Teologia dei Padri

Indice

La grazia di Dio

1. - Il fiume della grazia

É opera di Dio, lo ripeto, è opera di Dio tutto ciò che noi possiamo.

Di lui viviamo e a lui dobbiamo le nostre forze; da lui riceviamo, e nutriamo in noi quel vigore per cui, posti ancor quaggiù, riconosciamo i segni delle realtà future; solo che il timore custodisca l'innocenza, affinché il Signore, che si è benignamente riversato nei nostri cuori con la discesa della grazia celeste, si fermi, allietato dalla buona ospitalità delle nostre opere sante, nel nostro animo, e non avvenga che la sicurezza raggiunta partorisca trascuratezza e vi si insinui alla fine il vecchio nemico.

Del resto, se tu tieni la via dell'innocenza, se tieni la via della giustizia e resti saldo sui tuoi passi, se, raccolto in Dio con tutte le tue forze e tutto il tuo cuore, tu rimani sempre solo quello che hai cominciato ad essere, quanto più crescerà in te la grazia spirituale, tanto più ti verrà concesso di forza e capacità.

Poiché nel dono che si riceve da Dio non vi è limite né misura alcuna, come è normale per i benefici di questa terra.

Lo Spirito che discende largamente non viene costretto da confini, non viene obbligato entro limiti, non viene frenato in spazi circoscritti.

Promana senza posa, sovrabbonda traboccando: purché il nostro cuore ne abbia sete e gli si apra.

Quanta è la capacità della fede che gli presentiamo, tanta è la grazia inondante che attingiamo.

Per questa ci viene concesso, se siamo sobri nella castità, integri nella mente, puri nelle parole, di poter spegnere nelle membra dolenti l'influsso mortale dei veleni, di purificare dalle colpe gli animi dei deboli, rendendo loro la sanità, di imporre la pace ai nemici, ai violenti la mansuetudine, agli animi inferociti la mitezza; e inoltre di costringere alla confessione, con acerbe minacce, gli spiriti immondi erranti che si immergono negli uomini per sopraffarli; di pressarli con dure percosse ad allontanarsi; e se ricalcitrano, se urlano, se gemono tormentarli con una pena maggiore, colpirli coi flagelli, bruciarli col fuoco.

É una battaglia che si combatte e non si vede: la piaga è occulta e la pena manifesta.

Infatti, abbiamo cominciato ad esser suoi, perciò lo Spirito che abbiamo ricevuto opera con tutta libertà: ma poiché non abbiamo ancora subìto la trasformazione del corpo e delle membra la nostra vista carnale è oscurata dalla nebbia del mondo.

Che potenza spirituale, che forza è questa: non solo sottrarsi ai contatti perniciosi del mondo, ma in più non lasciarsi contagiare, una volta mondi e purificati, dalla corruttela del nemico che rinnova i suoi assalti, anzi, rinvigorirsi ancora e rinsaldarsi nelle proprie forze, tanto da dominare imperiosamente tutto l'esercito del nemico che viene all'assalto.

E affinché si manifesti la verità e brillino di maggior splendore i segni della grazia divina, ti darò luce di conoscenza, ti libererò dalle tenebre che coprono il mondo dissipando la nebbia del male.

Pensa per un istante di venir condotto sulla cima altissima di un arduo monte, di osservare da lassù gli aspetti di tutte le cose che sotto di te giacciono, di dirigere lo sguardo di là e di qua e, libero da ogni contatto terreno, osservare i flutti minacciosi in cui è immerso il mondo: anche tu allora verrai preso da compassione per questa terra e, timoroso di te e riconoscente a Dio, ti congratulerai con tanta più letizia di esserne scampato.

Cipriano di Cartagine, A Donato, 4-6

2. - La vittoria della grazia sulla malizia del cuore

La parabola, da noi spesso ricordata, del contadino che si affatica a seminare e attende poi la pioggia, dal momento che, se non apparissero le nubi e non soffiassero i venti, il suo lavoro non gli gioverebbe a nulla e il seme resterebbe nudo; si può riferire anche alle realtà spirituali.

Se l'uomo, infatti, nella sua vita morale, agisce con le sole sue forze, senza aprirsi ad alcun contributo che trascenda la sua dimensione, egli non potrà mai rendere al Signore frutti adeguati.

In che cosa consiste, dunque, la vita morale dell'uomo?

Nella rinuncia, nel distacco dal secolo presente, nella preghiera perseverante, nella vigilanza, nell'amore di Dio e dei fratelli: questo è ciò che spetta all'uomo di realizzare.

Nondimeno, se egli si appaga unicamente di quanto va mettendo in pratica con le sole sue risorse e non alimenta la speranza di aprirsi a qualcos'altro, il soffio dello Spirito Santo non investirà la sua anima, le nubi celesti non si mostreranno e la pioggia non scenderà dal cielo a irrigare la sua anima: l'uomo, così, non potrà produrre degni frutti per il Signore.

É stato perciò scritto: Il contadino, vedendo che l'albero porta frutto, lo pota, perché produca frutti ancor più abbondanti; egli taglia, però, l'albero che non reca alcun frutto, gettandolo nel fuoco a bruciare ( Gv 15,2 ).

Ciò nondimeno, è opportuno che l'uomo, quando pratica il digiuno oppure veglia o si dedica all'orazione, attribuisca al Signore il merito d'ogni cosa, con queste parole: « Se Dio non mi avesse dato la forza, non avrei potuto digiunare né pregare né mantenermi distaccato da questo mondo ».

Così Dio, constatata la retta disposizione dell'animo tuo ( che tu, cioè, attribuisci a lui stesso ciò che vai compiendo per istinto naturale ), ti elargirà i suoi doni spirituali, costituiti dalle realtà divine e celesti.

Quali sono? Non altro che i frutti dello Spirito ( Gal 5,22 ): l'esultanza e la letizia.

Le cose che compi di tua iniziativa, ancorché oneste e gradite a Dio, non sono tuttavia pure in modo assoluto.

Tu ad esempio ami Dio, ma il tuo amore non è ancora perfetto; viene, allora, il Signore e ti conferisce un amore immutabile, vale a dire « celeste ».

Quando, poi, preghi con le sole forze naturali, sei continuamente distratto dai pensieri e dalle preoccupazioni più diverse: ecco che, allora, il Signore ti dona una preghiera pura in Spirito e verità.

Fra le cose che si mostrano ai nostri occhi, la terra, soprattutto, produce dal proprio seno le spine; il contadino la dissoda, lavorandola con cura, e la semina; le spine, tuttavia, non ricevendo dalla semina alcun beneficio, spuntano di nuovo e si moltiplicano.

Dopo il peccato, d'altronde, fu detto ad Adamo: La terra ti produrrà triboli e spine ( Gen 3,18 ).

Il contadino, allora, dissoda nuovamente il terreno ed estirpa le spine; queste, però, crescono ancora, aumentando di numero.

Ora, provati a intendere tutto ciò in senso spirituale.

A seguito del peccato, infatti, la terra del cuore produce spine e triboli.

L'uomo si dà da fare per dissodarle, ma le spine delle cattive ispirazioni spuntano comunque.

Lo Spirito Santo, allora, reca il suo soccorso alla debolezza umana e il Signore invia nella terra del cuore il seme celeste perché la coltivi: gettato questo seme, però, continuano a crescere triboli e spine.

Alla fine il Signore stesso, assieme all'uomo, lavora la terra dell'anima: spuntano, allora, e si moltiplicano, le spine dei sette cattivi spiriti, sino a quando, sopraggiunta l'estate, abbonda la grazia e l'ardore del sole brucia le spine che sono spuntate.

Benché, infatti, la malizia sia insita nella natura, essa, tuttavia, spadroneggia su questa, nella misura in cui riceve alimento.

Il loglio può soffocare i teneri germogli del frumento; al sopraggiungere dell'estate, però, quando i frutti si saranno seccati, la zizzania non avrà recato alcun danno al frumento.

Alla fine, perciò, si avranno trenta moggi di frumento puro, mescolati con appena la sesta parte di zizzania, sepolta dalla sovrabbondanza di grano.

