Teologia dei Padri

Indice

Il lavoro

1. - Il lavoro umano deve fare affidamento sull'assistenza di Dio

Dio disse: La terra germogli erba verde che faccia seme secondo la sua specie e alberi fruttiferi che facciano frutto e che contengano seme, secondo la loro specie, sulla terra.

E così fu ( Gen 1,11 ).

Che significa: E così fu? Al comando del Padrone, subito la terra maturò i propri parti e si adornò di germogli fecondi.

E la terra produsse erba verde, che sparge il seme secondo la sua specie, e alberi fruttiferi che portano frutto in cui c'è il seme secondo la loro specie, sulla terra ( Gen 1,12 ).

Da qui vedi, carissimo, come tutto ha avuto origine dalla parola del Padrone, sulla terra.

Non vi era infatti l'uomo che la lavorasse, non vi era aratro, non vi era l'opera dei buoi e nessun altro tipo di coltivazione: la terra solamente udì il comando e subito mostrò i propri frutti.

Da ciò impariamo che anche ora non è l'opera degli agricoltori né la loro fatica né ogni altra tribolazione richiesta dalla coltura dei campi, che ci dona i frutti della terra, ma prima di tutto è la parola di Dio che all'inizio fu rivolta alla terra.

Anzi, già in anticipo la divina Scrittura ha voluto correggere l'ingratitudine degli uomini, esponendo tutto con precisione secondo l'ordine degli eventi; intendendo così rintuzzare la stolta temerità di coloro che vanno buccinando le loro riflessioni ciarlatanesche, sostenendo che è sufficiente la collaborazione del sole perché la terra produca frutti.

Ve ne sono poi alcuni che osano ascriverli addirittura a particolari stelle.

Per questo lo Spirito Santo ci insegna che prima ancor della formazione di questi esseri la terra, udita la sua parola, il suo comando, produsse ogni seme senza bisogno dell'aiuto di nessun altro.

Le bastò solamente la parola: « La terra germini erba verde ».

Seguiamo dunque la Scrittura divina e non sopportiamo coloro che con tanta leggerezza dicono ciò che le si oppone.

Anche se gli uomini coltivano la terra, anche se vi impegnano l'opera degli animali privi di ragione e vi si applicano con ogni cura, anche se le condizioni climatiche sono le migliori e tutto vi concorre favorevolmente, senza il cenno del Padrone tutto è inutile e vano; a nulla gioverà ogni lavoro e ogni fatica se lui non stende dall'alto la sua mano, elargendo il compimento di tutto.

Giovanni Crisostomo, Omelie sul Genesi, 5

2. - Lavoro e preoccupazione

Gesù Cristo non ci ha invitati a considerare il volo degli uccelli, né ci ha proposto di imitarli nel volo, perché è impossibile agli uomini.

Ci ha mostrato invece come essi si nutrono senza preoccupazione alcuna, cosa che anche noi possiamo fare, se lo vogliamo.

L'esempio dei santi, che hanno confermato questo precetto con le opere, ne è una prova.

Ebbene, è ammirevole la saggezza del legislatore divino che, pur potendo proporre l'esempio di tanti eccellenti uomini, come Mosè, Elia, Giovanni Battista e tanti altri, che non si sono minimamente affannati per procurarsi il cibo, preferisce ricordare l'esempio degli uccelli, allo scopo di toccare in modo più forte ed efficace i suoi ascoltatori.

Se avesse parlato di quei giusti, essi avrebbero ben potuto rispondere di non aver ancora raggiunto la loro virtù.

Ma tacendo di questi e proponendo invece l'esempio degli uccelli, essi non possono addurre nessuna scusa.

Anche in questo punto, egli segue la traccia della legge antica.

Il Vecchio Testamento, infatti, suggerisce agli uomini l'esempio dell'ape, della formica, della tortora e della rondine.

E non è del resto un mediocre motivo di gloria per l'uomo poter acquisire con la libera scelta della volontà ciò che questi animali compiono, spinti dall'istinto naturale.

Se Dio, dunque, si prende tanta cura per questi animali che egli ha creati per noi, quanto più se ne prenderà per noi stessi?

