Proviamo a capirci

Non si può non comunicare

Quinta complicazione

Strano, ma vero

Avete presenti le tre scimmiette sagge, una delle quali si copre la bocca con le mani, l'altra gli occhi, la terza si tappa le orecchie?

Sono le scimmiette che non vogliono dire, non vogliono sentire, non vogliono vedere.

In una parola, non vogliono comunicare.

Ma, a dispetto di questa loro intenzione, noi percepiamo la loro volontà e ciò sta a significare che comunque l'hanno a noi comunicata.

Non vogliono comunicare e, proprio nel momento in cui decidono di non farlo, non hanno modo di evitare di comunicarcelo: comunicano di non voler comunicare.

Il lettore perdonerà questo modo complicato e un po' bizzarro di formulare il pensiero, scelto con lo scopo di sottolineare proprio l'impossibilità per chiunque di sottrarsi alla comunicazione.

Non è possibile non comunicare.

Qualche esempio ci servirà per rendercene conto dal vivo e per cogliere le conseguenze pratiche di tale stato di cose.

Il rumore del silenzio

Il signor Tarebbi ha appena ricevuto un cartoncino di auguri natalizi da un lontano parente con cui si sono interrotti i rapporti da ormai lunghissimo tempo.

Si stupisce di questa inaspettata attenzione, ma decide di non rispondere, cioè di non comunicare.

Il parente in questione probabilmente attende che gli auguri vengano ricambiati e, notato dopo qualche tempo che ciò non avviene, capisce che il suo tentativo di riallacciare i rapporti non ha avuto buon esito.

Pur pensando di non comunicare, il signor Tarebbi ha quindi comunicato almeno la sua intenzione di non comunicare.

Accade con una certa frequenza di leggere che i calciatori di una certa squadra hanno indetto il cosiddetto « silenzio stampa », cioè hanno deciso di non comunicare con i giornalisti.

A giudicare dalla quantità di commenti suscitati sulle pagine dei quotidiani da questo genere di decisioni, si ha la misura di quanto poco silenzioso sia questo tentativo di non comunicare.

E ora di cena a casa Calvisi ( padre, madre ed una figlia di nove anni ).

Il padre sta richiamando la figlia in modo piuttosto energico a causa del ritardo con cui quest'ultima si è presentata a tavola, nonostante sia stata chiamata più volte.

La signora Calvisi giudica in cuor suo un po' eccessiva la severità del marito in questa circostanza: non le sembra che il comportamento della figlia, per quanto non corretto, sia così grave da richiedere tanta attenzione.

Padre e madre già in altre occasioni non si sono trovati d'accordo sui metodi educativi e ne sono nate discussioni in presenza della figlia, che la signora questa volta vuole evitare a tutti i costi.

Decide perciò di non intervenire.

Anzi, approfittando del fatto che è venuto a mancare il pane in tavola, si alza per prenderne nel cucinino, dove prolunga volutamente di qualche istante la sua permanenza proprio per evitare di interferire.

Tornata a tavola si accorge di essere bersagliata da occhiatacce del marito.

Terminata la cena e ritornata in camera la figlia, egli la apostrofa duramente: « L'avevo capito, sai, che non sei mai d'accordo su come fare con la bambina! ».

« Ma come? - replica lei - se non ho detto nulla, non ho nemmeno aperto bocca! ».

Certo, l'intenzione di non comunicare c'era ed era anche una intelligente intenzione.

Purtroppo era anche impossibile da realizzare.

Se fosse rimasta a tavola, ciò sarebbe forse stato interpretato come un avallo della posizione del marito; alzandosi ha fatto capire le sue riserve.

In ogni caso ci sarebbe stata comunicazione.

La situazione, spesso sfruttata dagli umoristi, in cui il marito dimentica l'anniversario di matrimonio, è un esempio eloquente di questo genere di lacci in cui ci si impiglia comunicando.

Infatti, mentre il marito non comunica con l'atteso mazzo di fiori o con un regalo o con un'attenzione, segnala anche di essersi dimenticato della ricorrenza.

Come si vede, non dire o non fare nulla in casi come questo, è tutt'altro che assenza di comunicazione.