Ebbene, non diversamente accade a riguardo della grazia: quando i doni di Dio abbondano nell'uomo e questi se ne serve nel nome del Signore, pur essendo presente, in certa misura, la malizia, essa non può danneggiare l'uomo né esercitare forza o autorità alcuna su di lui.

La venuta del Signore, infatti, e la sua provvidenza, agiscono efficacemente per liberare coloro che sono stati asserviti e soggetti alla schiavitù della malizia, facendoli trionfare sul peccato e sul male.

Non si meraviglino, perciò, i fratelli, nel vedersi angustiati da certe pene: se ciò accade, è unicamente perché essi vengano riscattati dalla malizia …

Quando, invece, l'anima sarà giunta nella città dei santi, allora finalmente potrà condurre un'esistenza priva di qualsiasi pena o tentazione.

In quel luogo, infatti, non vi saranno più né ansietà né afflizioni né fatiche, non si subirà la decadenza della vecchiaia, non si affronteranno demoni né guerre: solo pace, gioia, serenità e salute.

Fra le anime dei beati, infatti, risiede il Signore, chiamato, appunto, « Salvatore », poiché libera i prigionieri, e « medico », poiché somministra quella medicina celeste e divina che guarisce le ferite dell'anima.

In una sola parola, Gesù è Re e Dio.

Pseudo-Macario, Omelie spirituali, 26,19-23

3. - La pienezza della grazia nella divina incarnazione

Nulla poté commendare la grazia di Dio più del fatto che lo stesso unico Figlio di Dio, restando pienamente immutato in sé, rivestì la natura umana al fine di donare agli uomini la speranza del suo amore, per mediazione di lui uomo, così che gli uomini potessero pervenire a colui che tanto dista da loro: egli immortale da loro mortali, egli immutabile da loro mutabili, egli giusto da loro peccatori, egli felice da loro miserabili.

E avendo già posto in noi il desiderio naturale di essere beati e immortali, accettando la nostra realtà mortale pur restando beato, ci insegnò con la sofferenza a disprezzare ciò che temiamo, per elargirci un giorno ciò che amiamo.

Agostino, La città di Dio, 10,29

EMP C-1. - La stella ci invita a servire la grazia di Cristo

La Provvidenza misericordiosa di Dio dispose di venire in aiuto, in questi ultimi tempi, al mondo che stava per perdersi: stabilì perciò in Cristo la salvezza di tutti i popoli …

Questi costituiscono la discendenza innumerevole, promessa un tempo al santo patriarca Abramo.

Essa infatti doveva essere generata non dalla carne ma dalla fede; per questo fu paragonata alla moltitudine delle stelle, perché il padre di tutte le genti ponesse tutta la sua speranza in una progenie non terrena, ma celeste …

Entri dunque nella famiglia dei patriarchi la totalità dei gentili e, come figli della promessa, ricevano - nella stirpe di Abramo - la benedizione alla quale rinunciano i figli secondo la carne.

Nella persona dei tre magi, tutti i popoli adorino l'autore dell'universo e Dio sia conosciuto non solo in Giudea, ma in tutto il mondo, perché ovunque, in Israele sia grande il suo nome ( Sal 76,2 ) …

Istruiti perciò da questi misteri della grazia divina, celebriamo con gioia spirituale il giorno delle nostre primizie e la prima chiamata delle genti.

Rendiamo grazie al Dio delle misericordie che, come dice l'Apostolo, ci ha resi capaci di partecipare all'eredità dei santi nella luce, sottraendoci al potere dalle tenebre, e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo Amore ( Col 1,12-13 ).

Infatti, secondo la profezia di Isaia: Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce e su quelli che abitavano nella terra dell'ombra di morte, la luce è spuntata ( Is 9,2 ).

Di questi ancora, il profeta dice al Signore: Ecco, tu chiamerai le genti che non conoscevi, e quelle che non ti conoscevano correranno a te ( Is 55,5 ).

Abramo ha visto questo giorno e si è rallegrato ( Gv 8,56 ), quando ha saputo che i figli della sua fede sarebbero stati benedetti nella sua discendenza, che è il Cristo, e ha visto che, per la fede, sarebbe divenuto padre di tutte le genti.

Diede gloria al Signore, pienamente convinto che ciò che egli promette è anche in grado di attuarlo ( Rm 4,20-21 ).

Davide celebrava questo giorno nei salmi, dicendo: Tutte le genti che tu creasti verranno e si prostreranno davanti a te, o Signore, e daranno gloria al tuo nome ( Sal 86,9 ); e ancora: Il Signore ha manifestato la sua salvezza; agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia ( Sal 98,2 ).

Noi sappiamo che questo si è attuato da quando una stella chiamò dalla terra lontana i tre magi e li guidò verso il Re del cielo e della terra per conoscerlo e adorarlo.

La prontezza di questa stella ci invita ad imitarla, perché, nella misura delle nostre possibilità, serviamo alla grazia che chiama tutti a Cristo.

Chiunque infatti, nella Chiesa, vive nella pietà e nella purezza, chi gusta le cose celesti e non le terrene, somiglia in qualche modo a una stella del cielo ( Col 3,1 ); mentre conserva il candore di una vita santa, come una stella indica a molti la via verso il Signore.

Tendendo a questo, carissimi, voi tutti dovete aiutarvi reciprocamente, perché possiate risplendere come figli della luce nel regno di Dio, a cui si giunge con la fede pura e con le opere buone ( Ef 5,8 ).

Leone Magno, Sermoni, 3,1-3.5

4. - L'opera salvifica di Dio

Sono molti e grandi, fratelli carissimi, i benefici divini, con i quali la larga clemenza di Dio Padre e di Cristo ha operato e sempre opera a nostra salvezza: che cioè il Padre per salvarci e vivificarci, ha mandato il suo Figlio a redimerci, e che il Figlio mandato tra di noi ha voluto chiamarsi figlio dell'uomo, per fare di noi figli di Dio.

Si umiliò per innalzare il popolo che giaceva oppresso; fu ferito per curare le nostre ferite, fu servo per condurre noi servi a libertà, sopportò la morte per offrire a noi mortali l'immortalità.

Sono questi i doni grandi e copiosi della divina misericordia.

Ma inoltre, quale provvidenza è questa, e quanta clemenza, che si provveda al nostro bene col metodo più salutare, che all'uomo redento si procurino mezzi maggiori per una salvezza più piena?

Infatti avendo il Signore guarito con la sua venuta le ferite inflitte ad Adamo e avendo curato l'antico veleno del serpente, diede all'uomo risanato una legge, comandandogli di non peccare più, ché non gli avvenga qualcosa di più grave.

Eravamo coartati e costretti in breve spazio per questo obbligo di mantener l'innocenza, e la fiacchezza, la debolezza della nostra umana fragilità non avrebbe potuto far nulla se la divina pietà, soccorrendoci nuovamente, non ci avesse mostrato quali sono le opere di misericordia, aprendoci la via nel conservare la salvezza, insegnandoci a lavare con le elemosine tutte le macchie da noi in seguito contratte.

Cipriano di Cartagine, Le opere buone e le elemosine, 1

5. - A Dio risale il principio, l'esecuzione e il compimento delle nostre opere buone

Vi è un esempio che mette in evidenza come, senza l'aiuto di Dio, a nulla giovano l'impegno e la fatica.

L'agricoltore, pur avendo posto ogni proprio sforzo nel coltivare i terreni, non può senz'altro attribuire alla propria industria il provento delle biade e l'ubertà dei frutti: quanto spesso ha sperimentato che la sua fatica è vana se non è accompagnata dalla pioggia opportuna, dal sereno e dall'assenza di tempeste invernali.

Vediamo a volte i frutti ormai cresciuti, giunti a piena maturità, venir quasi strappati dalle mani di chi li tiene: a chi ha tanto faticato a nulla giova il sudore e la costanza non appoggiati dall'aiuto di Dio.

Come la divina bontà non elargisce un ricco raccolto ai contadini indolenti che non sommuovono spesso i campi con l'aratro, così l'impegno insonne di chi fatica non dà frutto se non viene fecondato dalla misericordia del Signore.

In ciò tuttavia la superbia umana non attenti di equipararsi o mescolarsi con la grazia di Dio, e non si sforzi di considerarsi partecipe nell'elargizione di questi doni, attribuendo al proprio lavoro la divina liberalità e gloriandosi che il raccolto copioso corrisponda al merito della sua operosità.