Se veglia sui servi, quanto più veglierà sul padrone?

Ecco perché, dopo averci invitati a osservare gli uccelli dell'aria, non aggiunge che essi non si occupano di traffici e di altri commerci che sono riprovati; dice che essi non seminano né mietono ( Mt 6,26 ).

Ma come? - voi mi direte - non si dovrà dunque più seminare?

Cristo non proibisce di seminare, ma dice - ripeto - che non dobbiamo affannarci anche per quanto ci è necessario; non ci vieta di lavorare, ma non vuole che siamo senza fiducia e che ci maceriamo nell'inquietudine e nelle preoccupazioni.

Ci comanda infatti di nutrirci, ma non vuole che tale pensiero ci tormenti e crei difficoltà allo spirito.

Già molto tempo prima, Davide aveva sottolineato questa verità, anche se un po' enigmaticamente, affermando: Tu apri la mano e colmi di favore ogni vivente ( Sal 145,16 ); e altrove: Colui che dà il loro cibo alle bestie, e ai piccoli corvi ciò che domandano ( Sal 147,9 ).

Ma quale uomo è mai esistito - voi mi direte - che sia stato esente da queste preoccupazioni?

Ebbene, vi rispondo: non vi ricordate di tutti quei giusti che vi ho nominato poco fa?

Non vi ricordate, insieme a loro, anche di Giacobbe, il patriarca, che uscì nudo dal suo paese e disse: Se il Signore mi dà pane per mangiare e abiti per coprirmi …  ( Gen 28,20 )?

E con queste parole egli mostrava chiaramente di non essere preoccupato, ma che chiedeva e si aspettava tutto da Dio.

Nello stesso modo si comportarono con fermezza gli apostoli, che abbandonarono ogni loro bene e non si diedero pensiero di niente.

Abbiamo visto poi quelle cinquemila persone e poi le altre tremila, che ottennero il cibo da Dio senza darsi alcun affanno ( At 2,41; At 4,4 ).

Se dopo tutti questi argomenti e tutti questi esempi non siete ancora capaci di sciogliere le dure catene che vi legano, liberatevi dall'affanno almeno riconoscendone l'inutilità.

Chi di voi, infatti, con l'affannarsi può aggiungere alla sua età una spanna? ( Mt 6,27 ), aggiunge Cristo.

Vedete come egli si serve ora di un paragone chiaro e comprensibile, per far capire una verità oscura e nascosta.

Pur dandovi da fare, egli dice, voi non potete far crescere neppure un poco il vostro corpo; ebbene, allo stesso modo non potete, neppure con tutte le preoccupazioni e gli affanni, assicurarvi il cibo.

Con queste parole Gesù ci fa vedere con estrema chiarezza che non è affatto la nostra cura, ma soltanto la provvidenza di Dio che compie tutto, anche in quelle cose in cui sembra che noi abbiamo la parte attiva.

Se Dio infatti ci abbandonasse, nessuna cosa più sussisterebbe e periremmo tutti inevitabilmente con i nostri affanni, le nostre inquietudini e le nostre fatiche.

Giovanni Crisostomo, Commento al Vangelo di san Matteo, 21,3

3. - Ammonimento contro l'ozio

Attendi sempre a qualche lavoro manuale, affinché il diavolo ti trovi sempre occupato.

Se gli apostoli, che avevano diritto di vivere del Vangelo, lavoravano con le loro mani per non essere di peso a nessuno, e anzi porgevano ristoro agli altri dai quali, in cambio dei beni spirituali, avevano diritto di cogliere i beni temporali, perché tu non dovresti procurarti col lavoro quanto è necessario al tuo sostentamento?

Puoi intrecciare una cesta con i giunchi, intessere canestri di vimini flessibili, sarchiare la terra, tracciare solchi regolari nel tuo campicello, e dopo averci seminato i legumi e disposto con ordine le piante, portarci l'acqua per l'irrigazione.