Gigi ed Alfio sono due fratellini piuttosto vivaci.

Giocano volentieri insieme, ma ogni tanto bisticciano, cosa che succede d'altra parte alla maggior parte dei fratelli.

Oggi pomeriggio tutto è tranquillo, quando ad un tratto dalla loro cameretta si levano pianti e strilli.

La mamma accorre immediatamente, getta uno sguardo alla situazione, vede che si tratta di uno dei soliti bisticci, decide di non intervenire e se ne ritorna alle sue faccende.

Non ha detto nulla, per cui sembrerebbe non aver comunicato, ma i due bambini hanno subito smesso: evidentemente qualcosa è stato loro segnalato che li ha indotti a cambiare comportamento.

Anche se la madre non si fosse distolta dai suoi lavori neanche per un attimo, ciò sarebbe stato un messaggio, interpretato magari come una implicita autorizzazione a continuare ad accapigliarsi.

Gli stessi organismi sociali devono fare i conti con questa scomoda proprietà della comunicazione.

Il silenzio di un politico di primo piano su una questione di rilevanza nazionale, di un governo a riguardo di un problema interno o internazionale, di un sindacato o di un imprenditore per rapporto a fatti economici o occupazionali, non è assenza di comunicazione.

In altre parole, questi protagonisti sociali, tacendo, cioè volendo non comunicare, di fatto segnalano la loro intenzione di non coinvolgersi o di non volersi assumere responsabilità e questo può essere un messaggio di grande rilevanza, se attribuito a chi, come questi attori sociali, si propone come rappresentante ed interprete della sensibilità collettiva.

Il silenzio non è quindi mai assenza di messaggi, essendo il silenzio stesso un messaggio.

Il fatto curioso è che il silenzio, proprio in quanto comporta l'astensione totale da parte di chi tace dal proporre riferimenti, spesso i più impensati ed imprevedibili, lascia campo libero agli interlocutori nel cercarne i significati.

In questo modo un silenzio, forse dettato da ragioni di prudenza o di attesa di maggiori e più dettagliate informazioni, si presta alle più curiose e talvolta pericolose interpretazioni.

Chi tace, acconsente?

Bisogna a questo punto segnalare uno svarione madornale in cui si può essere indotti dalla saggezza popolare.

Si dice infatti che « chi tace acconsente ».

Le considerazioni appena sviluppate fanno invece dire che chi tace, tace e basta.

Nessuno può essere certo che il silenzio di chi tace significa che è d'accordo.

Le sorprese cui sono andati incontro coloro che hanno pensato nelle diverse epoche e nei diversi contesti di farsi portavoce delle cosiddette maggioranze silenziose ne sono una chiara dimostrazione.

Ritornando a riflettere sull'inevitabilità del comunicare, finiamo a questo punto per concludere come qualsiasi nostro comportamento rappresenta un messaggio, che viene recepito da chi ci circonda: un gesto, un atteggiamento, un silenzio, un'assenza, cosi come un tono di voce, un certo modo di muoversi, di camminare, un'espressione del volto, sono altrettanti messaggi che emettiamo in modo deliberato o senza esserne completamente consapevoli.

Far finta di niente non serve

Gli esempi riportati nei capitoli precedenti descrivono - tra le altre - alcune situazioni in cui i protagonisti, pur avvertendo l'esistenza di qualcosa che non va in un loro rapporto interpersonale, preferiscono evitare di dare risalto alla cosa; fanno perciò finta di niente, oppure cercano di far capire in modo indiretto il loro disaccordo.

E probabilmente il timore di complicare ancor più i rapporti a suggerire di non parlare chiaro.

Nel primo caso si ricorre al silenzio, nel secondo ci si mette a metà strada tra dire e non dire, una specie di mezzo silenzio.

Non si può non comunicare, per cui anche questi silenzi o questi mezzi silenzi finiscono comunque col lasciar capire qualcosa, ma in un modo tanto vago da prestarsi al rischio di inconvenienti.

Si consideri ancora che a tacere il proprio disagio, a mandar giù i rospi come si suoi dire, si riesce di solito per periodi molto brevi.