Consideri e ponderi con attento esame che le sue braccia non avrebbero neppur potuto intraprendere gli stessi sforzi, sollecitati dal desiderio del benessere, se la protezione di Dio e la sua misericordia non gli avesse elargito la robustezza fisica necessaria per dedicarsi a tutti i lavori dei campi.

La sua forza e la sua volontà sarebbero state inefficaci se la divina clemenza non gli avesse elargito la possibilità di dedicarsi al lavoro, lavoro che spesso viene defraudato o dalla siccità o dalle piogge eccessive.

Infatti, anche quando Dio dona la robustezza fisica, la salute del corpo, il buon risultato dei lavori e il successo nelle imprese, si deve pur sempre pregare che, come sta scritto, il cielo non diventi di bronzo e la terra di ferro ( Dt 28,23 ), che l'avanzo della cavalletta non lo divori la locusta, l'avanzo della locusta non lo divori il bruco e l'avanzo del bruco non lo divori la ruggine ( Gl 1,4 ).

Non solo in ciò l'impegno del contadino laborioso ha bisogno dell'aiuto di Dio: egli deve tener lontano i guai inaspettati, i quali, anche se il campo fosse florido per l'abbondanza tanto desiderata dei frutti, renderebbero vana la sua speranza e la sua aspettativa non solo, ma lo priverebbero persino delle biade ubertose già ammucchiate nell'aia o raccolte nel granaio.

Da tutto ciò si ricava chiaramente che non solo le azioni, ma anche i pensieri buoni traggono origine da Dio, il quale ci ispira il principio del volere santo e ci concede la forza e l'opportunità di soddisfare le nostre giuste brame: Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene di lassù, discende dal Padre degli astri ( Gc 1,17 ), che in noi dà inizio, eseguisce e porta a compimento il bene, come dice l'Apostolo: E colui che fornisce la semente al seminatore e il pane per nutrimento, somministrerà pure e moltiplicherà la vostra semente, e accrescerà i frutti della vostra giustizia ( 2 Cor 9,10 ).

Sta in noi, dunque, seguire umilmente, ogni giorno, la grazia di Dio che ci attira, oppure anche ad essa opporci, con dura cervice.

Giovanni Cassiano, Conferenze, 13,3

6. - L'azione della grazia

Sia scomunicato chi dice che la grazia di Dio, dalla quale siamo giustificati per Gesù Cristo nostro Signore, opera solo la remissione dei peccati già commessi, ma non aiuta a evitare i peccati in futuro.

Sia scomunicato chi dice che la grazia di Dio, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, ci aiuta solo a non commettere il peccato, rivelandoci e aprendoci la conoscenza del precetto, facendoci sapere ciò che dobbiamo volere e ciò che dobbiamo evitare, ma che non ci viene da essa concesso di compiere volentieri il bene conosciuto e la capacità di compierlo …

Sia scomunicato chi dice che la grazia giustificante ci viene elargita per poter eseguire con più facilità ciò che siamo tenuti a fare con le forze della nostra libera volontà, come se, non venendoci elargita la grazia, noi potessimo eseguire i comandamenti di Dio, certamente non con facilità, ma pur senza di quella.

Infatti, riguardo ai frutti dei precetti divini disse il Signore: Senza di me nulla potete fare ( Gv 15,5 ), e non disse: « Senza di me potete farlo con più fatica ».

Sinodo di Cartagine, Lettera a papa Zosimo

7. - Volere e compiere: opera di Dio

Dobbiamo essere ben certi che, pur esercitandoci in tutte le virtù con sforzi indefessi, non potremo mai raggiungere la perfezione con la nostra diligenza e il nostro impegno.

Non basta l'umana sollecitudine con il merito delle sue fatiche per giungere ai premi tanto sublimi della beatitudine, se non vi siamo innalzati con l'aiuto di Dio, che dirige il nostro cuore a ciò che ci si addice.

Dobbiamo dunque pregare con Davide in ogni istante, dicendo: Perfeziona i miei passi nei tuoi sentieri, perché il mio piede non vacilli ( Sal 17,5 ), e: Ha posto sulla roccia i miei piedi e ha diretto i miei passi ( Sal 40,3 ).

Così il nostro arbitrio, che facilmente si volge ai vizi o perché ignora il bene o perché viene sedotto dalle passioni, venga per degnazione dell'invisibile guida della mente umana attratto piuttosto all'impegno per le virtù …

Un altro passo dice: Se il Signore non mi avesse aiutato, la mia anima avrebbe quasi abitato nell'inferno ( Sal 94,17 ): per la perversione del libero arbitrio confessa che sarebbe finito nell'inferno, se non fosse stato salvato dall'aiuto e dalla protezione del Signore.

Dal Signore, infatti, non dal libero arbitrio, vengono diretti i passi degli uomini.

E quando il giusto cade, per colpa cioè del suo libero arbitrio, non si fa male.

Perché? Perché Dio gli pone sotto la sua mano ( Sal 37,23-24 ).

Tutto ciò è come dire chiaramente: Nessun giusto basta a se stesso per ottenere la giustizia, se ad ogni momento, a lui che vacilla e scivola, la divina clemenza non porge a sostegno la sua mano, evitando che, crollando e cadendo per la debolezza del suo libero arbitrio, vada del tutto perduto.

Gli uomini santi, poi, non hanno certo mai attestato di aver ottenuto per propria industria l'indirizzo sulla via in cui procedono tendendo al profitto nelle virtù e alla perfezione; lo imploravano piuttosto dal Signore, dicendo: Indirizzami nella tua verità ( Sal 25,5 ) e Dirigi al tuo cospetto la mia via ( Sal 5,9 ).

Inoltre: Fammi conoscere la via in cui camminare ( Sal 27,11 ).

Vi è un altro poi che proclama di aver appreso tutto ciò non solo dalla fede, ma anche per esperienza, quasi dalla stessa natura delle cose: Ho conosciuto, Signore, che l'uomo non ha presso di sé la propria strada, che all'essere umano non è concesso di camminare e dirigere i propri passi ( Ger 10,23 ).

E lo stesso Signore dice a Israele: Io sono come un abete verde; grazie a me si troveranno in esso i frutti ( Os 14,9 ).

Anche la conoscenza della sua legge essi aspirano ogni giorno di acquistare, non con l'applicazione alla lettura, ma per l'insegnamento e l'illuminazione di Dio, dicendo a lui: Mostrami, o Signore, le tue vie, ammaestrami sui tuoi sentieri ( Sal 25,4 ), e: Apri i miei occhi, e io considererò le meraviglie della tua legge ( Sal 119,18 ) …

La stessa intelligenza per poter conoscere i comandamenti di Dio - che pur sapeva esser scritti nel libro della legge - Davide supplica di ottenere dal Signore dicendo: Servo tuo io sono; dammi intelligenza per imparare i tuoi precetti ( Sal 119,125 ).

Eppure aveva l'intelligenza fornitagli dalla natura, e aveva anche cognizione dei precetti del Signore descritti nel libro della legge, che certo aveva a portata di mano; eppure per poterla intendere appieno supplica il Signore, ben sapendo che non gli possono assolutamente bastare le doti insite per natura - se il suo senso non fosse ogni giorno illuminato dallo splendore divino - per una comprensione spirituale della legge e una più aperta conoscenza dei suoi precetti.

Lo stesso Vaso di elezione proclama con chiarezza ciò che veniamo dicendo: É Dio, infatti, che secondo i suoi benevoli disegni opera in voi il volere e l'operare ( Fil 2,13 ), e ancora: Comprendi quello che ti dico: il Signore te ne darà intelligenza ( 2 Tm 2,7 ).

Cosa si poteva asserire più chiaramente se non proclamando che sia la nostra buona volontà, sia il compimento delle opere vengono attuati in noi dal Signore?

E ancora: A voi è stato concesso per Cristo, non solo di credere in lui, ma anche di patire per lui ( Fil 1,29 ): qui ha proclamato che l'inizio della nostra conversione e della nostra fede, come pure la tolleranza nei dolori, ci viene donata dal Signore.