Potrai così assistere allo spettacolo descritto da questi magnifici versi: « Ecco, dal ciglio di un sentiero scosceso fa sgorgare l'onda; questa cadendo fra sassi levigati sprigiona un roco mormorio e con i suoi zampilli irrora le zolle riarse » [ Virgilio, Georgiche, I,108-110 ].

Innesta gli alberi sterili con gemme o polloni, e in poco tempo potrai cogliere i dolci frutti del tuo lavoro.

Costruisci arnie per le api, alle quali ti rimandano i Proverbi ( Pr 6,8 ), e impara da questi piccoli insetti l'ordine e la disciplina regale che devono regnare in un monastero.

Intessi anche reti per la pesca, trascrivi dei libri: così la mano ti procurerà il cibo e la lettura sazierà l'anima.

Ogni ozioso è in balia delle passioni.

I monasteri d'Egitto seguono questa norma: non accettano nessuno che si rifiuti di esercitare il lavoro manuale, necessario, più che per il cibo, per la salvezza dell'anima; altrimenti si perderebbero in pericolose fantasie e, come fece Gerusalemme la fornicatrice, si esporrebbero a ogni passante.

Girolamo, Le Lettere, IV, 125,11 ( al monaco Rustico )

4. - Il cristiano di fronte al lavoro

Si deve peraltro sapere che chi lavora deve farlo non per sovvenire alle proprie necessità, ma per adempiere al comando del Signore che dice: Ebbi fame e mi deste da mangiare ( Mt 25,35 ), ecc.

Preoccuparsi infatti di sé è assolutamente proibito dal Signore, che dice: Non vi affannate per la vostra vita, di quel che mangerete, né per il vostro corpo, di che vi vestirete, soggiungendo poi: Tutte cose di cui vanno in cerca i pagani ( Mt 6,25.32 ).

Ciascuno dunque nel lavoro deve proporsi lo scopo di sollevare i bisognosi, non di sovvenire alle proprie necessità.

In questo modo fuggirà l'accusa di amor proprio e riceverà lode di amor fraterno dal Signore che ha detto: Ciò che avete fatto a uno di questi miei fratelli minimi, lo avete fatto a me ( Mt 25,40 ).

Nessuno pensi che questa nostra asserzione si opponga alle parole dell'Apostolo: Affinché lavorando mangino il pane da loro guadagnato ( 2 Ts 3,12 ).

Sono parole rivolte ai neghittosi, ai dissoluti: è certo meglio, di una vita trascorsa nell'inattività, che ognuno si guadagni il proprio sostentamento e non sia di gravame agli altri.

Abbiamo infatti sentito, dice, che alcuni di voi menano vita neghittosa e, invece di lavorare, si occupano solo in vane curiosità.

Ora a questi tali, soggiunge, noi ordiniamo, e li scongiuriamo nel Signore Gesù Cristo, che lavorino in pace, per poter così mangiare il pane da loro guadagnato ( 2 Ts 3,11-12 ).

Anche le parole: Con fatica e stento abbiamo lavorato notte e giorno per non essere di peso a nessuno ( 2 Ts 3,8 ), hanno lo stesso senso: per amore dei fratelli l'Apostolo si distanziava dagli scioperati e si assoggettava alla fatica più di quanto gli fosse prescritto.

Del resto, chi tende alla perfezione deve lavorare giorno e notte per avere di che dare a chi ne ha bisogno.

Chi pone la propria speranza in se stesso o in colui cui è stata affidata la cura delle sue necessità e chi ritiene che il lavoro proprio o quello del compagno sia sufficiente sostegno per la vita, precisamente poiché pone la propria speranza in un uomo, corre il pericolo di soggiacere alla maledizione così espressa: Maledetto l'uomo che pone la propria speranza nell'uomo o che fa della carne il proprio braccio ( difensivo ); la sua anima ha apostatato da Dio ( Ger 17,5 ).

Con le parole: « Chi pone la propria speranza nell'uomo » la Scrittura proibisce di collocare la propria fiducia in un altro; con le parole invece: « E fa della carne il proprio braccio », proibisce di confidare in se stessi.

