Teologia dei Padri

Indice

La proprietà di Dio

1. - La grazia di Dio: un tesoro affidato in custodia

Supponiamo che un re affidasse a un povero la custodia del proprio tesoro.

Questi, dopo essersi assunto questa responsabilità, non riterrebbe certo quel tesoro come proprio, ma, al contrario, continuerebbe a riconoscere apertamente la propria povertà, senza azzardarsi a spendere del capitale altrui.

Quel povero, infatti, sarebbe in ogni istante consapevole del fatto che, non soltanto il tesoro appartiene a un'altra persona, ma anche che quel sovrano così potente, dopo averglielo affidato, potrebbe, quando lo ritenesse opportuno, richiederglielo.

Ebbene, non diversamente debbono ritenere coloro i quali abbiano conseguito la grazia divina: non si inorgogliscano e confessino la loro povertà!

Allo stesso modo come, infatti, qualora il povero che ha ricevuto in deposito un tesoro da un re lo considerasse come di sua proprietà e il suo cuore se ne insuperbisse, il re gli toglierebbe il proprio tesoro e quello, dopo averlo tenuto in custodia, tornerebbe come prima, cioè povero; similmente accade per coloro i quali, dopo aver ottenuto la grazia, si inorgogliscono e coltivano la superbia nel loro cuore.

Il Signore, infatti, non esita a privare costoro della propria grazia perché tornino ad esser tali, quali erano sino al momento di conseguire la grazia da parte del Signore.

Pseudo Macario, Omelie spirituali, 15,27

2. - L'uomo debitore di Dio

Dio non è debitore di nessuno, perché dona tutto gratis.

Se qualcuno però dicesse che in qualcosa gli è debitore per i suoi meriti, è certo che nulla gli doveva quando gli donò l'essere: il creditore non esisteva ancora!

Inoltre, che merito è convertirsi a lui, per il quale tu esisti, sì da essere migliore per colui, da cui hai l'esistenza?

Perché dunque ti rivolgi a lui come se richiedessi qualcosa che ti è dovuto?

Se non volessi convertirti a lui, a lui nulla mancherebbe, a te invece mancherebbe lui; e senza di lui tu nulla saresti, e per lui tu sei qualcuno, tanto che, se non convertendoti a lui non gli rendi l'essere che da lui hai, non finisci nel nulla; tuttavia sei ben misero!

Agostino, Il libero arbitrio, 3,45

3. - Vasaio e argilla

Il vasaio non è forse padrone dell'argilla e non ha il diritto di fare della stessa massa un vaso di onore e un altro per usi vili? ( Rm 9,21 ).

Con queste parole, Paolo non intende negare la libertà dell'arbitrio umano, quanto, piuttosto, dimostrare fino a che punto occorra conformarsi alle disposizioni di Dio …

L'Apostolo, pertanto, non vuole far altro che persuadere l'ascoltatore ad affidarsi completamente a Dio, senza mai domandargli ragione delle sue disposizioni.

Come il vasaio - intende dire Paolo - plasma, da un'unica massa, tutto ciò che vuole, senza che nessuno possa impedirglielo, così tu non manifesterai curiosità e non chiederai conto allorché Dio, di un'unica stirpe di uomini, alcuni ne punisce, altri ne premia.

Tu, invece, dovrai soltanto adorare ed esser simile all'argilla.

E come la mano del vasaio sempre gli obbedisce, così pure dovrai fare con la volontà di colui che stabilisce come debbano andare le cose.

Non aver timore, infatti, che le cose avvengano senza motivo, benché tu ignori il mistero della divina sapienza.

Tu, d'altronde, permetti che il vasaio componga, dalla stessa massa, oggetti diversi, e non lo accusi certo per questo.

A Dio, invece, chiedi ragione dei castighi e dei premi.

Non accetti che egli sappia chi sia degno o indegno e, dal momento che l'intera massa è costituita della medesima sostanza, pretendi che debba subire il medesimo destino.

Ma non ti accorgi che follia è questa?

Eppure, anche per quanto concerne il vasaio, la nobiltà o la viltà degli oggetti non dipendono dalla materia di cui sono fatti, ma dall'uso che ne fanno coloro che se ne servono.

Anche per gli uomini, quindi, tutto dipende dall'uso che si fa della libera volontà.

Giovanni Crisostomo, Commento alla lettera ai Romani, 16,8

4. - Tutto appartiene a Dio

Non appropriarti di ciò che appartiene al Signore, ma donalo al prossimo.

