apostolico, mi avesse ordinato di recarmi per tre anni all'Incarnazione di Avila.

Vedendo, poi, le necessità della casa di Salamanca, mi ordinò di tornare là, perché le religiose potessero trasferirsi in una casa propria.

Mentre un giorno stavo qui in orazione, nostro Signore mi disse di andare a fondare un monastero a Segovia.

A me parve impossibile farlo, perché non potevo recarmici senza riceverne l'ordine.

Sapevo del resto che il padre commissario apostolico, il maestro fra Pedro Fernández, non voleva che continuassi a fare fondazioni.

D'altronde capivo che, non essendo ancora trascorsi i tre anni in cui dovevo stare all'Incarnazione, aveva tutte le ragioni di non volerlo.

Mentre riflettevo su queste cose, il Signore mi esortò a fargliene richiesta, giacché avrebbe provveduto a tutto lui stesso.

2. Il maestro si trovava allora a Salamanca.

Gli scrissi pertanto ricordandogli come avessi ordine dal nostro reverendissimo generale di non rifiutare alcuna fondazione, quando vedessi una buona occasione per farla, dicendogli anche che in Segovia sia i cittadini sia il vescovo avrebbero visto volentieri la fondazione di uno di questi monasteri: se sua paternità me l'ordinasse, avrei potuto fondarlo; gliene parlavo per scrupolo di coscienza, ma qualunque cosa decidesse, sarei rimasta tranquilla e contenta.

Credo che fossero queste, più o meno, le mie parole, con l'aggiunta che mi sembrava così di rendere onore a Dio.

È evidente che Sua Maestà lo voleva, perché il padre mi rispose subito di provvedere alla fondazione, rilasciandomi per essa l'autorizzazione, cosa di cui rimasi assai stupita, sapendo ciò che pensava a questo riguardo.

Da Salamanca procurai che mi affittassero una casa, perché in seguito alle fondazioni di Toledo e di Valladolid avevo visto che era meglio comprarne una dopo la presa di possesso, per molte ragioni: la principale era che non avevo lì per lì neppure un centesimo per acquistarla, ma, una volta costruito il monastero, il Signore avrebbe provveduto subito a farmi avere il denaro; così si poteva anche scegliere il posto più conveniente.

3. C'era lì una signora, vedova del titolare di un maggiorasco, chiamata donna Ana de Jimena.

Era venuta una volta a trovarmi ad Avila ed era una gran serva di Dio che aveva avuto sempre la vocazione per la vita monastica.

Infatti, una volta costruito il monastero, vi entrò con una sua figlia esemplarmente virtuosa, e il Signore le mutò il malcontento, che aveva avuto da maritata e da vedova, in gioia raddoppiata dal fatto di vedersi nello stato religioso.

Madre e figlia erano sempre vissute in gran raccoglimento e nel servizio di Dio.

4. Questa brava signora prese la casa e la provvide di tutto ciò che le sembrò necessario, sia per la chiesa, sia per noi.

Così, a questo riguardo, ebbi poco da fare.

Ma affinché nessuna fondazione fosse esente da difficoltà, oltre alle pene interiori dovute all'aridità e all'oscurità spirituale in cui ero, al momento di andarvi fui presa da una forte febbre, da una gran nausea e da ogni sorta di mali fisici che, in forma acuta, mi saranno durati tre mesi; insomma, quel mezzo anno trascorso lì fui sempre malata.

5. Ponemmo il santissimo Sacramento il giorno di san Giuseppe e, nonostante l'autorizzazione del vescovo e della città, volli che la nostra entrata, la vigilia, avvenisse segretamente, di notte.

Tale autorizzazione risaliva a molto tempo addietro, e non avevo potuto giovarmene prima perché stavo nel convento dell'Incarnazione e avevo per superiore una persona che non era il nostro padre generale.

Inoltre l'autorizzazione del vescovo che si trovava a Segovia quando la città chiese il monastero, era stata data a voce a un gentiluomo chiamato Andrés de Jimena, incaricato dei nostri affari, al quale non sembrò necessario averla per iscritto.

Neanche a me parve che la cosa rivestisse importanza, e m'ingannai, perché non appena il vicario generale ebbe notizia della fondazione del monastero, venne subito da noi molto irritato e ci proibì di continuare a celebrare Messa.

Voleva far mettere in prigione chi l'aveva celebrata, che era un frate dei carmelitani scalzi, il quale era venuto insieme col padre Giuliano d'Avila e con un altro servo di Dio che mi accompagnava, di nome Antonio Gaytán.