E definisce apostasia sia questo, sia quello; e dell'uno e dell'altro espone la fine: Sarà come un albero nel deserto e non vedrà tempi buoni ( Ger 17,6 ).

Dichiara dunque che confidare o in sé o negli altri è apostatare da Dio.

Basilio il Grande, Regole lunghe, 42,1-2

5. - L'esempio dell'apostolo Paolo

Quell'uomo, che era maestro di tutta la terra, che raggiungeva tutti gli abitanti del mondo e si prendeva cura, con grande impegno, di tutte le Chiese, di tutti i popoli, di tutte le stirpi e le città sotto la faccia del sole, lavorava giorno e notte e non desisteva, neppure per breve tempo, dalla sua fatica.

E non si vergognava Paolo, quando dava di mano al coltello e tagliava le pelli, e doveva poi intrattenersi con uomini riguardevoli per carica e dignità; no: si gloriava perfino della sua attività, anche se mille persone altolocate e importanti da lui si recavano.

Anzi, tanto poco si vergogna della sua occupazione, che nelle sue lettere innalza la sua professione quasi su una colonna di bronzo.

Il lavoro manuale, che da giovane aveva appreso, lo occupò anche in seguito, anche dopo che fu rapito al terzo cielo e condotto in paradiso e udì da Dio parole piene di mistero.

Ma noi, che non saremmo neppure degni di sciogliere i suoi sandali, ci vergogniamo di ciò che per lui era un vanto.

Noi rifuggiamo come fosse ignominioso e detestabile dal vivere di un onesto lavoro.

Giovanni Crisostomo, Omelia sulle parole « Salutate Aquila e Priscilla »

6. - Lavorare, non farsi prestar soldi!

Ma come potrò campare?, mi si chiede.

Hai le mani, hai un mestiere: lavora per guadagnare, servi!

Ci sono molte strade, molte possibilità di guadagnarsi il pane.

Lo ritieni impossibile? Chiedi l'elemosina ai ricchi, allora!

Ma elemosinare è vergogna? É più vergogna ancora ingannare i creditori chiedendo prestiti.

Certo, non intendo dettar leggi, ma solamente mostrare che tutto è più sopportabile piuttosto che far debiti.

La formica sa mantenersi senza mendicare e senza chiedere soldi, l'ape offre il superfluo del suo vitto ai re.

Eppure la natura non ha dato a queste bestiole né mano né mestiere.

Ma tu, un uomo, una creatura ragionevole, non troverai tra tutte le arti una sola con cui sostentare la tua vita?

Del resto, vediamo che non è chi combatte contro le necessità della vita a cercare prestiti - non troverebbe nessun creditore! -; ma è gente piena di sfarzo e lusso inutile che fa debiti; gente che si lascia comandare dalle pretese della moglie e dalle passioni.

Ho bisogno - si dice - di un vestito prezioso, di un monile d'oro; i bambini devono essere vestiti eleganti, alla cittadina; anche per la servitù è necessaria una livrea bella, a colori, e la tavola deve essere ricercata.

Chi dunque si mette a servire così una donna, va dall'usuraio e piuttosto che far le sue compere col denaro ricevuto, si accumula un padrone sull'altro, si obbliga con sempre nuovi creditori e continuando ad agire così sfugge la nomea di povertà.

E come si crede che gli idropici stiano bene, così anche lui viene considerato ricco, perché continuamente prende e continuamente dà, paga i debiti vecchi con debiti nuovi e continua fatalmente a farsi credito, per poter continuare a far prestiti.

I colerosi vomitano sempre ciò che hanno mangiato e con violenta evacuazione, tra dolori e convulsioni, si liberano da ogni nuovo cibo; così si comportano anche quelli che cambiano interessi con nuovi interessi e prima di estinguere un debito ne contraggono un altro, e facendosi grandi per un po' di tempo col denaro altrui, alla fine piangono la perdita di ogni loro avere.

Molti uomini sono stati rovinati dal denaro degli altri!

Quanti sognavano di essere ricchi e sono caduti in grande miseria!

Ma, si dice, molti si sono anche arricchiti con i prestiti.

Ma molti di più, io credo, si sono ridotti alla corda.