Anche Davide, comprendendo ciò, supplicava che gli fosse ciò elargito dalla bontà del Signore, dicendo: Conferma, o Signore, ciò che hai operato in noi ( Sal 68,29 ); mostra così come non basta l'inizio della salvezza elargito per dono e grazia di Dio, se non viene perfezionato dalla sua misericordia e dal suo aiuto quotidiano.

Non il libero arbitrio, infatti, ma « il Signore scioglie i prigionieri »; non la nostra energia, ma « il Signore raddrizza gli incurvati »; non l'assiduità alla lettura, ma « il Signore apre gli occhi ai ciechi », che nel greco suona il Signore rende sapienti i ciechi ( Sal 146,8 ).

Non la nostra attenzione, ma il Signore protegge i forestieri ( Sal 146,9 ), non la nostra forza, ma il Signore corrobora, cioè sostiene, chiunque sta per cadere ( Sal 145,14 ).

Diciamo tutto questo, non per togliere ogni valore al nostro impegno, alla nostra fatica e alla nostra industria giudicandoli vani e superflui, ma perché ci sia ben chiaro che senza l'aiuto di Dio non possiamo neppure impegnarci e che i nostri sforzi non sono efficaci a raggiungere il premio immenso della purezza, se non ci viene elargito dall'aiuto di Dio e dalla sua misericordia.

Giovanni Cassiano, Conferenze, 3,12-15

8. - Tutti dipendono dalla grazia, sia i buoni, sia i cattivi

Che dobbiamo pensare di coloro, i quali ritengono di dovere a se stessi il fatto di essere buoni, e non considerano colui la cui grazia ogni giorno essi ottengono?

Anzi, coloro che si dimostrano tali, non ottengono da Dio grazia alcuna; eppure senza di lui confidano di poter conseguire quello che a stento conseguono gli altri che da lui lo impetrano e meritano di ottenere.

Cosa mai può essere tanto empio, tanto barbarico, tanto estraneo alla religione, tanto ostile alla mentalità cristiana, quanto negare di ricevere da lui quanto ottieni per grazia quotidiana, da lui, a cui confessi di dovere la tua stessa esistenza?

Provvedendo a te stesso supererai dunque colui il quale fece sì che tu esistessi?

E se ritieni che a lui devi la vita, perché non vuoi ammettere che devi a lui, ricevendo ogni giorno la sua grazia, il poter vivere in un dato modo?

E se neghi che noi abbiamo bisogno dell'aiuto divino come se fossimo completamente perfetti con le nostre capacità, perché poi supplichiamo il suo aiuto in noi, se possiamo vivere così anche da noi stessi?

Se qualcuno nega l'aiuto di Dio, vorrei interrogarlo su cosa realmente intende: che noi non lo meritiamo, o piuttosto che lui non ce lo può concedere, o che non vi è nulla per cui ciascuno di noi lo debba richiedere.

Che Dio lo possa, lo testimoniano le sue stesse opere.

E che ogni giorno noi abbiamo bisogno del suo aiuto, non lo possiamo negare.

Lo imploriamo infatti, se viviamo bene, per poter vivere meglio, con più santità; se poi i nostri sensi perversi ci distolgono dal bene, abbiamo maggiormente bisogno del suo aiuto per tornare sulla retta via.

Cosa infatti si rivela tanto esiziale, cosa può travolgerci in rovina ed esporci a tutti i pericoli se, ritenendo che ci possa bastare solamente il libero arbitrio ricevuto con la nascita, non chiediamo più nulla dal Signore, rifiutando cioè, dimentichi del nostro Creatore, la sua potenza, per dimostrarci così liberi?

Come se non avesse più nulla da poterti elargire colui che alla tua nascita ti ha fatto libero?

Ignorando cioè che, se non discende in noi la grazia scongiurata con suppliche ardenti, inutilmente ci sforzeremo di vincere gli errori della terrena corruzione e del corpo mondano, perché non il libero arbitrio, ma solo l'aiuto di Dio ci può rendere pari a resistere …

L'uomo infatti fu ferito una volta nel libero arbitrio per l'uso sconsiderato dei suoi beni, cadde e si immerse nel baratro della prevaricazione non trovando modo per poterne risalire.

Defraudato per sempre della sua libertà, sempre sarebbe giaciuto oppresso da tanta rovina, se in seguito non l'avesse risollevato, con la sua grazia, l'avvento di Cristo.

Cristo lo mondò, nel lavacro del suo battesimo, purificandolo con la nuova nascita da ogni vizio passato; e, pur avendone rafforzato lo stato tanto da renderlo atto a procedere con maggior rettitudine e sicurezza, non gli negò in seguito la sua grazia.

Avendo infatti redento l'uomo dai peccati passati, ma sapendo tuttavia che avrebbe potuto peccare in seguito, si riservò non poche opportunità di riparazione, in modo cioè da poterlo correggere anche dopo tutto ciò: ogni giorno gli concede i rimedi, senza il cui sicuro appoggio non ci è assolutamente possibile vincere l'umano errore.

Senza il sostegno di colui che ci aiuta a vincere, necessariamente noi verremmo vinti.

Chi dunque aderisce all'opinione che noi non abbiamo bisogno dell'aiuto divino, si dimostra nemico della fede cattolica e ingrato dei benefici di Dio.

Coloro che si macchiano di una tale dottrina sono indegni della nostra comunità: da se stessi, accettando una tale idea, si allontanano dalla vera religione.

Innocenzo I, Lettera ad Aurelio Agostino e ai vescovi del Concilio di Cartagine

9. - L'effetto della grazia sulla natura e la volontà degli uomini

Colui che riceve la grazia divina, venendo perciò in parte trasformato, rimane tuttavia nella propria natura?

Anche dopo aver ricevuto la grazia, affinché siano messe alla prova le inclinazioni e le scelte della volontà, la natura rimane sempre la medesima: tutta d'un pezzo ovvero malleabile, a seconda di come sia originariamente.

Può accadere, ad esempio, che una persona rozza, una volta rigenerata spiritualmente e trasformata in sapiente, venga a conoscenza, per rivelazione, di reconditi misteri; ebbene, costui, nonostante tutto, conserverà la propria indole grezza.

Un altro ha un carattere duro: se egli, tuttavia, rivolge la sua volontà verso il culto divino, questo riceverà accoglienza presso Dio.

Pur conservando quell'uomo la propria durezza di carattere, piacerà nondimeno a Dio.

Un'altra persona, al contrario, può essere di modi gentili, tollerante e benevola …

Allo stesso modo come, su di una pergamena, si può scrivere ciò che si vuole e poi cancellarlo ( sulla pergamena, infatti, si può riscrivere di continuo ), non diversamente anche colui che è duro di carattere può rivolgere la sua volontà verso Dio, convertendosi al bene e suscitando la compiacenza del Signore.

Iddio, infatti, per manifestare apertamente la sua più intima natura, accoglie chiunque si rivolga a lui, qualunque sia l'impulso da cui sia stato spinto.

Pseudo-Macario, Omelie spirituali, 26,5-6

10. - L'opera della grazia nella vita terrena

Egli che elargisce alla sua creatura tanti beni, sia ai buoni che ai cattivi - l'essere, l'essere uomini, l'uso dei sensi, la salute e la forza, l'abbondanza di beni -, donerà se stesso ai buoni per renderli così beati; anche questo infatti è un suo dono: che siano buoni.

Ma i filosofi, che in questa vita piena di calamità, in queste membra moribonde, sotto il peso di questa carne corruttibile, hanno preteso di essere autori e quasi fondatori della loro beatitudine, quasi potessero bramarla e ottenerla con le proprie forze e non dovessero sperarla e chiederla alla fonte suprema di ogni virtù, non hanno avuto neppur la possibilità di sentire Dio, che resiste alla loro superbia …

Ma se la vita è misera, cosa è - per favore - se non una frenesia quello che impedisce di riconoscere Dio e di pregarlo, di supplicare lui giusto e misericordioso, che può scamparci dai mali di questa vita o alleviarli, oppure armarci di fortezza per sopportarli, e anche liberarcene completamente; e che dopo ciò può darci la vita veramente beata, in cui non vi è posto per nessun male e dove mai si perde il sommo bene?