Con il passare del tempo ciò comporta infatti quasi per tutti un tale accumulo di insoddisfazione e di tensione da causare reazioni il più delle volte tanto improvvise quanto incontenibili quando arriva l'ultima proverbiale goccia che fa traboccare il vaso.

Come fare allora a manifestare chiaramente il proprio pensiero ( dando così voce al silenzio ) ed al tempo stesso evitare di mettere in crisi i propri collegamenti vitali?

Cominciamo con il considerare come in questi casi il modo più spontaneo per comunicare il nostro disagio consisterebbe probabilmente in un atto di accusa verso chi ci mette in difficoltà.

Facilmente il nostro interlocutore di fronte ad una nostra accusa reagirebbe con un'altra accusa o con un'aggressione, allo scopo, dal suo punto di vista, di difendersi.

Da un lato è perciò necessario riuscire a dirgli che ci fa stare male o che ci fa sentire impediti, dall'altro però occorre evitare di metterlo in stato d'accusa.

Si può ottenere questo risultato avendo cura di non sottolineare che lui/lei fa qualcosa di sbagliato o che è cattivo perché ci danneggia, ma di segnalare piuttosto che il problema consiste nel nostro stare male quando lui/lei fa o dice quella certa cosa.

In altre parole, non gli chiediamo di comportarsi diversamente perché sino ad ora ha sbagliato o si è reso colpevole del nostro disagio, ma lo invitiamo a fare altrimenti per evitarci una sofferenza.

Non si pensi ad un vuoto giro di parole fine a se stesso.

Un esempio concreto aiuterà a meglio capire la portata di questa impostazione.

Erica e Max sono sposati da qualche anno.

Sono una coppia ben affiatata, con molti interessi in comune che rendono ancor più saldo il loro legame.

Anche i rapporti con le rispettive famiglie di origine sembrano andare bene, salvo che per un particolare.

Erica ha notato infatti che, quando sono in visita ai suoceri e lei prende posizione su qualche argomento in discussione, Max evita accuratamente di appoggiarla: tace, lasciando a lei di vedersela da sola.

Questo fatto la fa stare male, ma, ad eccezione di qualche timido tentativo senza esito, ha sempre evitato di parlarne con il marito per la paura di creare incomprensioni e tensioni tra loro due.

Preferisce sopportare, anche se con il passare del tempo le riesce sempre più difficile tacere.

Cosa consigliare a Erica?

Potremmo suggerirle di aspettare un momento in cui entrambi sono rilassati per chiedere prima di tutto al marito il suo consenso a parlare dell'argomento, dicendo con tono pacato: « Vorrei parlarti di una cosa che riguarda entrambi.

Posso farlo adesso? O quando hai un minuto di tempo? ».

Registrato il consenso da un'affermazione esplicita ( « Certo, dì pure »! ) o da una mimica di incoraggiamento del volto del marito, potrebbe entrare nel discorso cominciando col descrivere l'ultima occasione in cui si è sentita in difficoltà: « Martedì sera quando siamo stati a cena dai tuoi e si parlava delle difficoltà della donna che lavora, volevo far capire, soprattutto a tua madre che è sempre stata casalinga, che la mia scelta di lavorare in ufficio non è per moda o per conformismo, ma è perché io ci credo.

Ti ho guardato per cercare aiuto, mi sono spostata sedendomi vicino a te nella speranza che tu mi appoggiassi, ma tu hai fatto finta di niente.

Questo mi ha fatto sentire sola e a disagio, anche perché mi hai sempre detto di pensarla come me ».

Qui dobbiamo mettere subito in guardia Erica contro un pericolo: quello di accusare il marito.

Sarebbe infatti molto sbagliato se dicesse: « Quando sei con i tuoi genitori non hai più il coraggio di pensare con la tua testa ».

Questa frase comporterebbe molto facilmente una reazione negativa di Max ed è proprio questo genere di reazioni che lei sembra voler evitare con il silenzio tenuto sino ad ora.

Consiglieremmo quindi ad Erica di proporre al marito qualche nuovo atteggiamento, come ad esempio: « In una prossima occasione come questa, cosa ne diresti se tu, per aiutarmi a sentirmi meno a disagio, appoggiassi solamente la tua mano sulla mia, mentre parlo?