Tu guardi solo quelli che sono diventati ricchi, e non conti quelli che si sono addirittura impiccati, perché sotto l'oppressione della vergogna o dell'impossibilità di soddisfare, hanno preferito la morte a una vita disonorata.

Basilio il Grande, Omelia contro gli usurai, 4

7. - Il lavoro è un dovere

Nostro Signore Gesù Cristo dice: Chi lavora ha diritto al suo sostentamento ( Mt 10,10 ); non è dunque un diritto semplicemente e indiscriminatamente di tutti, ma di chi lavora.

Anche l'Apostolo ci comanda di lavorare e di procurarci con le nostre mani di che elargire ai bisognosi ( Ef 4,28 ): è chiaro dunque che si deve lavorare, e con diligenza.

Non dobbiamo ritenere perciò che scopo della vita di pietà sia la neghittosità pretestuosa o la fuga dal lavoro: è invece motivo di un maggior impegno di un maggior lavoro, di una maggior pazienza nelle tribolazioni, perché ci sia dato di dire: Con fatica e con travaglio, con veglie estenuanti, sopportando la fame e la sete ( 2 Cor 11,27 ).

Genere di vita, questo, che ci è utile non solo per mortificare il nostro corpo, ma anche per dimostrare amore al prossimo, affinché anche ai fratelli deboli Dio porga, per opera nostra, il necessario, secondo l'esempio dell'Apostolo che negli Atti dice: In tutto vi ho dimostrato che faticando così bisogna sovvenire i deboli ( At 20,35 ); e ancora: Perché abbiate di che dare a chi ha bisogno ( Ef 4,28 ).

In questo modo saremo degni di udire un giorno: Venite, benedetti del Padre mio, ereditate il regno per voi preparato sin dalla creazione del mondo.

Ebbi fame, infatti, e mi deste da mangiare; ebbi sete, e mi deste da bere ( Mt 25,34-35 ).

É necessario dire, dunque, che male sia l'ozio, se l'Apostolo comanda apertamente che chi non lavora non mangi!

Come per ciascuno è necessario il cibo quotidiano, così è necessario il lavoro quotidiano.

Non invano Salomone ha scritto, in lode ( della donna laboriosa ): Il pane che mangia non è frutto di pigrizia ( Pr 31,27 ), e di se stesso ancora l'Apostolo dice: Non abbiamo mangiato a spese altrui il pane di nessuno, ma con fatica e stento abbiamo lavorato giorno e notte ( 2 Ts 3,8 ) quantunque, come annunciatore del Vangelo, avesse diritto di vivere del Vangelo.

E il Signore ha unito la malvagità alla pigrizia, dicendo: Servo pigro e malvagio ( Mt 25,26 ).

Anche il saggio Salomone non solo loda chi lavora, come abbiamo detto, ma anche condanna il pigro, mettendolo al confronto con l'animale più piccolo; dice infatti: Va' dalla formica, o pigro! ( Pr 6,6 ).

Dobbiamo dunque temere che, nel giorno del giudizio, queste parole non vengano rivolte a noi, perché chi ci ha dato la forza di lavorare esigerà da noi delle opere proporzionate a tale forza.

Infatti: A chi molto è stato dato, più sarà richiesto ( Lc 12,48 ).

Dato che alcuni con il pretesto di pregare e di cantare i salmi ricusano il lavoro, si sappia che per le altre opere ciascuno ha il proprio tempo, secondo quanto dice l'Ecclesiaste: Per ogni azione c'è il suo tempo ( Qo 3,1 ); ma per la preghiera e il canto dei salmi, come per altre attività simili, ogni tempo è adatto.

Così, mentre muoviamo le mani nel lavoro, anche con la lingua, se ci è possibile o utile all'edificazione della fede, o in ogni modo con il cuore, dobbiamo inneggiare a Dio con salmi, inni e cantici spirituali e così elevare la nostra preghiera anche nel lavoro; ringraziando in tal modo colui che ha dato alle nostre mani la forza di lavorare e alla nostra mente la capacità di conoscere, elargendoci anche la materia, sia degli strumenti, sia degli oggetti che con la nostra arte fabbrichiamo.