Non vantartene, come se fosse roba tua, e non mostrarti avaro nel distribuirlo agli altri.

Anche se hai dei figli, essi appartengono a Dio.

Se ti persuadi di questo, renderai grazie finché li avrai con te; se, poi, ti verranno tolti, non te ne dispererai.

Questo intendeva Giobbe, nel dire: Il Signore ha dato, il Signore ha tolto ( Gb 1,21 ).

Tutto ciò che abbiamo, infatti, ci proviene dal Cristo; persino ciò che siamo, anzi lo dobbiamo a lui, insieme alla vita, al respiro, alla luce, all'aria, alla terra.

Se uno di questi beni, poi, ci viene a mancare, non ci rimane, allora, che di morire: siamo, infatti, degli stranieri e dei pellegrini.

Parlare di « mio » e di « tuo » significa soltanto pronunciare parole senza senso.

Se sostieni, infatti, che la casa è tua, si tratta di un'affermazione priva di significato, giacché anche l'aria e la terra e la materia appartengono al Creatore, come anche tu stesso, che hai costruito questa casa, e qualsiasi altra cosa.

Se affermi, allora, che almeno il suo uso può dirsi che t'appartenga, ti rispondo che anch'esso è incerto, non soltanto nell'eventualità della morte, ma, anche prima di quel momento, a causa dell'instabilità degli eventi.

Persuadendoci, dunque, intimamente di questi concetti, perverremo a una giusta visione della realtà e otterremo due risultati preziosissimi: nutriremo, infatti, riconoscenza finché avremo qualcosa e fino al momento in cui non ci sarà tolta; d'altronde, però, non diverremo più schiavi delle cose che fuggono via e che non ci appartengono.

Se Dio ti ha portato via del denaro, s'è ripreso ciò che era suo; similmente se si sia trattato dell'onore o della gloria o del corpo o dell'anima stessa.

Se t'ha portato via tuo figlio, non è tuo figlio che Dio s'è preso, ma il servo suo.

Non sei stato tu a crearlo, infatti, ma lui; tu sei stato unicamente lo strumento della sua venuta, ma il suo vero autore è stato Dio.

Manifestiamo, perciò, la nostra riconoscenza per esser stati stimati degni di divenire strumenti dell'opera del Signore.

Volevi, forse, avere tuo figlio per sempre presso di te?

Sei, allora, un ingrato e non ti rendi conto ch'egli apparteneva a un altro e non a te …

Tutto, infatti, appartiene a Dio.

Quando il Signore si riprende indietro qualcosa, perciò, non falsifichiamo i conti, come dei servitori disonesti, e non accampiamo diritti su ciò che è di sua proprietà.

Ma, se neppure la tua anima è davvero tua, come potrà esserlo il tuo denaro?

Perché, allora, scialacqui inutilmente beni che non sono tuoi?

Non sai che saremo accusati del fatto di averli male amministrati?

Ciò che non appartiene a noi, ma al Signore, infatti, dobbiamo elargirlo al prossimo.

Al ricco che non abbia agito a questo modo, perciò, sarà chiesta ragione del suo comportamento e, parimenti, anche a coloro che si siano rifiutati di dar da mangiare al Signore.

Non dire, allora: « Sperpero i miei beni, me li godo », giacché non sono certo tuoi, ma appartengono agli altri.

E dico « agli altri », poiché sei tu a volerlo: Dio, infatti, comanda che siano stimate davvero come tue quelle cose che ti sono state affidate a vantaggio dei fratelli.

I beni altrui, perciò, allora diverranno di tua proprietà, quando li distribuirai al prossimo.

Se tu, viceversa, li scialacquerai senza posa unicamente a tuo beneficio, ecco che, allora, essi diventeranno proprietà degli altri.

Dal momento che, infatti, ti sei servito di questi in modo egoistico e continui a giustificarti col dire: « É giusto che le mie ricchezze siano spese a mio esclusivo uso e consumo »; ebbene, io ti replico allora che queste ricchezze non sono tue, ma appartengono agli altri.

Esse, infatti, rappresentano una proprietà collettiva e il loro godimento spetta anche al tuo simile, così come beni collettivi sono il sole e l'aria e la terra e, insomma, tutto.

Con l'uso dei beni accade come con il corpo: ciascun membro può assolvere la propria funzione soltanto se si trova unito a tutto il corpo; una volta che un singolo organo se ne sia separato, esso rimane privo della propria facoltà.