6. Questi era un cavaliere di Alba, che nostro Signore aveva chiamato al suo servizio alcuni anni prima, mentre era ingolfato nelle cose del mondo, ora da lui tenute talmente sotto i piedi, da non occuparsi d'altro che di servire quanto più possibile il Signore.

Siccome nelle fondazioni seguenti si parlerà di lui, che mi ha molto aiutata e molto ha lavorato per noi, ho detto chi egli sia, e se dovessi enumerare le sue virtù, non la finirei tanto presto.

Quella da cui abbiamo tratto più vantaggio è la sua grande abnegazione: tra i servi che ci accompagnavano non ce n'era nessuno che facesse come lui qualunque cosa fosse necessaria.

È un uomo di grande orazione.

Dio lo ha favorito di tante grazie da rendergli piacevole e facile tutto quello che gli altri avrebbero respinto.

Gli sembravano poca cosa le sofferenze subite per queste fondazioni.

Si vede bene che Dio ha chiamato in nostro aiuto sia lui, sia il padre Giuliano d'Avila, il quale, particolarmente, ci ha assistito fin dalla fondazione del primo monastero.

Grazie a loro il Signore dovette certo volere che tutto mi andasse bene.

Durante il viaggio non parlavano che di Dio; istruivano di cose attinenti a lui le persone che venivano con noi o che incontravano per via, e così si adoperavano in tutti i modi a servire Sua Maestà.

7. È bene, figlie mie, che leggerete la storia di queste fondazioni, che sappiate quanto dobbiamo loro, affinché, avendo essi, senza alcun interesse, lavorato tanto per il conseguimento del bene di cui godete, di stare in questi monasteri, li raccomandiate a nostro Signore e siate loro di qualche vantaggio con le vostre orazioni.

Se voi sapeste quante notti cattive, quanti giorni faticosi e quante tribolazioni hanno sofferto in questi viaggi, lo fareste di gran cuore.

8. Il vicario generale non volle abbandonare la nostra chiesa senza lasciare una guardia alla porta, non so a quale scopo; ciò servì a spaventare un po' le persone che stavano lì.

Quanto a me, io non davo mai molta importanza a quel che poteva accadere dopo la presa di possesso: solo prima ero stata assalita dai timori.

Mandai a chiamare alcune persone ragguardevoli della città, parenti di una delle consorelle che avevo condotte con me affinché parlassero al vicario e lo assicurassero che avevo l'autorizzazione del vescovo.

Egli lo sapeva benissimo, a quanto poi ebbe a dire, solo che avrebbe voluto che lo avessimo preavvisato, mentre credo che sarebbe stato assai peggio.

Infine, riuscirono a ottenere che ci lasciasse il monastero, ma ci tolse il santissimo Sacramento, cosa di cui non ci demmo troppa pena.

Passammo così alcuni mesi, fino a quando si comprò una casa.

Ma con essa ci caddero addosso molte liti.

Ne avevamo già avute molte con i frati francescani per un'altra casa, vicina alla loro, che volevamo comprare.

Per questa qui dovemmo sostenere discussioni con i Mercedari e con il Capitolo.

Quest'ultimo vantava dei diritti su di essa.

9. Oh, Gesù! Che fatica è quella di trovarsi fra tante contestazioni!

Quando già sembrava che si fosse concluso tutto, si era da capo; non bastava dar loro quanto chiedevano; subito sorgeva un'altra difficoltà.

Detto così, sembra nulla, ma farne la prova fu cosa dura.

10. Un nipote del vescovo, che era priore e canonico di quella chiesa, faceva tutto quello che poteva per noi, e così anche il licenziato in teologia Herrera, gran servo di Dio.

Alla fine, dopo che sborsammo molto denaro, la questione ebbe termine.

Restava la lite con i Mercedari, a causa della quale fummo costrette a far ricorso a una gran segretezza per trasferirci nella nuova casa.

Quando ci videro insediate in essa, dove ci trasferimmo uno o due giorni prima di san Michele, ritennero opportuno accordarsi con noi dietro compenso di denaro.

Il maggior assillo di queste difficoltà era che non mancavano se non sette o otto giorni alla scadenza dei miei tre anni di priorato all'Incarnazione, e io dovevo assolutamente trovarmi lì al termine di essi.

11. Piacque al Signore che tutto si risolvesse così bene da non lasciare strascico di nessuna contesa, e di lì a due o tre giorni partii per l'Incarnazione.

Sia benedetto per sempre il suo nome per le molte grazie di cui mi ha continuamente favorita, e lo lodino tutte le sue creature! Amen.

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