E supplicando anche che le nostre opere siano dirette allo scopo di piacere a Dio.

Basilio il Grande, Regole lunghe, 37,1-2

8. - Lavoro e bene comune

Come puoi lamentarti del lavoro, tu che tanto volentieri tutto deridi e motteggi?

L'umanità ha forse qualcosa di buono senza lavoro?

É giunta a qualche specie di felicità senza fatica?

Tramite il lavoro raccogliamo i frutti della terra e dei commerci.

Tramite il lavoro innalziamo città, abitiamo in case, ci vestiamo, ci calziamo i piedi e imbandiamo la nostra tavola con varie vivande.

Ma perché devo enumerare tutti i vantaggi che il lavoro ci arreca?

Un uomo che se ne vergogna mi sembra un fuco cresciuto nell'infingardaggine: vuol vivere del lavoro altrui senza cooperare al bene comune; ha da dire su ogni evento al mondo: vizio che deriva dall'ozio.

Dato che ogni bene ci viene dal lavoro, non denigrare la classe servile che al lavoro è dedicata.

Ricorda che anche i padroni devono lavorare come i servi, anzi più di loro, perché si devono calcolare anche le preoccupazioni.

Rivolgi dunque i tuoi occhi su coloro che vivono per l'opera delle loro mani.

e dunque non solo i servi, ma anche i padroni devono lavorare, perché biasimi la situazione servile e il lavoro che comporta?

Il lavoro è comune ai servi e ai padroni, ma non le preoccupazioni.

E se i servi lavorano come i padroni, questi sono oppressi anche dalle cure.

Perché non si dovrebbe ritenere questo una sfortuna?

Teodoreto di Ciro, La divina provvidenza, 7

9. - L'esempio delle api

Le api, che tra i volatili costituiscono una specie umilissima, conducono una vita sociale e comunitaria; per la loro debolezza sono armate del pungiglione; vanno e vengono volando, in ordine, dall'alveare; attraversano l'aria, volano nei prati, nei campi, nei pascoli; si posano sulle foglie, sui fiori e sui frutti; colgono il polline e tutto ciò che è loro utile, se ne caricano le zampe e le spalle, e così tornano al loro alveare.

Costruiscono inoltre i loro favi senza usare né piombo né squadra, eppure costruiscono gli angoli perfettamente uguali, meglio che se conoscessero tutta la geometria; intessono la trama delle pareti, i diaframmi che separano il miele, sottilissimi, come di fili e scaglie, e in queste pareti tenuissime raccolgono il miele, per sua natura fluente, e riempiono così di questo liquido dolcissimo i vasi.

Il genere umano, con la sua distinzione fra maestri e discepoli, con tutta la fatica e tutto il tempo impegnato nel migliorare la propria arte, che ha mai fatto di simile a ciò che fa la razza delle api, laboriosa e amante del bello?

Senza la distribuzione fra maestri e discepoli, senza apprendere l'arte a suono di frusta e di verghe, ma per una conoscenza connaturata e insita dell'architettura, costruisce i favi e riempie i suoi vasi.

E riempie questi vasi, per di più, senza pigiare i grappoli, senza nuocere agli altri frutti; succhiando una lieve rugiada, crea, per sua particolare capacità, la sostanza del miele.

E da ciò, che potrebbe essere un'accusa, ricaviamone una difesa: la difficoltà si scioglierà facilmente da sola.

Infatti il loro lavoro copioso e ingegnoso, e il frutto prezioso e dolcissimo del loro lavoro, le api lo offrono al genere umano: come schiavi, soggetti alla legge del loro padrone, escono da casa, colgono ciò che il loro lavoro richiede, si affannano a trasportarlo, costruiscono con cura le celle, vi versano il miele, vi imprimono segni e suggelli come su un tesoro e lo offrono continuamente agli uomini, quasi fossero loro re, a guisa di tributo o donativo.

Perché le disprezzi dunque, o miserabile?