Per spiegarmi con maggior chiarezza, se l'alimento corporeo destinato a tutti quanti gli organi venisse somministrato, invece, ad uno soltanto di essi, risulterebbe inutile a quest'ultimo; non potendo, infatti, né esser digerito né, pertanto, fungere da nutrimento, non produrrebbe alcun effetto.

Allorché, invece, viene alimentato l'organismo nel suo insieme, ne trae vantaggio tanto quel singolo organo quanto tutti gli altri membri.

Ebbene, non diversamente avviene per quanto concerne le ricchezze: se pretendi di goderne da solo le hai già perdute giacché non riceverai ricompensa alcuna; se, invece, ne condividerai con gli altri il possesso, allora saranno ancor più tue e ti procureranno un autentico guadagno.

Non vedi che le mani prendono il cibo, la bocca lo mastica e lo stomaco lo riceve?

Ora, lo stomaco dice forse: « Dal momento che il cibo l'ho ricevuto io, debbo tenermelo tutto »?

Non parlare, perciò, neppure tu a questo modo, per quanto riguarda la proprietà dei beni: il compito di colui che riceve, infatti, è quello di distribuire agli altri.

Allo stesso modo come, dunque, lo stomaco è ammalato quando trattiene gli alimenti senza espellerli, danneggiando tutto l'organismo; così pure è la malattia dei ricchi quella di tenere per sé ciò che posseggono: il loro comportamento, infatti, è fonte di danno per loro stessi e per gli altri.

L'occhio riceve la totalità della luce, senza tuttavia trattenerla esclusivamente per sé, ma illuminando, al contrario, tutto quanto il corpo.

Non è sua facoltà, infatti, in quanto occhio, serbare unicamente per sé tutta la luce.

Il naso, da parte sua, benché percepisca i profumi, lungi dal trattenerli interamente per sé, li invia sino al cervello, e allo stomaco, ricreando tutto l'uomo.

I piedi, poi, camminano sì da soli, tuttavia non per portare in giro soltanto se stessi, bensì acciocché tutto il corpo si muova.

Anche tu, dunque, astieniti dal trattenere solo per te quanto ti è stato concesso, giacché, così facendo, danneggeresti tutti e, soprattutto, te stesso.

Non soltanto dagli organi del corpo, peraltro, potresti trarre esempio.

Anche il fabbro ferraio, infatti, qualora pretendesse di trarre beneficio egli soltanto dal proprio mestiere, procurerebbe nocumento a se stesso e alle altre attività.

Lo stesso discorso vale per il calzolaio, il contadino, il mugnaio, per tutti coloro, insomma, che esercitano un mestiere utile alla collettività: se costoro, infatti, volessero escludere chiunque altro dal godimento dei benefici del loro lavoro per fruirne essi soli, produrrebbero la rovina non soltanto degli altri, ma, insieme con quella altrui, anche la propria.

E che dire a riguardo dei ricchi?

Anche i poveri, infatti, se imitassero la vostra iniquità di avari e di accumulatori di ricchezze, potrebbero danneggiarvi in maniera considerevole e ridurre anche voi, nel giro di breve tempo, alla miseria, mandandovi, anzi, addirittura in rovina, se rifiutassero di prestarvi la loro opera in caso di necessità: sarebbe il caso, ad esempio, del contadino che negasse il prodotto della sua fatica, o del marinaio che non fornisse più la merce durante i suoi viaggi, o del soldato che, in caso di guerra, si rifiutasse di combattere.

Se non per altro, dunque, almeno per lo stimolo della vergogna, cercate di prendere esempio dall'animo benevolo di costoro.

Non condividi le tue ricchezze con nessuno?

Sappi, allora, che non riceverai neppure nulla da nessuno: se così sarà, poi, la tua condizione subirà un totale capovolgimento.

In ogni cosa, infatti, il dare e il ricevere è fonte di molti effetti positivi: nella semina, nella scuola, nei mestieri.

Se uno nutrisse la pretesa di praticare un'attività soltanto a proprio beneficio, manderebbe in malora sia se stesso che il mondo intero.

Se il contadino si tenesse in casa la propria semenza, provocherebbe una grave carestia.

Così anche il ricco, se si comportasse a questo modo con il proprio denaro, danneggerebbe se stesso prima ancora che i poveri facendo incombere sul proprio capo la fiamma ben più terribile della geenna.