Questo è il premio dei giusti, e nella speranza di ottenerlo un giorno tiriamo avanti questa vita temporale non con diletto, ma con sopportazione; ne sopportiamo fortemente i mali con saggio consiglio e per dono di Dio e insieme ci allietiamo dei beni eterni, per la fedele promessa divina e la nostra fiduciosa aspettativa.

Esortandoci a ciò, l'apostolo Paolo ci dice: Rallegratevi nella speranza, siate pazienti nella tribolazione ( Rm 12,12 ): ci mostra il perché dobbiamo essere « pazienti nella tribolazione », premettendo che dobbiamo « godere nella speranza ».

A questa speranza io vengo esortato per Gesù Cristo nostro Signore.

É questo che il divin maestro, nascosta la sua maestà divina e presentando la debolezza della sua carne, non solo ci ha insegnato con l'oracolo della sua parola, ma ci ha anche confermato con l'esempio della sua passione e risurrezione.

Nella prima ci ha mostrato ciò che dobbiamo sopportare, nella seconda ciò che dobbiamo sperare …

Perciò abituati, te ne prego, ad essere già beato nella speranza, perché tu lo sia un giorno anche nella realtà; alla pietà indefessa e perseverante viene infatti data la mercede della felicità eterna.

In questa vita, la sapienza consiste nel vero culto di Dio e nel futuro secolo il suo frutto è certo e integro.

Qui la pietà salda e perseverante, lassù la felicità eterna.

Se ho qualcosa di questa sapienza, che è l'unica vera, l'ho impetrata da Dio, non me la sono arrogata da me; e spero con fiducia che venga in me condotta a compimento da colui, il quale l'ha in me incominciata.

Per quello che non mi ha ancora donato, non voglio essere incredulo, né per quello che mi ha donato, ingrato.

Non per mio ingegno né per mio merito, ma per suo dono solo, se ho qualche dote degna di lode.

Alcune menti acutissime ed eccelse finirono in errori tanto maggiori con quanta più presunzione si misero a correre con le loro forze e non chiesero con suppliche e sincerità a Dio che mostrasse loro la via.

Agostino, Le Lettere, II, 155,2-5 ( a Macedonio )

11. - Coronando i nostri meriti, Dio corona i suoi propri doni

Se cerchiamo quale è il merito per cui si ottiene misericordia, non lo troviamo, perché non esiste: la grazia infatti sarebbe vanificata se non fosse donata gratuitamente, ma solo resa ai meriti.

Se diciamo che le precede la fede, in cui consiste il merito per ottenere la grazia, che merito aveva mai l'uomo prima della fede, per ottenere la fede?

Cosa ha che non abbia ricevuto?

E se tutto è ricevuto, perché se ne gloria come se non lo avesse ricevuto?

L'uomo non avrebbe la sapienza, l'intelletto, il consiglio, la fortezza la scienza, la pietà, il timore di Dio se non avesse ricevuto, secondo il detto profetico, lo spirito di sapienza e di intelletto, di consiglio e di fortezza, di scienza, pietà e timore di Dio ( Is 11,2-3 ); ma allo stesso modo non avrebbe virtù, carità, continenza, se non avesse accolto lo spirito, di cui l'Apostolo dice: Avete ricevuto infatti lo spirito non di timore, ma di virtù, carità e continenza ( 2 Tm 1,7 ).

Parimenti non avrebbe fede, se non avesse ricevuto lo spirito di fede, del quale ancora l'Apostolo dice: Ma abbiamo lo stesso spirito di fede, come sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato; e noi crediamo, perciò anche parliamo ( 2 Cor 4,13 ).

E che lo riceviamo non per nostro merito, ma per misericordia di colui che ha misericordia con chi vuole, lo mostra con tutta chiarezza quando dice di se stesso: Ho conseguito misericordia, perché così sia fedele ( 1 Cor 7,25 ).

Se diciamo che il merito della preghiera precede il dono della grazia, anzitutto la preghiera, ottenendo ciò che impetra, mostra chiaramente che si tratta di un dono di Dio, tanto che l'uomo non può ritenere di poterlo ottenere da se stesso, perché se l'avesse in proprio potere, certamente non lo chiederebbe; tuttavia, affinché non si pensasse che neppure il merito della preghiera precede la grazia - e questa non sarebbe più grazia, perché non sarebbe gratuita, ma verrebbe data perché dovuta - troviamo anche che la stessa preghiera fa parte dei doni della grazia.

Non sappiamo infatti cosa pregare, dice l'apostolo delle genti, come conviene; ma lo stesso Spirito supplica per noi con gemiti inenarrabili ( Rm 8,26 ).

Che significa poi « supplica », se non che ci fa supplicare?

Supplicare con gemiti è indice certissimo di indigenza.

Ma non è lecito credere che lo Spirito Santo abbia indigenza di qualcosa.

Perciò si dice che « supplica », perché ci fa supplicare, ci ispira il desiderio di pregare e gemere; come dice il passo evangelico: Non siete voi infatti che parlate, ma lo Spirito del Padre mio, che parla in voi ( Mt 10,20 ).

Anche questo non avviene in noi come se noi nulla facessimo; così dunque viene espresso l'aiuto dello Spirito Santo: si dice che egli fa ciò che ci fa fare.

Nessuno ha vera sapienza e intelletto, nessuno si impone con retto consiglio e giusta fortezza, nessuno ha scienza e pietà unite insieme, nessuno teme Dio con casto timore, se non riceve lo spirito di sapienza e d'intelletto, di consiglio e fortezza, lo spirito di scienza, pietà e timore di Dio; nessuno ha vera virtù, carità sincera, continenza scrupolosa se non perché ha spirito di fede, di carità e continenza; così senza lo spirito di fede nessuno avrà fede retta, e senza lo spirito di orazione nessuno pregherà tanto da ottenere salvezza.

Agostino, Le Lettere, I, 14-18 ( a Sisto )

12. - La grazia viene in soccorso della volontà

É possibile obbedire ai comandamenti di Dio, se soltanto abbiamo la volontà di vincere con lo zelo della virtù qualsiasi passione scatenata dalla natura.

Nulla di ciò che Dio ha ordinato agli uomini è, d'altronde, impossibile.

Se saremo decisi a dimostrare, infatti, tutta la forza che risiede in noi, Dio, a sua volta, vi aggiungerà anche il suo preziosissimo aiuto, consentendoci così di rimanere sicuri e integri in mezzo ai pericoli, a dispetto di tutte le difficoltà che ci troveremo ad affrontare.

Non intendo dire, con ciò, che sia riprovevole aver timore delle avversità: ciò da cui occorre guardarsi, però, è il commettere, per timore delle avversità, qualcosa che non sia coerente con la nostra fede.

Proprio per il fatto di temere la sfortuna, anzi, colui che nel combattimento non viene sconfitto appare più ammirevole di chi, invece, non la teme.

La virtù, infatti, risplende maggiormente nel primo, dal momento che ha ottenuto la vittoria anche su ciò di cui aveva paura.

Il timore delle avversità, del resto, è perfettamente naturale e in esso non v'è nulla di disdicevole: è compito della volontà, peraltro, soccorrere la debolezza della natura e sostenere, con la propria forza, i suoi limiti.

Neppure il soffrire, dunque, può esser considerato alla stregua d'una colpa; ciò che è riprovevole, invece, è il fatto di dire o fare, dietro lo stimolo della sofferenza, qualcosa che possa dispiacere a Dio.

Giovanni Crisostomo, Panegirico per san Paolo, 6

13. - Effetto della grazia sulla natura umana

Le cinque vergini prudenti e sobrie si affrettarono ad accogliere l'ospite della loro natura e, ricevuto l'olio nella lampada del cuore, cioè la celeste grazia dello Spirito, poterono accedere, insieme con lo sposo, al talamo divino.

Le altre, invece, stolte com'erano, persistendo nella loro propria natura, non vigilarono e non si diedero da fare per ricevere l'olio dell'esultanza nei loro vasi; al contrario, come fossero ancora nella carne, a motivo della loro negligenza, pigrizia, ignoranza e anche presunzione, si addormentarono.

Per questo non furono ammesse al talamo del regno: non potevano, infatti, piacere allo Sposo celeste, dal momento che, legate al mondo e avvinte da un affetto terreno, non gli avevano offerto tutto il loro amore e non avevano preso con sé l'olio.