Ne godi il tributo, ne esigi il donativo, e le oltraggi; ti nutri del lavoro altrui e scagli le frecce delle tue parole ingrate contro chi ti vettovaglia.

E non solo cogli i frutti della loro fatica, ma ne ricavi anche altri benefici.

Anzitutto impari quanti beni la concordia arrechi e quanto siano dolci i suoi frutti.

Le schiere delle api conducono una vita fortemente sociale: nulla tra di esse è proprio, ma la ricchezza è comune e il possesso indiviso.

Non hanno né liti né tribunali, perché non si offendono a vicenda, perché nessuna vuole più di ciò che le spetta: sono sempre dedite al lavoro e cacciano dagli alveari i fuchi che, inabili al lavoro, vogliono cibarsi delle fatiche altrui.

Odiano la poliarchia e la democrazia: hanno un solo capo, e gli obbediscono con gioia.

Tutte fanno o subiscono tutto ciò, senza udire discorsi, senza leggere leggi, senza frequentare maestri; nessuna è più saggia dell'altra, né la vecchia sa più della giovane: tutte eseguono insieme ciò che abbiamo esposto, pur non avendo scienza razionale, ma avendo ricevuto nella loro natura, dal Creatore di tutto, tanto amore al lavoro, all'ordine, al decoro.

Tutto questo, nei suoi particolari, ti è di grande utilità.

Tu, che sei ragionevole, impari da chi è privo di ragione a fuggire come un grave danno la vita oziosa, ad aspirare seriamente alla virtù e raccoglierne tutti i tesori.

Impari a non ambire al potere che non ti spetta, ad amministrare rettamente e giustamente ciò che è tuo, a stimarlo bene comune e permetterne il godimento ai bisognosi.

Per coloro che sono saggi e hanno conservato integro il carattere distintivo della loro natura, è sufficiente ciò che insegna loro la ragione innata; per quelli invece che l'hanno rovinato e si sono dati a una vita bestiale, rapace e sanguinaria, la vita tanto ordinata di questi animali privi di ragione costituisce una perenne accusa.

Pensando perciò alla tua utilità, il Creatore ha arricchito di tali prerogative questi animali, perché tu ne sappia ricavare frutto.

E te lo attesta Salomone, che ti esorta dicendoti: Va' dalla formica, o pigro, e imita il suo comportamento ( Pr 6,6 ).

Oppure: Recati dall'ape, apprendi quanto sia laboriosa e con quanta onestà eseguisca il suo lavoro; e del suo lavoro tanto i re quanto i privati ne hanno giovamento alla propria salute.

Teodoreto di Ciro, La divina provvidenza, 5

10. - Il lavoro ordinato e gioioso delle api

Nessun popolo, né i persi, nonostante le loro rigide leggi sui sudditi, né gli indi, né i sarmati hanno per il loro re tanta reverenza e devozione quanta le api.

Nessuna osa uscire di casa, darsi alla ricerca del cibo, se prima non esce la regina rivendicando a sé, col suo volo, l'autorità suprema.

Lo sciame attraversa i prati odorosi, tra i fiori profumati dei campi, ove il ruscello scorre tra l'erba, tra le ripe amene.

Ivi si svolgono le gare della fervida gioventù, ivi hanno luogo le esercitazioni campali e ivi si gode il riposo dalle fatiche.

Ma lo stesso lavoro è soave.

Dai fiori, dalle erbe dolci si raccoglie prima il materiale per le fondamenta dell'accampamento.

Che altro infatti è il favo se non una specie di accampamento?

Del resto, da tali sedi si devono scacciare i fuchi.

E quale accampamento quadrato mostra tant'arte e tanta bellezza, quanto i favi in cui le celle, minute e rotonde, si connettono a vicenda?

Quale architetto ha insegnato loro a costruire le celle a esagono, a comporre i lati di diverso spessore, a sospendere nell'interno della casa la cera tenue, a stipare le celle di miele, a gonfiare di nettare i ripostigli intessuti dai fiori?

Guarda come tutte compiono a gara il loro compito: queste non si danno requie cercando il vitto, quelle con diligenza montano di sentinella all'accampamento.