Allo stesso modo come i maestri, dunque, pur avendo parecchi discepoli, impartiscono a ciascuno di essi il proprio insegnamento, non diversamente anche tu, grazie alle tue buone opere, potrai soccorrere molte persone.

Tutti, così, diranno: « Ha liberato costui dalla povertà, quell'altro dal pericolo »; e anche: « Sarebbe morto, se non fosse stato salvato, per grazia di Dio, dal tuo intervento »; o ancora: « Hai sottratto uno alla malattia, un altro alla calunnia; uno l'hai ospitato, un altro, che era nudo, l'hai vestito ».

Parole come queste sono più preziose di ricchezze e tesori senza numero: attraggono chiunque più degli abiti ricoperti d'oro, dei cavalli e dei servi.

Queste cose, infatti, ti pongono in cattiva luce, facendoti considerare come un qualsiasi nemico; le altre, invece, rendono manifesto il padre comune e benefico, dimostrando ( ed è ciò che maggiormente conta ) come le benevolenza di Dio presieda ognora alle tue opere.

Uno, perciò, dirà: « Ha fatto sposare mia figlia con la dote »; un altro: « Ha salvato mio figlio, restituendolo agli uomini »; un altro ancora: « Ha risolto il mio problema »; oppure: « Mi ha strappato al pericolo ».

Parole del genere sono preferibili a corone d'oro: è come avere, infatti, mille araldi che annunciano per tutte la città le tue opere buone.

Queste voci sono assai più dolci e soavi dei proclami dei banditori che precedono le autorità, giacché esse ti chiamano con i nomi stessi di Dio: salvatore, benefattore, protettore; invece di: avaro, prepotente, insaziabile, meschino.

Non aspiriamo, perciò, a nessuno di questi titoli, bensì e quelli diametralmente opposti.

Se queste parole pronunciate sulla terra, infatti, ti rendono così glorioso e illustre, allorché Dio, un giorno, pronuncerà le parole scritte nei cieli, pensa di quanta gloria e splendore godrai!

Auguriamoci che, in virtù delle grazia e della bontà del Signore nostro Gesù Cristo, sia consentito a tutti noi di goderne.

Giovanni Crisostomo, Omelie sulla prima lettera ai Corinti, 10, 4,3,4

5. - Chiedere conto a Dio?

Noi mangiamo ogni giorno il pane.

Come può, dunque, accadere che la qualità stessa di questo alimento si trasformi in sangue, in saliva, in bile e in tutti gli altri umori?

Il pane, infatti, è solido e compatto, mentre il sangue, invece, è liquido; il pane, inoltre, è bianco oppure assume il medesimo colore del frumento, mentre il sangue, viceversa, è rosso e nero.

Se uno, insomma, volesse passare in rassegna, una per una, tutte le differenze che intercorrono fra le altre rispettive qualità, riscontrerebbe una grande diversità fra il pane e il sangue.

Vorrei, a questo punto, che tu mi spiegassi dettagliatamente come tutto ciò possa accadere.

Ma non riusciresti mai a farlo.

Se, allora, non sei in grado di render ragione del modo con il quale si trasforma ogni giorno il cibo che mangi, come potrai chieder conto a me della creazione che Dio ha compiuto?

Non sarà questa, forse, una dimostrazione di estrema follia?

Se Dio fosse simile a noi, allora sì che potresti domandar conto delle sue opere!

Anzi, neanche in questo caso dovrebbe esserti concesso, dal momento che neppure di tanti fenomeni terreni, che avvengono sotto i nostri occhi, siamo in grado di dir nulla: del modo come, ad esempio, possa venir fuori l'oro dai metalli che la terra racchiude, ovvero come avvenga che la sabbia si trasformi in limpidissimo vetro; a più forte ragione, poi, si potrebbe citare, a tal proposito, tutte le opere prodotte artificialmente dall'uomo, delle quali ignoriamo il modo con cui siano state realizzate.

Se, nondimeno, Dio fosse davvero simile a noi, ti sarebbe lecito chiedermene conto.

Dal momento che, però, egli è infinitamente distante da noi e si sottrae a qualsiasi definizione, non è allora assurdo che quanti stimano immensa, divina e incomprensibile la sua sapienza e la sua potenza, vengano poi a chieder ragione, come per le cose umane, riguardo a ciascuna delle sue opere?

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 1

Indice