Le anime, infatti, che ricercano l'ospite della loro natura, cioè la santificazione per opera dello Spirito, sono intimamente unite, con tutto il loro amore, al Signore: in lui si muovono, in lui pregano, in lui concentrano i loro pensieri, dopo aver rinunciato a tutto il resto.

Per questo vengono stimate anche degne di accogliere l'olio della grazia divina, sì da poter condurre un'esistenza senza macchia alcuna, ben accette e gradite quant'altre mai allo Sposo spirituale.

Le anime che persistono ostinatamente nella loro natura, invece, con i loro pensieri strisciano per terra, hanno una mentalità meramente umana, il loro intelletto dimora sulla terra; la presunzione, peraltro, le induce a credere di appartenere allo Sposo e di apparire belle secondo il giudizio della carne.

Non avendo, in realtà, ricevuto l'olio dell'esultanza, queste anime non sono nate dallo Spirito celeste.

Ora, i cinque sensi razionali dell'anima, una volta che abbiano accolto la grazia divina e la santificazione per opera dello Spirito, corrispondono realmente alle vergini prudenti, le quali, infatti, ricevettero dall'alto la sapienza della grazia.

Se, invece, le facoltà dell'anima si ostinano a rimanere nei limiti della loro natura, saranno allora simili alle vergini stolte e si dimostreranno figlie di questo mondo: se ciò si verificasse, infatti, esse non si sarebbero spogliate dello spirito di questo mondo e riterrebbero falsamente, con speciosi argomenti e solo in apparenza, di essere spose dello Sposo.

Allo stesso modo come, infatti, le anime che sono intimamente unite al Signore, a lui rivolgono i pensieri e le preghiere e in lui si muovono, tutte prese dal desiderio dell'amore di Dio; così pure, dalla parte opposta, le anime che sono avvinte dall'amore per il mondo e vogliono risiedere su questa terra, qui si muovono, qui concentrano i pensieri, qui prende dimora il loro intelletto.

Esse non possono, perciò, conseguire quella virtuosa prudenza, frutto dello Spirito che è ospite della nostra natura; non possono ottenere, cioè, quella grazia celeste che occorre unire e saldare intimamente alla nostra natura, onde poter accedere anche noi, insieme con il Signore, al celeste talamo del regno e riscuotere l'eterna salvezza.

In luogo, infatti, dell'ospite della natura nostra, abbiamo ricevuto in noi, attraverso la disobbedienza del primo uomo, la malizia delle passioni; occorre, perciò, che questa, consolidata in noi alla stregua di una seconda natura a causa della consuetudine e della lunga pratica di essa, sia nuovamente scacciata, in grazia dell'ospite della nostra natura, cioè del dono celeste dello Spirito, e venga in tal modo ripristinata l'originaria purezza.

E se non otterremo adesso, con l'ardore della fede e della preghiera e con il disprezzo del mondo, il celeste dono dello Spirito, e la nostra natura non sarà unita a quell'amore, che è lo stesso Signore, riscattandosi, per l'opera dello Spirito, dalla malizia di cui è inquinata; e se non saremo in grado di perseverare sino alla fine, liberi da ogni macchia e da qualsiasi impedimento e sinceramente convertiti a tutti i suoi comandamenti, non potremo conseguire il regno celeste.

Pseudo-Macario, Omelie spirituali, 4,6-8

14. - Senza la grazia preveniente di Dio nessuno può adempiere i comandamenti

Ritieni fermissimamente e non dubitare affatto che nessun uomo può quaggiù far penitenza, se non colui che viene illuminato da Dio e convertito dalla sua gratuita misericordia.

Dice infatti l'Apostolo: Che forse Dio conceda loro di convertirsi tanto che conoscano la verità e si liberino dai lacci del diavolo ( 2 Tm 2,25 ).

Ritieni fermissimamente e non dubitare affatto che l'uomo può - a meno che non ne sia impedito dall'analfabetismo o da qualche malattia o contrarietà - leggere, o ascoltare dalla bocca di ogni predicatore le parole della legge santa e del Vangelo; ma che nessuno può obbedire ai divini comandamenti se non colui che Dio ha prevenuto con la sua grazia, tanto che possa percepire anche nel cuore ciò che ode col corpo, e, ricevuta dal cielo la buona volontà e le virtù necessarie, voglia e possa eseguire i comandi di Dio.

Non infatti colui che pianta è qualcuno, né colui che irriga, ma solo colui che fa crescere, Dio ( 1 Cor 3,7 ); egli opera in noi anche il volere e il compiere, nel suo beneplacito ( Fil 2,13 ).

Fulgenzio di Ruspe, Regola della vera fede, 31-32

15. - Il dono di volere e di compiere

Salomone, nel libro dei Salmi, dice: Se il Signore non fabbrica la casa, lavora invano chi la costruisce.

Se non è il Signore a vegliare sulla città, veglia invano chi la custodisce ( Sal 127,1 ).

Ora, queste parole non vanno affatto intese nel senso che noi dobbiamo astenerci dal costruire o dal vigilare a custodia della città che è dentro di noi; ciò che esse vogliono dimostrare, invece, è che qualsiasi cosa venga edificata senza Dio o custodita senza di lui, inutilmente è costruita e senza scopo viene difesa …

La nostra volontà, infatti, non è sufficiente a conseguire, con le sole sue forze, la salvezza; né questa corsa che si compie sulla terra vale a raggiungere il traguardo dei cieli e a conquistare la palma della celeste chiamata di Dio in Cristo Gesù, a meno che questa nostra stessa buona volontà e questo nostro zelante proposito e, insomma, tutto ciò che può esser frutto della nostra iniziativa, non venga sostenuto e rafforzato dall'aiuto divino.

É per questo che l'Apostolo afferma giustamente: Non dipende, perciò, da colui che vuole né da colui che corre, ma da Dio che usa misericordia ( Rm 9,16 ) …

La nostra perfezione, pertanto, non è la conseguenza dei nostri sforzi esitanti e sterili … ma è soprattutto opera di Dio …

Il ruolo ricoperto da Dio è assai più rilevante di quello che possiamo assolvere noi …

A proposito, tuttavia, dell'affermazione secondo la quale sia il volere che il portare a compimento dipendono da Dio ( Fil 2,13 ), alcuni asseriscono: « Se è vero che tanto il volere quanto il condurre a compimento dipendono da Dio, il fatto che noi desideriamo o compiamo il bene oppure il male è unicamente responsabilità di Dio.

Stando così le cose, ciò significa che noi non siamo dotati di una libera volontà ».

A un'obiezione del genere occorre rispondere che l'Apostolo non intende attribuire a Dio la responsabilità di volere o di compiere il bene oppure il male; egli afferma, piuttosto, che, generalmente, sia la volontà che la capacità di condurla ad effetto dipendono da Dio.

Allo stesso modo come, infatti, da Dio dipende il nostro esser uomini, il nostro respirare, il nostro muoverci, così pure è da lui che dipende la nostra volontà; non diversamente, d'altronde, affermiamo che da Dio deriva il fatto che noi ci muoviamo ovvero che ciascuno dei nostri membri, assolvendo il proprio compito, si muove.

Donde, tuttavia, non si deve assolutamente dedurre che, qualora la nostra mano si muova, ad esempio, per colpire ingiustamente o per rubare, ciò dipenda da Dio.

Spetta a noi, al contrario, dirigere verso il bene oppure verso il male quella facoltà di movimento di cui è stato Dio a provvederci.

In conclusione, è questo quanto intende affermare l'Apostolo: noi abbiamo sì ricevuto in dono la facoltà di esercitare la nostra volontà, ma dipende, tuttavia, dalla nostra esclusiva responsabilità se ce ne serviamo per assecondare le buone disposizioni ovvero per lasciarci trascinare dalle inclinazioni perverse.

Origene, I principi, 3, 1,18-19

16. - Origine e modo di operare della grazia

Il saggio, dopo aver ricevuto da Dio la facoltà di giovare al prossimo, aiuta gli altri ora accattivandoseli con buone maniere, ora esortandoli con il proprio esempio, ora ammonendoli e impartendo loro un verace insegnamento.

E in quest'opera egli, a sua volta, viene allo stesso modo aiutato dal Signore.