Quelle vigilano sull'avvicinarsi della pioggia e osservano il corso delle nubi, quelle estraggono dai fiori la cera, quelle raccolgono la rugiada sparsa sui fiori.

Nessuna insidia il lavoro altrui o vive di rapina.

Tuttavia, magari non dovessero temere le insidie e le rapine!

Sono armate però del loro pungiglione, tra il miele versano veleno; attaccate, sacrificano la loro vita, nell'ardore della loro vendetta.

All'interno dell'accampamento viene versato quell'umore di rugiada che adagio, col tempo, si raccoglie in miele e la cera, liquida all'inizio, si rassoda, mentre il miele soave comincia a diffondere il suo profumo di fiori.

Ambrogio, Esamerone, 5,68-69

11. - La formica è esempio di laboriosità

Anche tra gli animali vi è un tratto che la parola profetica ci esorta a imitare; un esempio che ci spinge a fuggire la pigrizia, a non deflettere dallo studio della virtù per la piccolezza o l'infermità del nostro corpo, a non venir meno a tutti i nostri propositi di grandezza.

Piccola è infatti la formica, ma osa compiere opere maggiori delle sue forze.

Non è la schiavitù che la spinge a lavorare, ma per spontanea preveggenza si prepara il cibo per il futuro.

A che tu imiti la sua industriosità ti ammonisce la Scrittura, dicendo: Confrontati con la formica, o pigro, e imita le sue vie: sii più saggio di essa ( Pr 6,6 ).

Essa infatti non possiede campi coltivati, non ha chi la domini e non vive sotto padrone, ma sa come procurarsi il cibo, che va ammassando dal frutto del tuo lavoro.

E tu per lo più sei nel bisogno: essa non ha bisogno di nulla.

Nessun granaio le è chiuso, nessun magazzino le è impenetrabile, nessun mucchio le è inaccessibile.

Il custode vede e non osa proibirle il furto: il padrone osserva i propri danni, e non prende rimedi.

La preda viene trascinata per i campi dalla schiera nera, il sentiero brulica per la truppa dei passanti; e i grandi chicchi di frumento, che non possono venir afferrati dalle piccole mandibole, vengono trascinati sulle spalle.

Guarda ciò il padrone della messe, ma arrossirebbe di negare un così piccolo contributo a tanta fervida laboriosità.

Ambrogio, Esamerone, 6,16

12. - Il cuore umano è come una mola da mulino

L'attività del cuore umano può essere paragonata, con similitudine non sconveniente, a quella delle mole spinte in moto rotatorio dalla corrente dell'acqua.

Esse non possono mai cessare dalla loro attività, perché mosse dall'impulso dell'acqua; ma è in potere del mugnaio o macinare frumento o triturare orzo oppure loglio.

Ed essa deve senz'altro macinare ciò che le viene sottoposto da colui cui è affidato il lavoro.

Così anche la mente umana, sotto l'impeto della vita presente su cui d'ogni dove si riversano i torrenti delle tentazioni, non può essere libera da un continuo pullulare di pensieri.

Ma quali essa debba ammettere e quali allontanare, lo predisporrà essa stessa con il suo studio e la sua diligenza.

Infatti se, come ho detto, ricorriamo continuamente alla meditazione delle sacre Scritture, se innalziamo la nostra mente al ricordo delle realtà spirituali, al desiderio della perfezione, alla speranza della futura beatitudine, necessariamente ne sorgeranno pensieri spirituali e la nostra mente si indugerà nelle nostre meditazioni.

Se invece, vinti dalla negligenza o dalla pigrizia, ci occupiamo in chiacchiere viziose o oziose, se ci lasciamo prendere dalle cure mondane e dalle sollecitudini superflue, ne conseguirà la nascita di una specie di zizzania, che occuperà il nostro cuore in attività nociva.

Infatti, secondo una sentenza del Signore e Salvatore, ove sarà il tesoro delle nostre opere e delle nostre ambizioni, là si troverà necessariamente il nostro cuore ( Mt 6,21 ).

Giovanni Cassiano, Conferenze, 1,18

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