In questo modo, anche senza che tu dica niente, mi sentirei meno sola, perché capirei di avere il tuo sostegno.

O tu come pensi che si potrebbe fare? ».

Come si può agevolmente notare, ad Erica è stato consigliato di comportarsi secondo il seguente schema:

• cercare la disponibilità del marito a parlare della questione ( « Vorrei parlarti di una cosa che riguarda entrambi » );

• descrivere in modo preciso e concreto ciò che ha creato disagio ( « ti ho guardato », « mi sono spostata », « hai taciuto » );

• descrivere le sensazioni provate nella circostanza, evitando accuratamente di incolpare il marito ( « mi sono sentita sola e a disagio » );

• proporre un accorgimento per il futuro ( « appoggia la tua mano sulla mia » );

• motivare questo accorgimento ( « capirei di avere il tuo sostegno » ).

Seguendo questa successione di messaggi si sono ottenuti, punto per punto, questi effetti:

• si è evitato di irrompere nella vita del marito con un'improvvisa e, dal suo punto di vista, imprevista lamentela, che avrebbe potuto indurlo a rifiutare il dialogo o ad assumere una posizione rigidamente difensiva;

• si è evitato accuratamente che la moglie lanciasse accuse, per mantenere centrata l'attenzione esclusivamente sulla descrizione di fatti concreti;

• da parte della moglie non si sono assolutamente formulati giudizi, per mettere invece in evidenza le emozioni ed i sentimenti che ha sentito nascere in lei; vale a dire: emozioni e sentimenti non sono presentati come una conseguenza di un errore o di un'incapacità del marito, ma come un fatto legato a lei medesima, alla sua personale sensibilità ( quasi « ... abbi pazienza, sono fatta così » );

• il discorso non si è fermato ad una lamentela ( la lamentela a sé stante facilmente può essere percepita come un atto di accusa ), ma la moglie ha fatto una proposta alternativa e trattandosi di una proposta, non di una richiesta o di un'imposizione, essa è stata formulata in termini interrogativi e presuppone la libertà del marito di mostrarsi d'accordo oppure no;

• si è offerta una motivazione precisa alla proposta formulata, che altrimenti potrebbe essere interpretata come un capriccio o una rivalsa.

Come si può agevolmente notare, servirsi di un tale schema relazionale permette - seppure con le necessario attenzioni - di parlare di argomenti anche molto delicati e di tenere contemporaneamente sotto controllo i rischi che nascono inevitabilmente quando tra due persone si fa venire a galla qualcosa che non va.

Si tratta, in ultima analisi, di un'efficace alternativa al silenzio, i cui pericoli descritti nel presente capitolo sono a loro volta tutt'altro che trascurabili.

Vivere è comunicare

Affermare che comunicare è inevitabile porta dunque a dire che comunichiamo per il fatto di esistere e che il vivere stesso è comunicazione costante ed ininterrotta.

Abbiamo cominciato a comunicare quando i nostri genitori si sono accorti di averci concepito: il primo atto comunicativo - ovviamente inconsapevole - è consistito nell'influenzare con la nostra esistenza l'equilibrio ormonale dell'organismo di nostra madre, in modo da sospenderne il ciclo mensile e « dire » così che avevamo cominciato a vivere.

Da allora è stato un susseguirsi ininterrotto di comportamenti, suscitati da impulsi interni o da stimoli provenienti dall'esterno, recitati sul palcoscenico della vita, davanti a molti spettatori interessati a cogliervi le nostre intenzioni e le nostre idee.

E la nostra vita tutta intera che « parla » agli altri.

E gli altri « ascoltano » la nostra vita.

Vivere e comunicare rappresentano un tutt'uno: è questo il morivo per il quale non è possibile non comunicare.

Per riassumere

E impossibile non comunicare.

Anche tacendo, o allontanandoci da qualcuno, o essendo assenti, comunichiamo: esprimiamo la nostra intenzione di tacere, di allontanarci o di non voler avere nulla a che fare.

Tacere è spesso deleterio quanto parlare.

Ma c'è un modo di uscire dal dilemma: comunicare il proprio problema senza accusare l'altro di esserne causa, premurandosi di offrire delle alternative concrete al nostro interlocutore.

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