Si rivelano così i benefici che provengono da Dio agli uomini, soccorsi altresì dall'opera degli angeli stessi.

La potenza divina, infatti, compie il bene anche attraverso gli angeli, sia che questi si manifestino, come in occasione della venuta del Signore, sia che rimangano celati, come allorché una forza misteriosa si libra attraverso i pensieri e le riflessioni degli uomini, ispirando maggior vigore e acutezza alle menti e fornendo all'animo, nella speculazione come nella condotta pratica, energia e vitalità.

Altri mirabili e santi modelli di virtù sono altresì proposti alla nostra imitazione ed emulazione attraverso ciò che è stato scritto.

Un esempio evidentissimo l'abbiamo nei Testamenti del Signore o nelle leggi in vigore presso i greci o ancora negli insegnamenti stessi della filosofia.

Ogni beneficio, insomma, che risulti di qualche utilità per la vita proviene, in conformità ad un supremo disegno, dall'onnipotente Iddio.

Mostrandosi attraverso il Figlio, che perciò, come dice l'Apostolo, è Salvatore di tutti, ma specialmente dei fedeli ( 1 Tm 4,10 ), tutti egli assiste in quanto Padre.

Attraverso i comandi e gli insegnamenti di colui che si trova presso la causa prima, cioè il Signore, l'opera di Dio produce i suoi effetti nel più intimo di ciascuno di noi.

Clemente Alessandrino, Stromata, 6,161

17. - La beatitudine non è dovuta al libero arbitrio, ma solo alla grazia di Dio

Quella parte del genere umano cui Dio ha promesso la salvezza e il possesso del regno eterno, può essere restaurata per i meriti delle proprie opere? No certo.

Come infatti chi si uccide, si uccide certo vivendo, ma uccidendosi non vive, né potrà più risuscitare se stesso quando si sia ucciso, così se si pecca con libero arbitrio, per la vittoria del peccato si è perso il libero arbitrio.

Colui che viene vinto da qualcuno è suo servo e prigioniero ( 2 Pt 2,19 ).

Queste sono certamente parole dell'apostolo Pietro; sono vere; perciò, ti prego, quale può essere la libertà di un servo e di un prigioniero se non che peccare lo diletta?

Volentieri è schiavo colui che volentieri compie la volontà del suo padrone.

Dunque, chi è schiavo del peccato, è libero solamente di peccare.

Perciò non è libero di operare la giustizia a meno che, liberatosi dal peccato, non cominci ad essere schiavo della giustizia.

É questa la vera libertà, perché induce la gioia di bene operare, ed è insieme schiavitù religiosa, perché obbedisce ai precetti.

Ma come può giungere all'uomo, prigioniero e venduto, questa libertà di bene operare, se non lo redime colui, la cui voce così suona: Se il Figlio vi libererà, allora sarete veramente liberi ( Gv 8,36 )?

Ma prima che ciò nell'uomo avvenga, come è possibile che qualcuno si glori, nelle buone opere, del suo libero arbitrio, se non è ancora libero per operare il bene, ma solo di esaltarsi, gonfio di superbia?

Ed ecco come lo rimprovera l'Apostolo: Siete stati salvati dalla grazia, per la fede ( Ef 2,8 ) …

Nessuno dunque, anche se non si gloria delle sue opere, si glori dello stesso libero arbitrio, come se fosse la fonte del merito a cui si rende il premio dovuto: la libertà di operare bene; ascolti lo stesso araldo della grazia che dice: «' Dio infatti che opera in voi il volere e l'operare, per il suo beneplacito ( Fil 2,13 ); e in un altro luogo: Non è dunque di chi vuole né di chi corre, ma di Dio che usa misericordia ( Rm 9,16 ).

Come non vi è dubbio che l'uomo, raggiunto l'uso di ragione, non può credere, sperare e amare senza volere, così non può giungere alla palma della superna chiamata di Dio se non vi concorre con la sua volontà.

E perché dunque « Non è di chi vuole né di chi corre, ma di Dio che usa misericordia » se non perché la stessa volontà, come dice la Scrittura, viene preparata dal Signore ( Pr 8,35 )?

Perciò l'unico modo retto per intendere il passo « Non è di chi vuole né di chi corre, ma di Dio, che usa misericordia » è di attribuire tutto a Dio, che prepara nell'uomo la buona volontà, per poi aiutarla, e l'aiuta quando l'ha preparata.

La buona volontà dell'uomo antecede molti doni di Dio, ma non tutti; e tra quelli che essa non precede, vi è essa stessa.

L'uno e l'altro infatti si legge nei sacri eloqui: La sua misericordia mi preverrà ( Sal 59,11 ), e insieme: La sua misericordia mi seguirà ( Sal 23,6 ).

Previene chi non vuole, perché così voglia; segue chi vuole, perché così non voglia inutilmente.

Agostino, Manualetto, 9,30-32

18. - Trasformazione e santificazione operata dalla grazia

Quando giacevo nelle tenebre di una notte cieca, quando venivo sballottato nel mare burrascoso del mondo, vagando incerto e vacillante sui miei passi, senza conoscere la mia vita, lontano dalla verità e dalla luce, credevo che fosse davvero difficile e duro, in quella mia situazione, ciò che la divina bontà mi prometteva a mia salvezza: che si possa cioè rinascere, essere animati da una nuova vita per mezzo del lavacro nell'acqua di salvezza, e che l'uomo, riposta la sua vecchia essenza, si muti nell'animo e nella mente, pur nel permanere della sua struttura corporea.

Come è possibile, mi dicevo, una tale trasformazione?

Che all'improvviso e con violenza ci si spogli di ciò che in noi è congenito, saldo per predisposizione naturale, oppure è in noi incallito, rassodato da un'abitudine inveterata?

Tali disposizioni sono incrollabili, perché hanno una radice profonda e vigorosa.

Quando imparerà ad esser sobrio chi è abituato a cene splendide, a ricchi banchetti?

E chi si è vestito di abiti preziosi, si è sempre messo in mostra nello splendore dell'oro e della porpora, quando si abbasserà all'abbigliamento semplice, popolare?

Chi si è allietato per i fasci, simbolo del potere, e per gli onori, non sopporta certo di esserne privato, di vivere nell'oscurità.

Chi è sempre circondato dalle schiere dei clienti, corteggiato da una truppa di adulatori che lo accompagnano, considera come un tormento essere solo.

Per la tenacia delle passioni, sempre, come al solito, sarà necessariamente travolto dall'ubriachezza, gonfiato dalla superbia, infiammato d'ira, agitato dall'ingordigia, stimolato dalla crudeltà, adescato dall'ambizione, travolto dalla libidine.

Ciò ripetevo continuamente tra me e me.

Infatti io stesso mi trovavo inviluppato tra i molti errori della vita anteriore, e non credevo di potermene spogliare; perciò assecondavo i miei vizi radicati e, disperando di ogni miglioramento, mi adagiavo nei miei mali, quasi fossero intimi e familiari.

Ma dopo che, tolta con l'aiuto dell'acqua di rigenerazione la corruzione della vita passata, si riversò dall'alto la luce nel mio cuore purificato e mondo, dopo che, sorbito lo spirito celeste, la seconda nascita fece di me un uomo nuovo, all'improvviso, meravigliosamente, i dubbi sparirono, si spalancarono le porte chiuse, splendettero le tenebre, fu in mio potere ciò che prima sembrava difficile, potei compiere quello che si riteneva impossibile: fu necessario perciò riconoscere come fosse terreno l'uomo di prima, nato dalla carne e schiavo dei vizi, e come fosse invece ormai di Dio quello che lo Spirito Santo animava.

Sai bene anche tu, e lo ammetti con me, ciò che questa morte del peccato, ciò che questa vita di virtù ci hanno rispettivamente tolto e donato.

Lo sai tu e non insisto. É odiosa la lode di sé, la millanteria; per quanto non possa essere millanteria, ma gratitudine, ciò che non si ascrive alla virtù dell'uomo ma si attribuisce al dono di Dio: se si ammette quale effetto della fede il non peccare, e quale effetto dell'errore umano il peccato.

Cipriano di Cartagine, A Donato, 3-4

19. - Legge, volontà, grazia

Noi preghiamo perché ci sia possibile superare le tentazioni, perché lo Spirito di Dio, di cui abbiamo ricevuto il pegno, aiuti la nostra debolezza ( Rm 8,26 ).

Ma chi pregando dice: « Non indurci in tentazione », non impetra ciò per essere uomo, poiché lo è per natura; e neppure per avere il libero arbitrio, poiché lo ricevette quando venne creata la sua stessa natura.

E neppure supplica la remissione dei peccati, perché proprio prima si dice: « Rimetti a noi i nostri debiti »; e neppure prega di ottenere il comandamento, ma prega bensì di adempiere il comandamento.

Se infatti sarà indotto in tentazione, cioè verrà meno nella tentazione, commetterà il peccato che è contro il comandamento.

Prega dunque di non peccare, cioè di non commettere male alcuno, proprio come l'apostolo Paolo prega per i Corinti dicendo: Noi preghiamo il Signore affinché non facciate male alcuno ( 2 Cor 13,7 ).

Da ciò appare sufficientemente chiaro, per quanto non si dubiti circa l'esistenza dell'arbitrio della volontà, che il suo potere non è tuttavia sufficiente per non peccare, cioè per non commettere il male, a meno che la sua debolezza non venga aiutata.

La stessa preghiera, dunque, è un'attestazione chiarissima della grazia: questa professa colui che prega, e noi ci allieteremo per la sua rettitudine già presente o acquistata.

Si deve distinguere tra legge e grazia.

La legge sa comandare, la grazia aiutare.

La legge poi non comanderebbe se non vi fosse la volontà e neppure la grazia aiuterebbe se la volontà fosse sufficiente.

Ci si comanda di avere intelletto là dove ci viene detto: Non siate come il cavallo e il mulo che non hanno intelletto ( Sal 32,9 ); e noi tuttavia preghiamo di avere intelletto là dove si dice: Dammi intelletto per comprendere i tuoi comandamenti ( Sal 119,125 ).

Ci si comanda di aver saggezza ove si dice: Stolti! Siate finalmente saggi! ( Sal 94,8 ), e tuttavia noi preghiamo di aver la saggezza dove si dice: Ma se qualcuno di voi ha bisogno di saggezza, la domandi a Dio, che dona a tutti con abbondanza e non rimprovera, e gli sarà elargita ( Gc 1,5 ).

Ci si comanda di essere continenti ove si dice: Siano cinti i vostri lombi ( Lc 12,35 ), eppure noi preghiamo di essere continenti dove si dice: Sapendo che nessuno può essere continente se Dio non glielo concede - e anche ciò è saggio: sapere di chi è dono - mi presentai al Signore e lo supplicai ( Sap 8,21 ).

Insomma, per non dilungarci troppo esaminando tutti i passi, ci si comanda di non fare il male, ove si dice: Allontanati dal male! ( Sal 37,27 ), e tuttavia noi preghiamo di non commettere il male, dove si dice: Noi preghiamo il Signore affinché non facciate male alcuno ( 2 Cor 13,7 ).

Ci si comanda di fare il bene, dove si dice: Allontanati dal male e fa' il bene! ( Sal 37,27 ); e tuttavia anche noi preghiamo di fare il bene, dove si dice: Non cessiamo di pregare e supplicare per voi ( Col 1,9 ).

E fra tutte le altre cose che per loro prega, Paolo chiede: Perché camminiate degnamente davanti a Dio nel suo pieno beneplacito, in ogni opera e in ogni discorso buono ( Col 1,10 ).

Come noi dunque per questi comandamenti riconosciamo l'esistenza della volontà, così egli, per queste preghiere, riconosca l'esistenza della grazia.

Agostino, Le Lettere, II, 177,4-5 ( a papa Innocenzo I )

EMP F-33. - Risurrezione dell'uomo

Tra tutti i miracoli compiuti da nostro Signore Gesù Cristo, la risurrezione di Lazzaro è particolarmente impressionante.

Ma se consideriamo colui che l'ha compiuta, la nostra gioia deve superare lo stupore.

Colui che ha risuscitato questo uomo, ha anche creato l'uomo, perché è il Figlio unico del Padre e, come sapete, tutto è stato fatto per mezzo di lui ( Gv 1,3 ).

Se dunque tutto è stato fatto per mezzo di lui, non stupisce che un uomo sia risuscitato da lui, mentre ogni giorno tanti altri ricevono da lui la vita.

Vale più creare l'uomo che risuscitarlo.

Egli si è degnato di creare e di risuscitare, di creare tutti gli uomini e di risuscitarne alcuni.

Gesù ha compiuto numerosi miracoli, ma non tutti sono stati scritti.

Come testimonia lo stesso evangelista Giovanni, Cristo ha fatto innumerevoli cose che non sono state scritte ( Gv 20,30 ).

Sono state scelte per essere raccontate quelle che bastavano alla salvezza dei credenti.

Tu hai udito che il Signore Gesù ha risuscitato un morto; questo ti basta per comprendere che, se volesse, potrebbe risuscitare tutti i morti.

É proprio quello che accadrà alla fine del mondo.

Avete udito che Gesù fece uscire dalla tomba uno, morto da quattro giorni, con un grande miracolo, ma è venuto il momento, come ha detto egli stesso, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l'avranno ascoltata, vivranno ( Gv 5,25 ).

Ha risuscitato un corpo in decomposizione, ma questo corpo aveva conservato la sua forma e le sue membra; nell'ultimo giorno, con una parola renderà la vita alle nostre ceneri.

Era necessario che durante la sua vita terrena Cristo compisse delle azioni capaci di indicarci la sua potenza, perché credessimo e ci preparassimo a quella risurrezione che sarà per la vita e non per la condanna.

Perché verrà l'ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male, per una risurrezione di condanna ( Gv 5,28-29 ) …

Le opere del Signore non sono soltanto dei fatti, ma anche dei segni.

Così, oltre ad essere mirabili, significano certamente qualcosa.

É più fruttuoso trovare il loro significato, che leggerne semplicemente la narrazione.

Abbiamo ascoltato con ammirazione il racconto evangelico della risurrezione di Lazzaro, come se contemplassimo con i nostri occhi questo grande miracolo.

Ma consideriamo le opere ancor più mirabili di Cristo: ogni uomo che crede è un risorto; e se siamo attenti comprenderemo che ci sono delle morti più terribili di quella di Lazzaro: ogni uomo che pecca muore.

Tutti temono la morte del corpo, ma pochi quella dell'anima.

Per sfuggire l'inevitabile morte fisica, compiono ogni sforzo: è il senso stesso delle loro imprese.

L'uomo mortale si sforza di non morire, e l'uomo destinato a vivere eternamente non dovrebbe sforzarsi di non peccare? …

Noi [ cristiani ], siamo criticati da coloro che si attaccano a questa vita terrena, che però non possono possedere quando vogliono e così a lungo come vorrebbero.

E non dovremmo noi ancor più biasimarci per la nostra tiepidezza e pigrizia nel cercare la vita eterna, che possederemo se la vorremo, senza pericolo di perderla?

Questa morte che ci fa paura, verrà in ogni caso, anche se non la vogliamo.

Se dunque il Signore, con la sua grazia e la sua grande misericordia, risuscita le nostre anime per evitarci la morte eterna, dobbiamo riconoscere nei morti, di cui ha risuscitato i corpi, il segno e la figura della risurrezione delle anime che si compie nella fede.

Agostino, Commento al vangelo di san Giovanni 49,1-3

20. - Il tempo della grazia

Questo mondo è tempo di grazia: si può fare penitenza fino a quando esso non giungerà al termine.

Arriverà allora il tempo in cui la grazia cesserà e subentrerà la giustizia; in quel tempo non si potrà più fare penitenza.

Al presente la giustizia quasi riposa, perché la grazia irradia nel suo splendore più vivo.

Ma quando sarà giunto il tempo della giustizia i penitenti non otterranno più grazia, perché le sarà posto qual termine la fine del mondo o la morte.

Dopo di allora non vi sarà più penitenza.

Leggi e ascolta questo: intendi e comprendi che ogni uomo ha di essa più o meno bisogno.

Molti corrono nell'arena, ma solo il vincitore ne riporta la corona e ciascuno avrà la ricompensa corrispondente al suo lavoro.

Afraate Siro, La penitenza

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